Corte di Cassazione Civile sez. I 25/3/2009 n. 7211; Pres. Luccioli M-G.

Redazione 25/03/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 4.9.1992 C.C. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma il Monte dei Paschi di Siena, per sentirlo condannare al risarcimento del danno derivante dall’illegittimo protesto di due assegni di L. 19.000.000, ciascuno.

Il Monte dei Paschi, costituitosi, contestava la fondatezza dell’addebito, rilevando: che il conto corrente di cui il C. era titolare risultava privo della provvista necessaria;

che l’attore non aveva dato disposizioni per reintegrarla al momento occorrente; che il fatto in sè dell’avvenuta elevazione del protesto non poteva essere considerato come dato comprovante l’esistenza del danno; che comunque il pregiudizio denunciato avrebbe potuto essere evitato ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2.

Il tribunale, in accoglimento della domanda, condannava la banca al pagamento di L. 380.000.000, in favore degli eredi dell’attore, nel frattempo deceduto, e la sentenza veniva impugnata dall’istituto di credito soccombente, che ne denunciava l’erroneità sotto un duplice aspetto, e cioè in ragione dell’individuata responsabilità a suo carico in ordine all’avvenuto protesto degli assegni, nonchè in riferimento all’entità del danno riconosciuto.

L’impugnazione veniva accolta dalla Corte di Appello di Roma, che respingeva la domanda risarcitoria e condannava anche gli appellati alla restituzione della somma ricevuta, osservando: che la difforme decisione del Giudice di primo grado era stata determinata dal convincimento che, al momento della presentazione degli assegni per il pagamento, sul conto corrente del C. vi fossero fondi sufficienti per l’adempimento e che il funzionario bancario interessato non avesse operato con la dovuta diligenza; che viceversa alla data di presentazione dei titoli il conto corrente in questione aveva un saldo negativo superiore al limite dell’affidamento; che non risultava provato l’assenso della banca allo sconfinamento del fido, nè l’esistenza di un mandato per la vendita di titoli e ICI reintegrazione del conto; che poteva tuttavia ritenersi verosimile la prospettazione da parte della banca di una soluzione in tal senso, soluzione poi non maturata per l’inosservanza della " necessaria diligenza per evitare il protesto; che comunque, anche ove ravvisata una inadempienza della banca, non vi sarebbe stata prova dell’esistenza del danno denunciato, non risultando " che dalla pubblicazione dei protesti fosse derivato un pregiudizio patrimoniale alla propria attività professionale di commercialista e nemmeno che ai suoi clienti fosse pervenuta la notizia stessa dei protesti.

Avverso la decisione gli eredi di C. proponevano ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resisteva il Monte dei Paschi con controricorso contenente anche ricorso incidentale, poi ulteriormente illustrato da memoria.

La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 25.2.2 009.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Disposta preliminarmente la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c., si osserva che con i due motivi di impugnazione i ricorrenti in via principale hanno denunciato violazione di legge e vizio di motivazione:

a) per contrasto con l’art. 115 c.p.c., in relazione agli artt. 2043 e 2059 c.c., con riferimento all’affermata mancanza di prova in ordine all’assenso, da parte della banca, allo sconfinamento del fido. Sotto questo aspetto, secondo la Corte territoriale, sarebbero state irrilevanti le deposizioni dei testi Ci. e G., ma tale valutazione si porrebbe in contrasto con la successiva affermazione secondo la quale le dichiarazioni rese dal teste P. farebbero presumere che la promessa sia stata effettivamente fatta, ma che non sia stata osservata da parte della banca la necessaria diligenza per evitare il protesto.

Inoltre prova della mancanza di diligenza della banca si trarrebbe pure dal pagamento in favore del beneficiario degli assegni (convocato a tal fine presso l’agenzia), con accollo a carico dello stesso istituto delle spese di protesto, nonchè dall’impegno assunto dall’istituto di credito a richiamare i titoli in questione dal notaio, nonchè dalla bozza di lettera predisposta dalla banca per ottenere dal C. un esonero di responsabilità, che costituirebbe un atto confessorio. b) in relazione all’art. 2059 c.c., e alla sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 1986, per il fatto che "il danno alla reputazione derivante dall’illegittimo protesto è in re ipsa", e ciò avrebbe dovuto sollevare essi ricorrenti da ogni onere probatorio al riguardo.

Con il ricorso incidentale la Banca ha a sua volta lamentato l’omessa pronuncia nel dispositivo della sentenza impugnata della condanna degli appellati alla restituzione della somma di L. 393.062.400, oltre interessi legali, condanna viceversa richiamata nella parte motiva della decisione.

Prendendo dapprima in esame il secondo motivo del ricorso principale, in conformità delle argomentazioni svolte dal pubblico ministero, si rileva che la Corte di appello ha negato il sollecitato risarcimento ritenendo non condivisibile la decisione di primo grado per il fatto che l’attore aveva originariamente lamentato genericamente di aver subito danni "solo accennando a spese per difendersi in sede penale e per azioni tese a limitare il danno" (p. 4), le une e le altre non provate, e che neanche in seguito aveva dato dimostrazione di pregiudizi patrimoniali in danno della propria attività professionale di commercialista, riconducibili alla pubblicazione dei protesti.

Tale argomentazione, come detto, è stata censurata con il duplice rilievo "che il danno alla reputazione derivante dall’illegittimo protesto è in re ipsa" e che il protesto avrebbe determinato un discredito sia personale che commerciale che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, avrebbe sollevato l’attore dall’onere probatorio al riguardo. La doglianza è infondata.

In proposito va infatti osservato che, pur prescindendo da ogni considerazione in ordine all’apparente ampliamento dei profili risarcitori rappresentati rispetto a quelli originariamente prospettati (la Corte di appello ha fatto in particolare riferimento a deduzioni relative a spese sostenute in sede penale, oltre che per azioni finalizzate alla neutralizzazione di danni, e la statuizione non è stata censurata) e all’unitaria trattazione di pur distinti aspetti risarcitori (lesione di reputazione personale e professionale), la semplice illegittimità del protesto (ove accertata), pur costituendo un indizio in ordine all’esistenza di un danno alla reputazione da valutare, nelle sue diverse articolazioni, nel contesto della situazione cui inerisce, non costituisce di per sè un dato sufficiente per dare corso alla liquidazione del danno.

Come è stato invero recentemente precisato da questa Corte, il danno non patrimoniale derivante da condotta illecita lesiva di interesse costituzionalmente garantito (quale sarebbe quello in oggetto) presuppone la gravità della lesione, oltre che la non futilità del danno, e la prova in proposito può essere data anche mediante presunzioni semplici, fermo però restando, per il danneggiato, l’onere di allegare gli elementi di fatto dai quali poter desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio (C. S.U. 08/26972). Analoghi principi sono stati poi affermati anche in tema di determinazione del danno in caso di ritardato adempimento ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, (C. S.U. 08/19499), sicchè anche sotto questo riflesso è da ritenere che la mancata allegazione dei dati sopra indicati da parte dei ricorrenti sia ostativa al riconoscimento del sollecitato risarcimento. L’insussistenza del vizio denunciato con il secondo motivo di impugnazione determina l’assorbimento della doglianza formulata con il primo motivo.

Va infine dichiarato inammissibile il ricorso incidentale per difetto di interesse. Al riguardo è invero sufficiente rilevare non solo che la statuizione emessa (nella specie rigetto della domanda risarcitoria) spiega efficacia anche con riferimento a tutti gli effetti che ne sono consequenziali (nel caso in esame restitutori), ma anche che la Corte territoriale ha esplicitamente provveduto in proposito avendo precisato, in sede di motivazione, che gli appellati "devono essere condannati, come espressamente richiesto, a restituire tale somma (quella cioè di L. 393.062.400) con gli interessi legali dalla domanda" (p. 5). La mancata ripetizione della condanna nel dispositivo, omissione alla quale può comunque porsi eventualmente rimedio facendo ricorso al procedimento della correzione degli errori materiali, appare dunque del tutto irrilevante, sicchè la relativa censura, come detto, risulta inammissibile.

L’avvenuta proposizione del ricorso in epoca antecedente alle decisioni di questa Corte sopra richiamate sulla tematica risarcitoria, oltre che il mancato accoglimento del ricorso incidentale, induce a compensare integralmente le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi, rigetta quello principale, dichiara inammissibile quello incidentale e compensa le spese del presente giudizio.

Redazione