Risarcimento del danno, mobbing ed onere della prova (TAR Basilicata, n. 6/2012)

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Massima

Il ricorso per risarcimento danni, anche in tema di “mobbing”, impone al ricorrente di fornire la prova dei danni, sia sul piano oggettivo della “condotta persecutoria” contestata, sia sul piano soggettivo dell’intento persecutorio della P.A. datrice di lavoro.

  

1. Premessa

 

La pronuncia in esame prende in considerazione la problematica del mobbing. È noto come per “mobbing” si intenda, comunemente, una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Come più volte ricordato dalla giurisprudenza, il termine “mobbing” deriva dal verbo in lingua inglese “to mob” (che significa assalire, prendere d’assalto, malmenare) e viene spesso utilizzato per indicare genericamente molestie morali sul luogo di lavoro.

La medesima giurisprudenza ha chiarito che costituisce “mobbing” l’insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente con comportamenti, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa (1).

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

– la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

– l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

– il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore;

– la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (2).

 

2. Mobbing ed onere della prova

Al fine di configurare una condotta causale di danno da mobbing, la giurisprudenza ha specificato che occorra fornire, la prova dell’esistenza di un disegno “persecutorio” – da ravvisarsi in ipotesi di comportamenti materiali o di provvedimenti contraddistinti da finalità di volontaria e organica vessazione nonché discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali – identificabile quale elemento soggettivo della fattispecie illecita (3).

Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come “mobbing”, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta, se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale.

Se, sotto il profilo definitorio, può essere condivisa la tesi giurisprudenziale secondo cui il c.d. “danno da mobbing” consiste in una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, connotata dal carattere della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore ed idonea a concretare una lesione dell’integrità psicofisica e della personalità del prestatore, altresì (sotto il diverso profilo dell’accertamento del danno) merita condivisione l’orientamento giurisprudenziale secondo cui tale accertamento comporta una valutazione complessiva degli episodi lamentati dal lavoratore, i quali devono essere valutati in modo unitario, tenuto conto:

– da un lato, dell’idoneità offensiva della condotta datoriale (come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione)

– e, dall’altro, della connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta.

Ne consegue che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.

 

Rocchina Staiano
Docente all’Univ. Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010; Avvocato. E’ stata Componente, dal 1 ° novembre 2009 ad oggi, della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.

 

___________
(1) Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774.
(2) Cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785.
(3) Per tutte, Cons. Stato, sez. V, 6 maggio 2008, n. 2015. 

Sentenza collegata

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Staiano Rocchina

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