Confisca per equivalente: non va dimostrato il nesso pertinenziale tra reato e somme confiscate (Cass. pen. n. 1261/2013)

Redazione 10/01/13
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Svolgimento del processo

Con ordinanza 18 gennaio 2012 il tribunale del riesame di Brindisi confermò il decreto emesso dal Gip di Brindisi il 2 dicembre 2011 di sequestro preventivo di beni di M.G. e di Ma.Gi. finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato di infedele dichiarazione dei redditi della B. & T. srl.
Osservò, tra l’altro, il tribunale del riesame: – che era vero che le presunzioni che possono costituire prova in sede tributaria non costituiscono prova in sede penale; – che tuttavia le prove presuntive tributarie possono costituire elementi indiziari in sede penale; – che quindi il fatto che i conti correnti degli indagati presentavano movimentazioni non riportate nella dichiarazione dei redditi e per le quali non era stata fornita alcuna giustificazione, costituiva un indizio della sussistenza del reato contestato; – che correttamente la Gdf aveva imputato all’attivo del reddito non solo gli importi accreditati sui conti correnti ma anche quelli oggetto di prelevamento di cui non erano stati indicati né il beneficiario né la causale; – che non potevano concorrere alla determinazione dei redditi gli acquisti in nero; – che era irrilevante che gli accertamenti bancari fossero terminati nel settembre 2008, perché gli indagati non avevano allegato specifiche movimentazioni successive a tale mese; – che sussistevano sia l’elemento soggettivo del reato sia il periculum in mora.
L’avv. Ma Gu., per conto di M.G., propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione del diritto di difesa; assenza totale di motivazione sul fumus del reato; violazione dell’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Osserva che l’accertamento della guardia di finanza posto a base del sequestro ha esclusiva matrice tributaria. In relazione ad esso la prova della responsabilità tributaria si forma in forza di un processo esclusivamente presuntivo, in base al principio che laddove il verificato non offre la prova contraria rispetto alla contestazione, si forma la prova dell’infrazione tributaria. Il tribunale del riesame, pur prendendo atto che si tratta di principio ispirato ad una inversione dell’onere della prova non valevole in materia penale, ha tuttavia ritenuto l’accertamento tributario idoneo a dimostrare il fumus del reato. La motivazione sul fumus è pertanto meramente apparente. Il provvedimento di sequestro si fonda interamente su un presupposto che viola il diritto di difesa, in quanto applica in sede penale una illegittima inversione dell’onere della prova. Inoltre, l’annualità del 2008 sulla quale è stato effettuato il calcolo, non è stata considerata per intero ma solo fino a settembre, sicché non sono stati considerati gli eventuali costi sopportati nell’ultima parte dell’anno. Il tribunale del riesame ha ancora una volta invertito l’onere della prova, addebitando alla difesa la dimostrazione di quello che sarebbe avvenuto nella parte non coperta da accertamento tributario. L’art. 4 del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, postula che si abbia riguardo all’intero periodo di imposta per determinare l’imposta astrattamente evasa. La valutazione parziale non può quindi integrare il fumus della fattispecie incriminatrice.
2) violazione degli artt. 321 cod. proc. pen. e 322 ter cod. pen. Osserva che nella specie si tratta di una misura reale speciale rispetto a quella ordinaria di cui all’art. 321, comma 1, cod. proc. pen. Il presupposto del sequestro per equivalente è quello del tipo di confisca che la cautela garantisce. Per l’effetto si determina una perdita della garanzie connesse ai meccanismi presuntivi di applicazione della confisca e di assenza di pertinenzialità dei beni con il reato. Poiché si tratta di una confisca-sanzione, non è sufficiente il mero fumus del reato, ma occorre un giudizio di gravità indiziaria, ossia una qualificata probabilità di attribuzione del delitto all’indagato. Pertanto la prognosi cautelare non può essere limitata alla sola astratta configurabilità del reato. Il sequestro è finalizzato a garantire la confisca, per la quale occorre non solo l’integrazione del reato, ma anche la condanna. Occorre perciò la prognosi probabilistica di una futura condanna, ossia la presenza di gravi indizi.
Il tribunale del riesame invece ha ritenuto il fumus sulla base della presunzione tributaria che i prelevamenti bancari non giustificati o privi della indicazione del destinatario possono essere presuntivamente imputati nella formazione dell’attivo del reddito, ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. 600/73. Il tribunale ha incluso nel reddito anche gli addebiti bancari ed altresì i prelevamenti, pure avendo riconosciuto che si tratta di elementi neutri. La mancata giustificazione o la mancata indicazione del destinatario dei prelevamenti li ha così resi componenti attivi del reddito. Questa presunzione non può però essere usata in sede penale. Del resto, l’esistenza di elementi negativi del reddito si ricava proprio dal verbale di constatazione, con riferimento al diverso metro usato dalla Gdf, per l’accertamento delle imposte evase, tra imposte dirette ed indirette. Infatti, ai fini IVA, non sono stati conteggiati i prelevamenti. Dallo stesso verbale di constatazione si ricava anche che l’ammontare degli elementi attivi omessi è stato determinato in modo anomalo. Inoltre, l’imponibile non dichiarato è stato ottenuto sommando i conti correnti della società B. & T. con quelli personali dei due soci, utilizzando delle presunzioni non ammissibili in sede penale.
3) violazione dell’art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74; assenza di motivazione. Ricorda che M.G. al momento della dichiarazione per l’anno 2008 non era più amministratore della società e quindi non ne era responsabile. Il tribunale ha solo insinuato un sospetto considerando dubbio il verbale della assemblea, stante la parentela fra i soci e il ritardo nella comunicazione alla camera di commercio. Si è ancora una volta invertito l’onere della prova, mancando qualsiasi atto di indagine che porti alla conclusione del tribunale, che resta una semplice congettura.
4) violazione di legge ed erronea applicazione degli artt. 322 ter cod. pen., 321 cod. proc. pen. e 1, comma 143, l. 244/07. Osserva che i beni sequestrati a M.G. sono stati tutti acquistati in data e con modalità non sospette, in nessun modo collegabili coi presunti profitti del reato. Data la natura punitiva della misura cautelare viene presunto il periculum in mora. Il soggetto quindi subisce una sorta di anticipazione della pena o sanzione, se non gli è permesso esercitare il diritto di difesa già nel corso della indagini preliminari. Ciò è ingiustificato perché il periculum in mora può essere riscontrato anche nella misura impugnata, sia rispetto alla sproporzione del valore dei beni in relazione al reddito e alla attività economica, sia rispetto alla mancata giustificazione della loro provenienza lecita. Eccepisce pertanto la illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni in riferimento agli artt. 3, 24, 27 Cost., nella parte in cui non si consente all’indagato o al soggetto attinto dal vincolo cautelare speciale o per equivalente di poter provare l’assoluta liceità della provenienza dei beni.
Ma.Gi. propone personalmente ricorso per cassazione deducendo come unico motivo un error in indicando, costituito dalla violazione degli artt. 321 e 322 ter cod. proc. pen. Il motivo è identico al secondo motivo del ricorso di M.G.

 

Motivi della decisione

Ritiene il Collegio che i ricorsi debbano essere rigettati perché infondati. Si esaminerà qui direttamente il ricorso di M.G., in quanto quello di ****** consiste in realtà nella riproduzione del secondo motivo del primo ricorso.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso richiama, in via generale, principi condivisibili.
Così, è corretta la tesi che i regimi di presunzione legale operanti in campo tributario non possono essere utilizzati, sic et simpliciter, in sede penale. Gli accertamenti della guardia di finanza si fondano su un accertamento di esclusiva matrice tributaria, durante il quale la prova della responsabilità tributaria del soggetto si forma al termine di un processo esclusivamente presuntivo, in considerazione della circostanza che laddove il soggetto sottoposto a verifica non offra la prova contraria rispetto alla contestazione, si forma, a contrario, la prova della infrazione della normativa tributaria. Il procedimento di formazione della prova tributaria è invero ispirato ad un principio di inversione dell’onere della prova che, in materia penale, si pone in contrasto con il diritto di difesa e con il principio secondo cui l’onere della prove è a carico dell’accusa.
Ciò del resto è stato sempre pacificamente sostenuto dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha più volte affermato il principio che “In sede penale, il giudice non può applicare le presunzioni legali, sia pure di carattere relativo, o i criteri di valutazione validi in sede tributaria, limitandosi a porre l’onere probatorio in ordine alla esistenza di costi deducibili a carico dell’imputato. Deve, invece, procedere di ufficio agli accertamenti del caso, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto” (Sez. III, 26.11.2008, n. 5490/2009, C., in motivazione); che “Ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell’imposta sui redditi (art. 5, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria” (Sez. III, 18.5.2011, n. 36396, M., m. 251280; conf. Sez. III, 26.2.2008, n. 21213, D. C., m. 239984); che “Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, punito solo ove abbia determinato una evasione di imposta pari a Euro 77.468,53, per imposta evasa deve intendersi l’intera imposta dovuta, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario” (Sez. III, 26.2.2008, n. 21213, D. C., m. 239983).
Più in particolare, per quanto riguarda la presunzione relativa alle somme accreditate sul conto corrente, è stato affermato il principio che “In tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell’imposta sui redditi (art. 5, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) non può farsi ricorso alla presunzione tributaria secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda (art. 32, comma primo n. 2, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600), in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa procedendo d’ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto” (Sez. III, 26.11.2008, n. 5490/2009, C., m. 243089). Invero, l’art. 32, comma 1, n. 2, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, “contiene una presunzione legale di corrispondenza delle partite attive, risultanti dai rapporti del contribuente sottoposto a verifica con gli istituti di credito, con i ricavi dell’attività di impresa o professionale, in assenza della dimostrazione che le stesse non hanno rilevanza ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta. Detta presunzione, tuttavia, non opera in sede penale, sicché il giudice di merito deve motivare in ordine alla ragioni per le quali i dati della verifica effettuata in sede fiscale sono stati ritenuti attendibili” (ivi, in motivazione).
Tuttavia, per quanto concerne la diversa questione della applicazione di questi principi in sede cautelare reale, è stato affermato che “Il tribunale, in sede di riesame di un provvedimento cautelare emesso per un reato tributario, non è tenuto ad accertare l’imponibile e l’imposta evasa contestata al contribuente, in quanto l’accertamento incidentale, proprio del giudizio di riesame, non prevede l’esercizio di poteri istruttori da parte del giudice della cautela” (Sez. III, 10.11.2011, n. 43695, B., m. 251329, la quale in motivazione ha rilevato che “il concreto accertamento della sussistenza dei reati oggetto della imputazione provvisoria, pertanto, non può che avvenire in sede di giudizio di merito, nel quale si dovrà tener conto dei principi di diritto già affermati da questa Corte in materia tributaria penale, secondo i quali spetta al giudice la determinazione della imposta evasa, procedendo di ufficio ai necessari accertamenti, mentre non può farsi ricorso alla sola presunzione tributaria, secondo la quale tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda. È evidente, però, che gli stessi criteri non possono trovare applicazione in sede di accertamento incidentale, proprio del giudizio del riesame, stante l’assenza di poteri istruttori del giudice della cautela”).
Ciò peraltro (come esattamente sostiene il ricorrente) non significa che il tribunale del riesame possa limitarsi ad accertare esclusivamente l’astratta configurabilità del fatto contestato in relazione alla ipotesi di reato ipotizzata e ciò sulla sola base delle prospettazioni della pubblica accusa. E difatti, secondo il più condivisibile orientamento, ribadito innumerevoli volte dalla giurisprudenza più recente, il tribunale del riesame, per poter espletare il ruolo di garanzia dei diritti costituzionali che la legge gli demanda, non può avere riguardo solo alla astratta configurabilità del reato, ma deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato contestato (cfr., ex plurimis, Sez. I, 9 dicembre 2003, n. 1885/04, C., m. 227.498; Sez. III, 16.3.2006 n. 17751; Sez. II, 23 marzo 2006, Ca., m. 234197; Sez. III, 8.11.2006, P.; Sez. III, 9 gennaio 2007, S.; Sez. IV, 29.1.2007, 10979, V., m. 236193; Sez. V, 15.7.2008, n. 37695, C., m. 241632; Sez. I, 11.5.2007, n. 21736, C., m. 236474; Sez. IV, 21.5.2008, n. 23944, Di F., m. 240521; Sez. II, 2.10.2008, n. 2808/09, B., m. 242650; Sez. III, 12.1.2010, T.; Sez. III, 24.2.2010, N.; Sez. III, 11.3.2010, D’O.).
E recentemente, proprio in un caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente relativamente al reato tributario di cui all’art. 5 del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si è ribadito che il controllo del tribunale del riesame “non può quindi limitarsi ad una verifica meramente burocratica della riconducibilità in astratto del fatto indicato dall’accusa alla fattispecie criminosa, ma deve essere svolto attraverso la valutazione dell’antigiuridicità penale del fatto come contestato, ma tenendosi conto, nell’accertamento del fumus commissi delicti, degli elementi dedotti dall’accusa risultanti dagli atti processuali e delle relative contestazioni difensive” (Sez. III, 27.1.2011, n. 8982, M., la quale prosegue rilevando che già secondo la sentenza delle Sez. Un., 20.11.1996, n. 23/1997, B., non sempre correttamente richiamata, al giudice del riesame spetta il dovere di accertare la sussistenza del c.d. fumus commissi delicti che, pur se ricondotto nel campo dell’astrattezza, va sempre riferito ad una ipotesi ascrivibile alla realtà fattuale e non a quella virtuale, sicché lo stesso giudice “lungi dall’essere tenuto ad accettare comunque la prospettazione dell’accusa, abbia il potere-dovere di escluderla, quando essa appaia giuridicamente infondata”). Nel caso di specie, pertanto, questa Corte affermò che il tribunale del riesame “pur con i limiti del procedimento cautelare, non poteva, quindi sottrarsi, alla luce delle deduzioni offerte dalla difesa in ordine agli elementi negativi, all’accertamento del superamento della soglia di punibilità prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, (e quindi dell’esistenza stessa del fumus del reato ipotizzato)”.
Venendo ora al caso oggetto del presente giudizio, il Collegio ritiene che il tribunale del riesame si sia nella sostanza attenuto ai suddetti principi di diritto. È vero che l’ordinanza impugnata in qualche punto parla di astratta configurabilità del reato, ma in realtà ha poi esaminato e valutato la sussistenza in concreto dei fumus commissi delicti. Non è poi vero che il tribunale si sia limitato a valutare solo gli elementi indiziari offerti dall’accusa, perché in realtà ha tenuto anche conto delle prospettazioni e delle contestazioni difensive, disattendendole motivatamente perché allo stato sfornite di qualsiasi elemento, anche solo indiziario, a loro sostegno. In altri termini il tribunale del riesame è partito dagli accertamenti della Gdf e dalle relative presunzioni tributarie (pur non aventi valore probatorio in sede di merito) ma ha ritenuto che in questa preliminare e sommaria sede cautelare alle stesse potesse attribuirsi valore di indizi sui quali – in mancanza di altri elementi di segno contrario offerti dalla difesa – poter fondare il giudizio di sussistenza del fumus del reato. Così, per quanto riguarda i prelevamenti dai conti bancari, per i quali i ricorrenti non avevano indicato né il beneficiario né la causale, il tribunale ha premesso esattamente che essi costituiscono elementi neutri ai fini penali, ma ha osservato che, trattandosi pur sempre di somme distratte dal conto corrente e nella disponibilità del titolare, le stesse potevano allo stato essere inserite tra le componenti attive di reddito, stante la loro disponibilità da parte del titolare che le aveva prelevate, ma non aveva fornito alcun indizio circa il loro successivo trasferimento a terzi. Analogamente, quanto alla riconduzione alla società B. & T srl anche dei conti bancari intestati ai singoli soci, il tribunale ha osservato che allo stato si trattava di un indizio utilizzabile, in considerazione sia della sproporzione tra il valore delle movimentazioni rispetto ai redditi dichiarati da ciascuno dei soci, sia della obiettiva riconducibilità di svariate operazioni finanziarie a soggetti che intrattenevano diretti rapporti commerciali con la società, sia soprattutto del fatto che in detti conti risultavano registrate ingenti somme non riportate in dichiarazione e di cui le parti non erano mai state in grado di fornire qualsiasi giustificazione. Quanto poi alla lamentata natura parziale dell’accertamento bancario eseguito nell’arco di nove mesi (da gennaio a settembre 2008), il tribunale ha osservato che l’accertamento aveva in ogni caso tenuto conto di tutte le operazioni regolarmente annotate sui registri contabili fino a tutto l’anno 2008 e che comunque gli indagati non avevano nemmeno allegato specifiche movimentazioni successive al settembre 2008 (pur avendo l’immediata disponibilità di tutti gli estratti conto) idonee ad incidere sul risultato della attività investigativa.
Per quanto riguarda poi la posizione di M.G. , che secondo l’impostazione accusatoria avrebbe concorso nella perpetrazione del reato con il padre ****** che aveva materialmente presentato la dichiarazione dei redditi per il periodo di imposta 2008, il tribunale ha, con adeguata motivazione, osservato che il fumus di tale concorso nel reato proprio si desumeva dagli indizi costituiti sia dalla circostanza che sul conto personale di M.G. erano transitate operazioni riferibili alla società e non inserite nella dichiarazione, sia dalla dubbia genuinità del verbale di assemblea del 4.8.2008 concernente la nomina del nuovo amministratore, comunicato con notevole ritardo alla CCIA, sia dalla relazione di stretta parentela tra i soci, padre e figlio.
Dalle precedenti considerazioni emerge altresì la concreta irrilevanza, e quindi infondatezza, del secondo motivo, perché nella specie l’ordinanza impugnata si è fondata non sulla mera astratta configurabilità del reato, bensì sulla motivatamente ritenuta sussistenza di una serie di elementi indiziari sulla concreta sussistenza del fumus del reato ipotizzato.
È poi chiaramente infondato anche il quarto motivo, con cui in sostanza si denuncia l’inesistenza di un nesso di pertinenzialità dei beni sequestrati con il reato ipotizzato e l’assoluta liceità della provenienza di detti beni. E sufficiente ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “…nei casi in cui il profitto consiste nel denaro, appare difficile sostenere l’applicabilità di quella giurisprudenza che subordina l’operatività del sequestro alla verifica che il profitto del reato sia confluito effettivamente nella disponibilità dell’indagato (Sez. 5, 3 luglio 2002, n. 32797, ********; Sez. 3, 20 marzo 1996 n. 1343, **********), in quanto trattandosi di sequestro per equivalente, tale necessità deve ritenersi superata. Subordinare l’operatività del sequestro (o la confisca) per equivalente a tale condizione vorrebbe dire negare la stessa funzionalità della misura e ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale tra res e reato che la legge non richiede. In questo tipo di confisca il denaro oggetto di ablazione non è necessariamente il denaro proveniente dal delitto, ma una somma di denaro che equivale a quella, cioè il tandundem, che corrisponde solo per valore al prezzo o al profitto del reato. In conclusione, nel caso dell’art. 322 ter c.p., la confisca per equivalente non presuppone la dimostrazione del nesso pertinenziale tra reato e somme confiscate (o sequestrate) e, inoltre, viene meno la necessità di verificare, preliminarmente, se il bene sia entrato o meno nel patrimonio dell’indagato per tentarne il recupero. Sono infatti assoggettabili alla confisca di cui all’art. 322 ter c.p., beni nella disponibilità dell’imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato (Sez. 6, 27 gennaio 2005 n.11902, ******)” (cfr. Sez. 6, n. 31692 del 5.6.2007; Sez. 3, n. 25129 del 17.4.2008; Sez. 2, n. 24167 del 16.5.2003). È stato escluso, quindi, anche alla luce della Decisione – quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2005/212/GAI, “che la confisca per equivalente prevista dall’art. 322 ter c.p., e, quindi, il sequestro preventivo ad essa finalizzato, postulino l’esistenza di un nesso di pertinenzialità tra i beni da confiscare ed il reato addebitato al soggetto che ne dispone, atteso che, con detta decisione, il Consiglio dell’Unione Europea, lungi dal voler restringere i limiti di applicabilità dell’istituto in discorso, come se, in precedenza, le legislazioni degli Stati membri ne consentissero l’applicazione in misura eccessiva o arbitrario, ha invece inteso imporre soltanto una disciplina minima uniforme in funzione della repressione di reati ritenuti di particolare allarme sociale e nocività economica (principio affermato, nella specie, a fronte della tesi difensiva secondo cui la Decisione summenzionata consentirebbe la confisca, e quindi il sequestro, di beni solo se legati al reato da vincolo eziologico diretto o, quanto meno, derivanti da sproporzione tra il patrimonio del soggetto e il suo reddito legittimo)” (cfr. Sez. 2, n. 10838 del 20.12.2006). L’esclusione della necessità di un nesso di pertinenzialità tra i beni da confiscare ed il reato addebitato è confermata anche da Sez. 6, n. 31692 del 5.6.2007; Sez. 6, n. 11902 del 27.1.2005 cit; Sez. 6A n. 7250 del 19.1.2005 (v. Sez. III, 27.1.2011, n. 8982, Magni, cit.).
Emerge da quanto sopra la manifesta infondatezza, oltre che l’irrilevanza, della eccepita questione di legittimità costituzionale.
In conclusione, i ricorsi devono pertanto essere rigettati con conseguente condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali

Redazione