Lecito riformare la sentenza di proscioglimento per violenza sessuale senza ascoltare le parti offese (Cass. pen. n. 32798/2013)

Redazione 29/07/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 2 luglio 2012 la Corte d’appello di Venezia, su appello del PG, del PM e delle parti civili, riformava la sentenza dell’11 giugno 2008 con cui il Tribunale di Padova aveva prosciolto ex art. 530 cpv. c.p.p. B.S. e N.S. perchè il fatto non sussiste, condannandoli alla pena di anni sei e mesi tre di reclusione per i reati, per il primo, di cui agli artt. 81 cpv. e 609 bis e art. 609 ter c.p., n. 4 (commesso nei confronti di C. A., costituitasi parte civile) – capo a -, per il secondo, di cui all’art. 609 bis c.p. e art. 609 ter c.p., n. 4 (commesso nei confronti di T.C.S., pure costituitasi parte civile) – capo b -, nonchè, per entrambi, di cui agli artt. 81 cpv., 582 e 585 in relazione all’art. 576 c.p., n. 1 e art. 61 c.p., n. 2 al fine di commettere il reato di violenza sessuale – capo e – e agli artt. 110 e 605 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 5 ancora allo stesso fine – capo d -, con condanna al risarcimento dei danni alle parti civili.

2. Ha presentato ricorso il difensore di B.S., adducendo due motivi: il primo denuncia violazione di legge e vizio motivazionale nella ricostruzione dei fatti rispetto a quanto stabilito dal primo giudice, in particolare con violazione dei criteri di valutazione delle testimonianze delle parti offese e delle prove testimoniali acquisite in dibattimento; il secondo denuncia ancora violazione di legge e vizio motivazionale in relazione agli artt. 133 e 62 bis c.p., essendo la motivazione contraddittoria sui criteri di commisurazione della pena.

Ha presentato ricorso il difensore di N.S., sulla base di due motivi: vizio motivazionale in ordine alla responsabilità penale e vizio motivazionale nonchè violazione degli artt. 133 e 62 bis c.p. sulla quantificazione della pena.

In data 20 maggio 2013 è stata depositata memoria difensiva delle parti civili che hanno chiesto la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dei ricorsi.

Motivi della decisione

3. I ricorsi sono infondati.

3.1 Il ricorso B. pone come primo motivo il vizio di manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione dei fatti e degli accertamenti istruttori rispetto al contenuto della sentenza di primo grado. Ciò riguarderebbe in particolare i criteri di valutazione delle prove testimoniali delle parti offese, che sarebbero a loro volta illogiche come rilevato dal primo giudice e prive di riscontri esterni. Ma sarebbe violato anche l’art. 192 c.p.p. in relazione alle testimonianze di terzi acquisite nel dibattimento (in particolare i testi a difesa, cioè operatori sociali del Comune di Padova e della Caritas diocesana, nonchè i cittadini romeni presenti sul vagone ferroviario dove gli imputati avrebbero portato di forza le parti offese, liquidati dalla corte come inattendibili perchè “popolazione socialmente emarginata”).

Analoga è l’impostazione del primo motivo del ricorso N., che denuncia mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità penale, richiamandosi al contenuto della sentenza di primo grado rispetto al quale la corte solo apparentemente avrebbe contrapposto un’adeguata diversa ricostruzione, “affidandosi in realtà ad una catena di macroscopiche forzature” e non adempiendo all’obbligo di confutazione specifica che grava sul giudice d’appello che riforma la prima sentenza assolutoria nel senso opposto di condanna. A ciò fa seguito una serie di rilievi meramente fattuali sugli esiti probatori.

3.2 Il contenuto appena sintetizzato dei suddetti motivi ne consente l’accorpamento e la valutazione unitaria. Quel che viene censurato, in sintesi, è proprio l’inadempimento da parte del giudice d’appello dell’intenso obbligo motivazionale di confutazione specifica della motivazione della sentenza assolutoria. Detto obbligo, che da un lato costituisce il contrappeso in punto di garanzia e di logica processuali alla natura generalmente cartolare dell’appello – essendosi formate le prove anteriormente, ed emergendo così un delicato equilibrio da rispettare nei riguardi del principio del contraddittorio -, e dall’altro manifesta rispetto consapevole alla ineludibile connotazione di potenziale stabilità propria del primo accertamento giurisdizionale – tanto più quando, essendo di contenuto assolutorio, è sostenibile che detto contenuto abbia riscontrato ed espresso il “ragionevole dubbio” di cui all’art. 533 c.p.p. -, è a tal punto certo sotto il profilo giurisprudenziale da potersi qualificare diritto vivente. Invero, secondo l’orientamento ormai tradizionale (ratificato e consolidato da S.U. 12 luglio 2005 n. 33748) il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, così dando conto delle ragioni d’incompletezza o incoerenza che ne giustificano la riforma. Dinanzi a un precedente difforme, quindi, il giudice d’appello, che pure ha il potere di pervenire ad una ricostruzione del fatto totalmente diversa da quella effettuata dal primo giudice (Cass. sez. 4, 7 luglio 2008 n. 37094), non può sorreggere la nuova versione fattuale rapportandosi esclusivamente alle argomentazioni delle parti nè tanto meno avvalendosi dello strumento (applicabile invece agli atti difensivi e alle risultanze probatorie, peraltro se non decisive: Cass. sez. 4, 13 maggio 2011 n. 26660 e Cass. sez. 6, 4 maggio 2011 n. 20092) della motivazione implicita, occorrendo che comunque si confronti tramite modalità specifiche e complete con la struttura accertatoria impiantata dal giudice di primo grado (Cass. sez. 6, 29 aprile 2009 n. 22120), dimostrandone l’insostenibilità sul piano logico e giuridico quantomeno sugli argomenti più rilevanti e comunque stendendo una motivazione completa e convincente che si sovrapponga a tutto campo su quella del primo giudice (Cass. sez. 5, 5 maggio 2008 n. 35762) per giustificare la sostituzione dell’accertamento, ovvero per collocare il proprio “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Per valorizzare questo presidio della presunzione di non colpevolezza in recenti arresti si è sottolineato che, nell’espletare una siffatta reformatio in peius, il giudice d’appello non deve accontentarsi di una diversa valutazione del compendio probatorio, occorrendo che la sua ricostruzione non sia meramente alternativa bensì dotata di una forza persuasiva superiore a quella del primo giudice, così da estinguere, appunto, ogni ragionevole dubbio (Cass. sez. 6, 21 novembre 2012 n. 49755; Cass. sez. 6, 10 ottobre 2012 – 10 gennaio 2013 n. 1266; Cass. sez. 6, 10 luglio 2012 n. 46847; Cass. sez. 2, 27 marzo 2012 n. 27018; Cass. sez. 6, 26 ottobre 2011 – 9 febbraio 2012 n. 4996; Cass. sez. 6, 3 novembre 2011 n. 40159; nello stesso senso per la riforma della sentenza assolutoria ai soli fini civili Cass. sez. 6, 19 dicembre 2012-11 gennaio 2013 n. 1514).

A ben guardare, in effetti, quel che il giudice d’appello riformante un’assoluzione deve rappresentare tramite la motivazione non è una ricostruzione diversa meramente alternativa rispetto a quella della prima sentenza, nè una ricostruzione dotata meramente di una forza persuasiva superiore ad essa: il giudice penale non compie un accertamento probabilistico, in cui rilevi la corrispondenza alla verità giuridica in termini di percentuale di probabilità più o meno alta; il giudice penale deve giungere all’unica ricostruzione fattuale realmente ragionevole, poichè altrimenti permane lo spazio per una ragionevolezza contraria, ovvero il ragionevole dubbio.

Corretta, quindi, è soltanto la formula che richiede al giudice d’appello che riforma un’assoluzione di argomentare circa la configurabilità dell’apprezzamento diverso da quello del primo giudice “come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio” (così Cass. sez. 6, 24 gennaio 2013 n. 8705). Non può, peraltro, non considerarsi che la valutazione dell’apprezzamento fattuale come unico ragionevole, e dunque tale da sostituire l’apprezzamento adottato dal primo giudice, benchè rivestita nella forma motivazionale come un’esternazione congruamente completa e logicamente serrata del percorso battuto dal giudice per pervenirvi, rimane al giudice di merito, non spettando al giudice di legittimità di “scegliere” tra la conformazione fattuale del primo giudice e quella del secondo, la sua valutazione in caso di riforma non dilatandosi, il controllo di legittimità della sentenza d’appello bensì consistendo nel confronto tra le due motivazioni nel senso di verifica dell’adeguata confutazione effettuata dal secondo giudice delle ragioni poste a base della sua decisione dal primo (Cass. sez. 6, 7 aprile 2011 n. 26810) in aggiunta alla verifica della struttura motivazionale che sorregge la ricostruzione fattuale espletata dal giudice d’appello.

3.3 Nel caso di specie, la corte territoriale ha correttamente adempiuto al duplice obbligo motivazionale appena evidenziato. Il centro della ricostruzione essendo costituito, come ordinariamente avviene nei reati di violenza sessuale, dalle dichiarazioni delle parti offese, ritenute inattendibili dal primo giudice, la corte, nel descrivere lo svolgimento del processo, ha elencato analiticamente (pagine 6-7) le ragioni per cui il Tribunale era pervenuto ad affermarne l’inattendibilità (assenza di riscontri alle dichiarazioni – le lesioni trovate a carico della T. secondo il Tribunale sarebbero ambigue potendo derivare dall’essere rimasta la donna seduta su una canna di bicicletta per molto tempo; incongruenze tra le due deposizioni e inverosimiglianze riguardo la condotta degli imputati; il fatto che altre persone che pernottavano sul vagone dove la C. sarebbe stata portata da B., cioè i testi Ch. M. e V.M., avevano dichiarato di non averla notata;

la non plausibilità che la C. all’esame medico non avesse mostrato tracce di violenza e che la T. nella sua condizione fisica avesse potuto camminare per chilometri nella notte per raggiungere un’abitazione che non era plausibile potesse aver trovato vuota dato che l’abitava la convivente del B.; l’assenza di tracce spermatiche del N. sugli indumenti intimi della T.;

il fatto che nessuna delle persone con cui le parti offese erano venute a contatto si fosse accorta della loro situazione;

l’inverosimiglianza della fuga viste le condizioni fisiche della T.). Dopo un ampio riassunto del contenuto degli appelli, la corte ha pertanto affrontato la questione proprio dell’attendibilità delle parti offese, esaminando con attenta specificità gli indici di credibilità evincibili dal compendio probatorio (motivazione, pagine 10-13) e con la stessa attenzione puntuale vagliando poi in modo congruo e approfondito le deposizioni degli altri testimoni (pagine 13-14, nonchè pagina 22) per innestarne le risultanze ancora sul vaglio dell’attendibilità delle testimoni “centrali” (pagine 14 ss.).

Sempre con modalità di rigorosa analisi la corte ha considerato la versione degli imputati, evidenziandone la contraddittorietà reciproca, nonchè il contenuto ondivago della testimonianza della convivente del B., espletando un raffronto di tali elementi con la effettiva logicità della versione dei fatti delle parti offese e sottolineando la significatività dell’immediata partenza dall’Italia del B. in concomitanza con la fuga delle due ragazze dal vagone ferroviario dove gli imputati, secondo il racconto delle vittime, le avevano costrette. La corte ha valutato anche l’insignificanza del mancato reperimento dell’automobile che gli imputati avrebbero utilizzato, dello strumento che sarebbe servito per le percosse e dell’asciugamano insanguinato menzionato dalla vittima, evidenziando che vi era stato il tempo per eliminare i reperti dopo la fuga delle ragazze; ha quindi analizzato il dato della conoscenza da parte della T. di un “intimo” neo del N. e ampiamente la questione dei reperti biologici. Ha tratto infine le fila valorizzando, in piena logica, la necessità di contestualizzare i vari elementi e concludendo appunto nel senso che la sequenza di quelli esaminati smentivano quanto valutato dal primo giudice in conformità alle difese degli imputati.

3.4 Di per sè, dunque, i due motivi in esame vanno rigettati.

Peraltro, è necessario rilevare d’ufficio un ulteriore profilo.

Il potere del giudice d’appello di espletare una completa reformatio in peius deve confrontarsi con le norme sovranazionali della CEDU alla luce soprattutto di due recenti interventi, in riferimento all’art. 6, della Corte Europea dei diritti dell’uomo. La Terza Sezione della Corte di Strasburgo, infatti, con sentenza del 5 luglio 2011, causa *** c. Moldavia, richiamando peraltro la sua precedente giurisprudenza, ha da un lato dichiarato di ribadire “che le modalità di applicazione dell’art. 6 ai procedimenti davanti alle Corti d’Appello dipendono dalle particolari caratteristiche del procedimento in questione”, e dall’altro affermato che “se una Corte d’Appello è chiamata a esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta della prova”. Ciò significa che “in linea di massima” il giudice d’appello dovrebbe “poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità”, considerato che “la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate. Tuttavia, vi sono casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perchè, per esempio, egli o ella è deceduto/a, o per proteggere il diritto del testimone di non autoaccusarsi”. Poichè nel caso in esame (relativo alla corresponsione di una tangente a un pubblico funzionario) la situazione non era di tal genere, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 6 p. 1 CEDU. A seguito di questa pronuncia si è ravvivata la questione, già accesa da certa dottrina, delle modalità con cui il giudice d’appello può espletare la reformatio in peius, interpretandola nel senso che la Corte di Strasburgo avesse affermato la necessità dell’esame diretto dei testimoni di cui il secondo giudice valutava in modo differente l’attendibilità qualora dette testimonianze fossero prove decisive. In questo senso si è espressa Cass. sez. 5, 5 luglio 2012 n. 38085, che ha ritenuto che l’art. 6 CEDU imponga la rinnovazione dell’istruttoria in presenza di due presupposti: “la decisività della prova testimoniale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell’attendibilità dei testimoni”. Rinnovazione la cui necessità, nel caso, questa Suprema Corte ha escluso poichè il compendio probatorio a carico degli imputati non era costituito solo da prove testimoniali, ma da varie ulteriori prove (si trattava dei fatti del G8 di (OMISSIS)). Analoga interpretazione ha adottato Cass. sez. 2, 8 novembre 2012 n. 46065, evidenziando altresì che una correlata interpretazione dell’articolo 603 c.p.p. – tenendo conto pure delle già citate S.U. 12 luglio 2005 n. 33748 – “consente la più ampia rinnovazione del dibattimento”. Un cenno all’orientamento della Corte di Strasburgo, in forza della sentenza pronunciata nella causa *** c. Moldavia, nel senso che la riforma di una sentenza assolutoria debba “tendenzialmente seguire a un esame diretto degli elementi di prova da parte del giudice d’appello, con l’ovvio limite della impossibilità di ripetere l’atto” si riscontra in Cass. sez. 3, 29 novembre 2012-6 febbraio 2013 n.5854, significativamente in un caso in cui non era stata rispettata l’esigenza di contraddittorio tra le parti al momento della formazione della prova. Per l’obbligo della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in capo al giudice d’appello che “intenda operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile” si è schierata da ultimo Cass. sez. 6, 26 febbraio 2013 n. 16566.

3.5 Nella più recente causa Manolachi c. Romania la Corte Europea dei diritti dell’uomo, Terza Sezione, con sentenza del 5 marzo 2013 ha affrontato di nuovo, tra le altre, la questione del giudice d’appello che riforma la sentenza di assoluzione di primo grado basandosi sullo stesso compendio probatorio utilizzato dal primo giudice e ritenendo che quest’ultimo lo avesse erroneamente interpretato. Dinanzi alla doglianza del ricorrente che i giudici in tal modo lo avevano condannato (in questo caso non solo il giudice d’appello ma poi anche l’Alta Corte di cassazione e di giustizia, che senza ulteriori elementi di prova aveva respinto il ricorso per cassazione contro la sentenza di secondo grado) la Corte di Strasburgo ha rammentato che “le modalità di applicazione dell’art. 6 ai procedimenti di appello dipendono dalle caratteristiche di ogni singolo procedimento: si deve tenere conto complessivamente del procedimento nazionale e del ruolo attribuito al giudice d’appello nell’ordinamento giuridico nazionale. Quando si tiene una pubblica udienza in primo grado, l’assenza di dibattimento pubblico in appello può essere giustificata dalle peculiarità del procedimento in questione, tenuto conto della natura della procedura di appello nazionale, dell’ampiezza dei poteri del giudice di appello, del modo in cui gli interessi del ricorrente sono realmente stati esposti e tutelati dinanzi ad esso, e in particolare della natura delle questioni che esso doveva esaminare”, richiamando allo scopo il precedente *************** c. Spagna del 22 novembre 2011. Parimenti la corte ha richiamato la sua precedente giurisprudenza nel senso che un giudice d’appello non può, per motivi di equità del processo, decidere sulla colpevolezza dell’imputato senza valutare direttamente le testimonianze presentate personalmente dall’imputato stesso, riferendosi così ai testi della difesa. Sulla base di tali premesse, in sintesi, la Corte è giunta a ritenere che, nel caso sottoposto al suo esame (“in queste condizioni”), “la mancata audizione del ricorrente e dei testimoni da parte della corte d’appello e dell’Alta Corte prima di dichiarare il ricoprente colpevole ha limitato notevolmente i diritti della difesa, tanto più che l’appello della procura era motivato dalla differenza tra la data presa in considerazione nelle trascrizioni delle dichiarazioni dei testimoni a discarico e la data dell’incidente”. Pur non avendo il ricorrente chiesto nè l’audizione propria nè quella dei testimoni, “il giudice di ricorso” (cioè l’Alta Corte) doveva adottare d’ufficio misure a tale scopo; di qui la violazione dell’art. 6 p. 1 CEDU. Quest’ultima pronuncia della Corte di Strasburgo non è stata, ovviamente, considerata dagli anteriori arresti di questa Suprema Corte sopra citati quanto all’interpretazione della precedente pronuncia del 2011 *** c. Moldavia, interpretazione che, ora, deve tenere conto anche di essa, la quale si correla, come si è visto richiamandola, alla precedente giurisprudenza CEDU. 3.6 Occorre allora rilevare che nella sentenza *** c. Moldavia la Corte da un lato ha subito sottolineato che “le modalità di applicazione dell’art. 6 ai procedimenti davanti alle Corti d’Appello dipendono dalle particolari caratteristiche del procedimento in questione”, dall’altro ha concluso il suo ragionamento nel senso che “in linea di massima” il giudice d’appello dovrebbe “poter udire i testimoni personalmente”, sussistendo peraltro “casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perchè, per esempio, egli o ella è deceduto/a, o per proteggere il diritto del testimone di non autoaccusarsi”. Quel che viene indicato, quindi, dalla Corte come modalità di applicazione dell’art. 6 anzitutto non è una regola assoluta, perchè deve tenere conto sia delle particolari caratteristiche del procedimento sia dei casi in cui è impossibile udire un testimone; ma, oltre a ciò, non è un obbligo, bensì un potere quello che al giudice d’appello deve attribuirsi (“poter udire”) nella procedura nazionale per valutare congruamente l’attendibilità del teste. Sotto questo profilo non si può non condividere l’interpretazione di Cass. sez. 2, 8 novembre 2012 n. 46065, nel senso che l’interpretazione corretta dell’art. 603 c.p.p. dovrebbe ora conferire al giudice d’appello il più ampio potere di rinnovazione del dibattimento.

Occorre peraltro approfondire ulteriori risvolti. L’audizione diretta dei testi viene finalizzata dalla corte alla valutazione della loro attendibilità: “la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate”. E’ fermo il dato che l’attendibilità non può “generalmente” essere verificata sulla base della mera lettura del verbale che contiene le dichiarazioni del teste, poichè la valutazione non può essere soltanto intrinseca ma deve essere anche estrinseca, cioè – pur non necessitando di per sè riscontri ex art. 192 c.p.p., comma 3, neppure se la testimonianza proviene dalla pretesa vittima: S.U. 19 luglio 2012 n.41461 – rapportata e contestualizzata agli ulteriori elementi del compendio probatorio. Il che conduce a considerare la specificità della prova testimoniale ai fini in esame non sotto il profilo della decisività – che è logicamente distinto da quello dell’attendibilità – bensì in relazione al tipo di teste di cui sì tratta, cioè al suo ruolo, effettivo o potenziale, nella vicenda criminosa. Già la sentenza del 5 luglio 2011 evidenziava il rilievo di questo profilo in relazione a un ruolo anche solo potenziale, cioè a proposito del teste cui va garantita la tutelare contro l’autodenuncia. La sentenza 5 marzo 2013, sviluppando l’affermazione di quella del 5 luglio 2011 che “le modalità di applicazione dell’art. 6 ai procedimenti davanti alle Corti d’Appello dipendono dalle particolari caratteristiche del procedimento in questione” (oltre a ribadire ancora il rilievo della procedura nazionale e del poteri del giudice), si è spostata più nettamente dalla condizione del teste di per sè al contenuto del processo che logicamente non può non incidere sulla condizione suddetta: “le modalità di applicazione dell’art. 6 ai procedimenti di appello dipendono dalle caratteristiche di ogni singolo procedimento: si deve tenere conto complessivamente del procedimento nazionale e del ruolo attribuito al giudice d’appello nell’ordinamento giuridico nazionale. Quando si tiene una pubblica udienza in primo grado, l’assenza di dibattimento pubblico in appello può essere giustificata dalle peculiarità del procedimento in questione, tenuto conto della natura della procedura di appello nazionale, dell’ampiezza dei poteri del giudice di appello, del modo in cui gli interessi del ricorrente sono realmente stati esposti e tutelati dinanzi ad esso, e in particolare della natura delle questioni che esso doveva esaminare”, pervenendo infine ad una valutazione del caso concreto (“in queste condizioni”) in cui, per il giudice d’appello, non è stata conforme all’art. 6 CEDU l’omessa audizione dei testi a discarico.

3.7 E’ evidente che, nel caso esaminato dalla sentenza 5 marzo 2013, i testi a discarico erano decisivi. Pur tuttavia, come si è visto sia la sentenza del 5 luglio 2011 sia la sentenza del 5 marzo 2013 si muovono su un piano diverso da quello della decisività, e confinano la regola dell’audizione diretta dei testi da un lato con le procedure nazionali, dall’altro con il contenuto concreto del procedimento, sia di per sè, sia in relazione alla situazione personale del teste. Nei resti di violenza sessuale, la dichiarazione testimoniale della parte offesa è, se non sempre in un’altissima percentuale dei casi, decisiva, per la tipologia della condotta criminosa, sia sotto il profilo della sua consumazione che generalmente non avviene in presenza di terzi, sia sotto il profilo dell’esistenza o meno del consenso all’atto sessuale. Ritenendo pertanto che la decisività della testimonianza imponga al giudice d’appello di disporre comunque la rinnovazione dell’audizione per espletare una reformatio in peius a fronte di una sentenza assolutoria di primo grado, poichè tale reformatio nei reati di violenza sessuale ordinariamente include l’assunzione di una posizione diversa sull’attendibilità della testimonianza della parte offesa, dovrebbe ritenersi che il giudice d’appello debba, se non automaticamente, quanto meno in una maggioranza dei casi contigua alla totalità, e anche in quello in esame, disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 c.p.p. per escutere di nuovo la parte offesa. Ma il contenuto della giurisprudenza CEDU verrebbe in tal modo assolutizzato e “irrigidito” nonostante le indicazioni in senso contrario della giurisprudenza stessa. Secondo la Corte di Strasburgo non si deve prescindere dalla “natura delle questioni” che il giudice d’appello deve esaminare (come si è visto affermare dalla sentenza del 5 marzo 2013); e non si deve prescindere, parimenti, dalla condizione soggettiva del teste.

Il teste, infatti, dichiara la sentenza del 5 luglio 2011, deve essere tutelato nel suo “diritto di non autoaccusarsi”. Ma se si considera congiuntamente il rilievo della “natura delle questioni” in correlazione con la tutela del teste, emerge altresì la configurabilità di un diritto del teste a non essere escusso di nuovo qualora l’escussione ulteriore risulti a priori superflua – cioè qualora le dichiarazioni del teste non presentino la necessità di chiarimenti o integrazioni, nè sussistano in esse contraddittorietà/ambiguità da dirimere – laddove il teste non sia un terzo rispetto alla vicenda, ma, secondo l’imputazione, la vittima di un reato che ne ha leso gravemente e violentemente la libertà personale e il cui effetto è stato quindi, in misura maggiore o minore, pregiudizievole nella interiorità (cfr. il c.d. patema d’animo che tradizionalmente costituisce il danno morale soggettivo) come nella qualità della vita esterna della persona e la cui completa e analitica rievocazione in sede processuale ne è pertanto a sua volta, oggettivamente, in certa misura lesiva. Il bilanciamento tra i diritti fondamentali della persona dell’imputato e del teste non può invero circoscriversi alla tutela del “diritto di non autoaccusarsi” di un potenziale correo; ciò tenendo conto, poi e soprattutto, della conformazione della procedura italiana, intesa quale diritto vivente, in termini di reformatio in peius in sede d’appello di una sentenza in primo grado assolutoria. Non solo, infatti, il giudice d’appello ha il potere (potere, si ricorda, richiesto dalla sentenza del 5 luglio 2011) di rinnovare, se necessario, l’istruzione dibattimentale nel caso in cui lo ritenga necessario, secondo una interpretazione conforme all’art. 6 CEDU dell’art. 603 c.p.p., comma 1, laddove gli è consentito “se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti”; ma a questo si aggiunge quanto sopra evidenziato in termini di rispetto del principio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio”, vale a dire l’obbligo motivazionale duplice, avente come oggetto da un lato la costruzione dell’accertamento, dall’altro la confutazione specifica – che inibisce significativamente l’applicazione del principio della motivazione implicita – della motivazione con cui il primo giudice ha esternato il proprio contrario accertamento: il tutto, come si è visto, nel senso dell’accertamento dell’unicità, quanto a ragionevolezza, della ricostruzione fattuale adottata dal giudice di secondo grado.

In conclusione, la decisività delle testimonianze delle parti offese, nel caso concreto e vista la natura dei reati (cioè delle “questioni”) in esame, tenuto conto altresì della lineare completezza delle loro dichiarazioni riscontrata – e ampiamente illustrata in motivazione – dalla corte territoriale, evidentemente non ha reso necessaria una loro nuova audizione a supporto della valutazione di attendibilità in senso positivo che il giudice di secondo grado ha sostituito alla valutazione negativa del Tribunale, avendo la Corte d’appello dimostrato con una motivazione sotto ogni profilo consistente, attenta, logica e adeguata la correttezza della sua riforma, senza pregiudicare concretamente in alcun modo i diritti degli imputati (che infatti – si osserva meramente ad abundantiam – non hanno chiesto la rinnovazione del dibattimento nè in questa sede nè in secondo grado).

3.8 Resta da esaminare il secondo motivo di ciascuno dei due ricorsi.

Pure in questo caso i due motivi possono essere accorpati, avendo Io stesso contenuto: si lamenta la violazione, anche con vizio motivazionale, degli artt. 133 e 62 bis c.p., sostenendo che la pena inflitta è “particolarmente severa ed è immotivata rispetto ai criteri” delle suddette norme, essendo poi irrilevante ai fini della concessione delle attenuanti generiche l’assenza di condotte riparatorie; le attenuanti generiche sarebbero concedibili per l’incensuratezza” (solo “sostanziale”, peraltro per B.) e il corretto comportamento processuale. Il motivo è almeno in parte generico; si rileva comunque che la corte ha illustrato chiaramente la sua valutazione dosimetrica, evidenziando la negativa personalità dell’imputato B., pluripregiudicato, e la particolare efferatezza della condotta dell’imputato N. (per le “condizioni fisiche gravemente defedate” della sua vittima contro la quale commise “violenze gratuite e brutali, certo non necessarie a vincerne le resistenze”) nonchè adducendo, in implicita ma evidente contestualizzazione con quanto prima aveva descritto della condotta criminosa, la “natura delle violenze sessuali” ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche. Anche queste doglianze sono pertanto infondate.

In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione alle parti civili costituite delle spese sostenute nel presente grado, liquidate in Euro 6000 oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento si dispone di omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione alle parti civili costituite delle spese, liquidate in Euro 6000 oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2013.

Redazione