Riflessioni sull’art. 1, commi 261 e seguenti della L. 30 dicembre 2018 n. 145 in materia di decurtazione delle c.d “pensioni d’oro”

Leotta Ettore 06/12/19
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Sommario

Premessa. – 2. Considerazioni sull’art. 1, comma 486, della L. 27 dicembre 2013, n. 147. – 3. Riflessioni preliminari sull’art. 1, commi 261 – 268, della L. 30 dicembre 2018 n. 145. – 4. L’assenza di motivazione dell’intervento e l’omessa indicazione delle modalità di utilizzo delle somme accantonate. Il carattere tributario della misura. – 5. La natura tributaria dei prelievi coattivi di somme da destinare a finalità previdenziali e/o assistenziali. – 6. Il carattere discriminatorio della misura. – 7. In particolare, la discutibile esenzione delle pensioni aggiuntive e/o integrative, nonché di particolari categorie di pensionati, ivi compresi i liberi professionisti ed i c.d. pensionati baby. – 8. La violazione di vari principi di rango costituzionale ed il mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dalla CEDU. – 9. La violazione delle norme e dei principi che disciplinano il rapporto di rendita vitalizia. – 10. La mancata considerazione dell’entità dei contributi versati e dell’età di collocamento a riposo. La sostanziale neutralizzazione del sistema misto. – 11. L’eccessivo ammontare delle nuove decurtazioni. – 12. L’anomala durata dell’intervento. – 13. Considerazioni conclusive.

  1. Premessa

Con l’art. 1, commi 261 – 268, della L. 30 dicembre 2018 n. 145 è stata disposta una decurtazione delle pensioni superiori ad una certa soglia (c.d. pensioni d’oro).

Trattasi di una misura reiterativa di precedenti interventi legislativi di analoga natura, sulla legittimità della quale si è aperto un ampio dibattito, sostenendosi da parte di alcuni che il legislatore avrebbe legittimamente perseguito un intento solidaristico e, di contro, da parte di altri che la normativa di cui trattasi violerebbe numerosi principi di rango costituzionale.

Con il presente scritto, che non ha la pretesa di essere esaustivo[1], si vuole approfondire tale controversa problematica, analizzando sia le disposizioni legislative che hanno preceduto la L. n. 145/2018, sia la giurisprudenza costituzionale che si è formata su di esse e, nello stesso tempo, si vogliono prendere in esame i tratti essenziali del vigente sistema previdenziale, per verificare l’esistenza di eventuali anomalie dell’intervento di cui trattasi.

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  1. Considerazioni sull’art. 1, comma 486, della L. 27 dicembre 2013, n. 147

Qualsiasi verifica sulla compatibilità con i principi costituzionali dell’art. 1, commi 261 – 268, della L. 30 dicembre 2018 n. 145, richiede anzitutto un confronto tra la normativa in questione, da applicare nel  quinquennio 2019 – 2023, con l’art. 1, comma 486, della L. 27 dicembre 2013, n. 147, che ha introdotto un’analoga misura per il triennio 2014 – 2016.

Tale comparazione è quanto mai necessaria, dal momento che con sentenza 13 luglio 2016 n. 147, nel giudicare costituzionalmente legittima la normativa del 2013, la Corte costituzionale ha sviluppato delle argomentazioni delle quali bisogna tener conto per verificare la conformità ai principi costituzionali del nuovo intervento legislativo.

L’art.1, comma 486, della L. 27 dicembre 2013, n. 147,  così dispone:

“A decorrere dal 1° gennaio 2014 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo INPS, è dovuto un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie, pari al 6 per cento della parte eccedente il predetto importo lordo annuo fino all’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS, nonché pari al 12 per cento per la parte eccedente l’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS e al 18 per cento per la parte eccedente l’importo lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo INPS. Ai fini dell’applicazione della predetta trattenuta è preso a riferimento il trattamento pensionistico complessivo lordo per l’anno considerato. L’INPS, sulla base dei dati che risultano dal casellario centrale dei pensionati, istituito con decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388, è tenuto a fornire a tutti gli enti interessati i necessari elementi per l’effettuazione della trattenuta del contributo di solidarietà, secondo modalità proporzionali ai trattamenti erogati. Le somme trattenute vengono acquisite dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie, anche al fine di concorrere al finanziamento degli interventi di cui al comma 191 del presente articolo”.

Occorre anzitutto evidenziare  che la riduzione dei trattamenti pensionistici del 2013 ha riguardato tutte le forme di previdenza obbligatorie.

Come precisato dallo stesso Ministero del Lavoro nel proprio sito internet istituzionale[2], “il sistema di tutela obbligatoria previsto nell’ordinamento previdenziale italiano è strutturato in due settori di riferimento, l’uno destinato ai lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, gestito dall’INPS (che attualmente include anche le ex gestioni INPDAP ed ENPALS), l’altro, indirizzato alle categorie di liberi professionisti, gestito dagli enti previdenziali di diritto privato, istituiti con Decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509 (Enti Pubblici trasformati in associazioni o fondazioni con personalità giuridica di diritto privato) e con Decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103 (costituzione di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato)”.

La riduzione dei trattamenti pensionistici è stata qualificata come “contributo di solidarietà” ed è stata disposta “anche” per concorrere al finanziamento degli interventi in favore dei c.d. “esodati” (Estensione platea salvaguardati. Terzo contingente), contemplati dall’art. 1, commi 231 e 233, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, richiamato dal comma 191 della L. n. 147/2013.

Poiché il trattamento minimo INPS per l’anno 2014 era stato fissato in Euro 6.517,94 (pari ad Euro 501,38 per tredici mensilità), il contributo di solidarietà è stato così quantificato:

– 6% della parte eccedente l’importo annuo lordo di Euro 91.251,16 fino all’importo annuo lordo di Euro 130.358,80;

– 12% della parte eccedente l’importo annuo lordo di Euro 130.358,80 fino all’importo annuo lordo di Euro 195.538,20;

– 18% della parte eccedente l’importo annuo lordo di Euro 195.538,20.

Con sentenza 13 luglio 2016 n. 147 la Corte Costituzionale ha ritenuto costituzionalmente legittima la disposizione di cui sopra, affermando in estrema sintesi  che:

– il contributo di solidarietà non ha natura di tributo, perché non è acquisito allo Stato e non è destinato alla fiscalità generale, ma è prelevato direttamente dall’INPS e dagli altri Enti previdenziali, che lo trattengono all’interno delle proprie gestioni con specifiche finalità solidaristiche endo – previdenziali;

– il contributo di solidarietà, “sia pure al limite”, risponde a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, trattandosi di misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta; esso, “incidendo in base ad aliquote crescenti (del 6, 12 e 18 per cento), secondo una misura che rispetta il criterio di proporzionalità e, in ragione della sua temporaneità, non si appalesa di per sé insostenibile, pur innegabilmente comportando un sacrificio per i titolari di siffatte pensioni”.

  1. Riflessioni preliminari sull’art. 1, commi 261 – 268, della L. 30 dicembre 2018 n. 145

Successivamente è intervenuto l’art. 1 della L. 30 dicembre 2018 n. 145, che ai commi 261 – 268 ha prescritto quanto segue:

 “261. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e per la durata di cinque anni, i trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i cui importi complessivamente considerati superino 100.000 euro lordi su base annua, sono ridotti di un’aliquota di riduzione pari al 15 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro, pari al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, pari al 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, pari al 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e pari al 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro”.

Gli importi di cui al comma 261 sono soggetti alla rivalutazione automatica secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

La riduzione di cui al comma 261 si applica in proporzione agli importi dei trattamenti pensionistici, ferma restando la clausola di salvaguardia di cui al comma 267. La riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo.

Gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nell’ambito della loro autonomia, si adeguano alle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 e 265 dalla data di entrata in vigore della presente legge.

Presso l’INPS e gli altri enti previdenziali interessati sono istituiti appositi fondi denominati « Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato » in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da 261 a 263. Le somme ivi confluite restano accantonate.

Nel Fondo di cui al comma 265 affluiscono le risorse rivenienti dalla riduzione di cui ai commi da 261 a 263, accertate sulla base del procedimento di cui all’articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Per effetto dell’applicazione dei commi da 261 a 263, l’importo complessivo dei trattamenti pensionistici diretti non può comunque essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua.

Sono esclusi dall’applicazione delle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 le pensioni di invalidità, i trattamenti pensionistici di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222, i trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti e i trattamenti riconosciuti a favore delle vittime del dovere o di azioni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206”.

Occorre anzitutto precisare che, a differenza di quanto previsto dalla normativa del 2013, la riduzione dei trattamenti pensionistici relativa al quinquennio 2019 – 2023 non riguarda “tutti gli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie”, essendo riferibile unicamente ai “trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335”.

Il prelievo imposto dalla L. n. 145/2018 non ha una sua qualificazione giuridica (non si parla di “contributo di solidarietà”) ed alle somme derivanti dalla decurtazione delle pensioni non è stata assegnata una specifica destinazione, prevedendosene unicamente l’accantonamento presso appositi Fondi, senza che ne sia stata indicata la futura utilizzazione.

In particolare, non sono state esplicitate quelle “finalità solidaristiche endoprevidenziali”, evidenziate nella sentenza della Corte Costituzionale n. 173/2016 per dimostrare che il contributo di solidarietà di cui all’art. 1, comma 486, della L. 27 dicembre 2013, n. 147 non aveva natura di tributo.      Né sono state richiamate delle pressanti esigenze di bilancio, tali da giustificare il prelievo coattivo in danno dei titolari di pensioni elevate, a differenza di quanto fatto in precedenza con l’art. 18, comma 22 bis, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111[3].

Nel silenzio del legislatore, l’interprete deve valutare, considerandole nel loro complesso:

– l’eventuale motivazione della misura e le conseguenze dell’omessa indicazione delle modalità di utilizzo delle somme accantonate;

– la previsione di particolari categorie di soggetti esenti;

– la valutazione delle pensioni come rendita vitalizia e le relative conseguenze;

– la mancata considerazione dell’entità dei contributi versati dai titolari di pensioni calcolate con il metodo retributivo e misto, nonché dell’età del loro collocamento a riposo;

– l’ammontare delle decurtazioni;

– la durata dell’intervento.

  1. L’assenza di motivazione dell’intervento e l’omessa indicazione delle modalità di utilizzo delle somme accantonate. Il carattere tributario della misura

Come già anticipato, il legislatore del 2018 ha previsto che le somme derivanti dalla decurtazione delle pensioni devono essere accantonate in appositi Fondi presso l’INPS e gli altri enti di previdenza.

Tuttavia lo stesso legislatore:

A – non ha indicato esplicitamente le ragioni della misura;

B – non ha specificato le concrete modalità di utilizzo delle somme accantonate[4].

Sub A – Quanto alla motivazione dell’intervento, occorre ricordare che secondo la giurisprudenza costituzionale più recente (Cfr. Corte Cost. 1 dicembre 2017 n. 250, punto 6.5.1 del considerato in diritto) “Il principio di ragionevolezza rappresenta il cardine intorno a cui devono ruotare le scelte del legislatore nella materia pensionistica e assurge, per questa sua centralità, a principio di sistema. Per assicurare una coerente applicazione di tale principio-cardine negli interventi legislativi che si prefiggono risparmi di spesa, questi ultimi devono essere accuratamente motivati, il che significa sostenuti da valutazioni della situazione finanziaria basate su dati oggettivi (sentenza n. 70 del 2015, punto 10 del Considerato in diritto). Le relazioni tecniche, illustrative degli interventi legislativi che nella materia previdenziale si prefiggono risparmi di spesa, così come ogni altra documentazione inerente le manovre finanziarie, rappresentano dunque uno strumento per la verifica delle scelte del legislatore (art. 17, commi 3 e 7, della L. 31 dicembre 2009, n. 196, recante “Legge di contabilità e finanza pubblica”, e più in generale art. 18 della L. 24 dicembre 2012, n. 243, recante “Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione”)”[5].

Nel silenzio della L. n. 145/2018, premesso che la riduzione dei trattamenti pensionistici elevati è stata introdotta con un maxiemendamento governativo del 22 dicembre 2018 (successivo alla presentazione del Disegno di legge, avvenuta il 31 ottobre 2018), le ragioni della riduzione dei trattamenti pensionistici elevati devono essere ricercate negli atti successivi alla relazione tecnica del MEF del 31 ottobre 2018, e precisamente:

nell’Allegato 1 alla nota del 18 dicembre 2018 del Presidente del Consiglio dei Ministri, indirizzata  al Presidente della Commissione europea, con la quale si anticipa la previsione di “misure di contenimento della spesa pensionistica che si sostanziano nel raffreddamento dello schema di indicizzazione dei trattamenti pensionistici di importo più elevato e di riduzione dei trattamenti più elevati (cfr. rispettivamente punti 4 e 5)”, mentre nell’allegata tabella di stima degli impatti finanziari delle misure emendative il “contributo pensioni di importo più elevato” è quantificato in 76 milioni di euro per l’anno 2019, in 80 milioni di euro per l’anno 2020 ed in 83 milioni di euro per l’anno 2021;

–  nel documento di Aggiornamento del quadro macroeconomico e di finanza pubblica – Dicembre 2018, predisposto dal MEF, nel quale tra le “Misure correttive per il conseguimento dei nuovi obiettivi” sono indicate delle “misure di contenimento della spesa pensionistica sui trattamenti più elevati, attraverso sia un raffreddamento dello schema di indicizzazione sia una riduzione degli emolumenti corrisposti”, mentre nell’allegata Tabella II – 1.8, a proposito delle misure sulle pensioni più elevate, è fornita la seguente descrizione dettagliata:

“Motivazione:

Maggiore equità del sistema previdenziale

Contenuto delle misure:

Revisione dello schema di indicizzazione dei trattamenti pensionistici per il triennio 2019-2021, sulle pensioni complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS. Riduzione temporanea per la durata di 5 anni dal 15% al 40% delle pensioni superiori a 100.000 euro (inteso come somma delle pensioni dirette di vecchiaia e anzianità/anticipate) con quote calcolate con metodo retributivo”.

Secondo quanto risulta dall’ultimo di tali atti, la riduzione delle pensioni più elevate è stata giustificata con la necessità di garantire la “maggiore equità del sistema previdenziale”.

Sennonché la misura adottata, della quale nei comunicati stampa sono stati strumentalmente ingigantiti gli effetti economici, comporta in media un risparmio di spesa di appena ottanta milioni di euro l’anno, laddove nella tabella di stima degli impatti finanziari delle misure emendative, allegata alla nota del 18 dicembre 2018, talune voci, che hanno sicuramente degli effetti fortemente espansivi della spesa,  richiedono al contrario degli esborsi di gran lunga più consistenti[6].

In effetti, la motivazione che emerge dagli atti richiamati è più apparente che reale, proprio in relazione alla marginalità economica dell’intervento, che non produce risultati equitativi economicamente apprezzabili, ma che incide pesantemente su pochi soggetti (circa 25.000 pensionati), discriminati in base alla loro storia lavorativa (l’essere stati lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, ricompresi nel settore previdenziale gestito dall’INPS), alle modalità di calcolo della pensione (retributiva o mista) ed all’entità del reddito da pensione, mentre sono stati esentati tutti gli altri percettori di redditi elevati (ivi compresi i titolari di trattamenti pensionistici posti a carico delle casse di previdenza professionali)[7] e, ai fini della determinazione dell’importo assoggettato al contributo di solidarietà, non si è tenuto conto, per come appresso sarà precisato, dei “trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio”.

In conclusione, la misura, per come risulta congegnata, è del tutto inidonea, e quindi irragionevole, perché non è assolutamente in grado di produrre i risultati conclamati, specie se si effettua un raffronto con i nuovi incrementi di spesa in materia previdenziale introdotti dalla stessa legge (c.d. reddito di cittadinanza e Quota 100).

Sub B – Ad ogni modo, l’aspetto più eclatante della vicenda è rappresentato dal fatto che i risparmi derivanti dalla riduzione delle pensioni elevate sono stati “parcheggiati”, puramente e semplicemente, in Fondi appositi, istituiti presso gli enti di previdenza, senza che ne siano state individuate “a priori”  le concrete modalità di utilizzo, il che costituisce un’ulteriore prova dell’irragionevolezza della misura e della conseguente violazione degli artt. 3, 81 e 97 Costituzione[8].

Infatti, in base all’art. 1, comma 265, della L. n. 145/2018 il Legislatore non ha stabilito ex ante la destinazione delle somme confluite nei Fondi, che vi “restano accantonate”.

Tuttavia, in mancanza di uno “scopo determinato”, precostituito per legge, le somme così accantonate, per essere concretamente utilizzate, sono destinate a confluire necessariamente nella fiscalità generale, atteso il chiaro disposto di cui all’art. 24, comma 4, della L. 31 dicembre 2009 n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), in base al quale “E’ vietata … l’assegnazione di qualsiasi provento per spese o erogazioni speciali, salvo i proventi e le quote di proventi riscossi per conto terzi, le oblazioni e simili, fatte a scopo determinato”[9].

Del resto, nel Dossier intitolato “Effetti sui saldi e conto risorse e impieghi – Legge n. 145 del 2018 e D.L. n. 119/2018 (legge n. 138 del 2018)”, predisposto congiuntamente dal Servizio del Bilancio del Senato e dal Servizio Bilancio dello Stato (gennaio 2019), è stato previsto che le somme derivanti dalla decurtazione delle pensioni di importo elevato sono destinate alla copertura delle spese generali, e quindi rientrano nell’ambito della fiscalità generale.

Infatti nella Tabella 8 (pag. 21), con la quale sono specificati i “Principali interventi e mezzi di finanziamento”, nell’elenco dei “mezzi di copertura” è stata indicata la voce “Misure sulle pensioni più elevate”, i cui importi, riferiti agli anni 2019, 2020 e 2021, coincidono con le somme che si prevedono di risparmiare per effetto delle misure di cui ai commi 260 e 261 dell’art. 1 della L. 30 dicembre 2018 n. 145[10].

Orbene, tenuto conto della destinazione finale del gettito, da acquisire al bilancio statale, la decurtazione del trattamento pensionistico costituisce a tutti gli effetti una misura di carattere tributario, trattandosi nella sostanza di un “prelievo coattivo … finalizzato al concorso alle pubbliche spese … in base ad uno specifico indice di capacità contributiva”[11].

Il concorso alle pubbliche spese quale indice rivelatore del carattere tributario di una misura è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale.

In particolare:

– Con sentenza 3 – 5 giugno 2013 n. 116, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art.18, comma 22 bis del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito con L. 15 luglio 2011 n. 111, e successive modificazioni, la Corte Costituzionale ha affermato la natura tributaria del “contributo di perequazione” del 2011, proprio in quanto acquisito alla fiscalità generale.

– Coerentemente con tale impostazione, con sentenza 13 luglio 2016, n. 147 la stessa Corte costituzionale ha negato la natura tributaria del “contributo di solidarietà” di cui all’art. 1, comma 486, della L.27 dicembre 2013 n. 147, giustificando tale affermazione con il fatto che esso non è acquisito allo Stato e non è destinato alla fiscalità generale.

  1. La natura tributaria dei prelievi coattivi di somme da destinare a finalità previdenziali e/o assistenziali

In ogni caso, la natura tributaria del prelievo di cui all’art. 1, comma 261 della L. 30 dicembre 2018 n. 145 deve essere affermata anche quando si ritenga che le somme accantonate debbano essere utilizzate direttamente per finalità previdenziali, senza la necessaria destinazione alla fiscalità generale.

Occorre evidenziare, al riguardo, che il sistema previdenziale è finanziato dai contributi sociali versati dai lavoratori e dai datori di lavoro ed è chiamato ad erogare, oltre alle prestazioni pensionistiche, anche prestazioni assistenziali, non correlate a versamenti contributivi, donde, per garantirne l’equilibrio, negli anni si è reso necessario l’ausilio della fiscalità generale, chiamata a ripianare i disavanzi degli enti di previdenza[12].

Conseguentemente una misura che introduce autoritativamente un prelievo forzoso su alcune pensioni di livello elevato, per assegnare le somme così reperite alle prestazioni previdenziali e/o assistenziali (peraltro ancora formalmente da individuare), dà sicuramente un apporto diretto al sistema previdenziale, ma, nello stesso tempo, riduce il contributo esterno alla previdenza da parte della fiscalità generale, il che consente a quest’ultima di liberare risorse di pari importo, da destinare ad altre finalità d’interesse collettivo[13].

Vista in quest’ottica, la decurtazione del trattamento pensionistico, imposta per legge, in via unilaterale ed autoritativa ed in assenza di un rapporto sinallagmatico, deve essere qualificata come misura di carattere tributario, perché contribuisce, sia pure in via indiretta, al fabbisogno finanziario dello Stato, chiamato a ripianare ogni anno il sistema previdenziale.

  1. Il carattere discriminatorio della misura

Dal momento che, come sarà precisato in appresso, il prelievo forzoso è stato circoscritto ai titolari di alcune pensioni elevate liquidate con il metodo retributivo (e misto), è palese la discriminazione posta in essere dal legislatore nei confronti di tali soggetti e la conseguente illegittimità costituzionale della misura, per violazione degli artt. 3 e 53 Costituzione.

In particolare, sussiste il mancato rispetto dei fondamentali principi di eguaglianza a parità di reddito e di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto:

– sono stati esclusi dal prelievo i contribuenti titolari di redditi molto elevati, diversi dalle pensioni (quali redditi fondiari, redditi di capitale, redditi d’impresa), pur essendo stati gli stessi soggetti chiamati a contribuire in via straordinaria al risanamento del bilancio statale fino al 31 dicembre 2016 [14];

– è stato introdotto un irragionevole diverso trattamento tra i pensionati titolari di pensioni elevate, liquidate con il metodo retributivo (e misto), da una parte, ed i pensionati  di cui ai commi 263 e 268 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, esentati dal prelievo, dall’altra;

– sono stati esclusi dal prelievo i liberi professionisti, titolari di trattamenti pensionistici a carico di enti previdenziali di diritto privato;

– sono stati esclusi dal prelievo i c.d. pensionati baby;

– ai fini della determinazione dell’importo assoggettato alla decurtazione, non sono stati presi in considerazione i “trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio”.

In sostanza, è stata posta in essere un’ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi, tanto più grave, anche in considerazione del fatto che “il risultato di bilancio … avrebbe potuto essere ben diverso  e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un universale intervento impositivo” (Cfr. Corte Cost. 5 giugno 2013 n. 116, punto 7.3 del considerato in diritto).

  1. In particolare, la discutibile esenzione delle pensioni aggiuntive e/o integrative, nonché di particolari categorie di pensionati, ivi compresi i liberi professionisti ed i c.d. pensionati baby

La L. n. 147/2013 aveva introdotto un contributo di solidarietà riguardante tutte le forme di previdenza obbligatorie, esteso a tutti indistintamente i titolari di trattamenti pensionistici elevati, a prescindere dal metodo di calcolo applicato per la determinazione della pensione (retributivo, contributivo, misto), coerentemente con le “finalità solidaristiche endoprevidenziali”, che secondo la Corte costituzionale il legislatore del 2013 intendeva perseguire.

Nell’ambito delle forme di previdenza obbligatorie, a fronte di una “misura di solidarietà forte, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli” (così definita dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 173/2016), si riteneva che non avesse alcun senso introdurre delle discriminazioni di qualsiasi genere nell’ambito della categoria dei pensionati, che avevano confidato nel rispetto delle regole vigenti all’atto del loro collocamento a riposo.

Tuttavia, a ben vedere, anche il contributo di solidarietà introdotto dalla L. n. 147/2013 era in effetti parziale, se raffrontato con i precedenti interventi disposti prima con l’art. 3, comma 102, della L. 24 dicembre 2003, n. 350, e, successivamente, con l’art. 18, comma 22 bis, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito con L. 15 luglio 2011, n. 111, poi modificato dall’art. 24, comma 31 bis, del D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito, con modificazioni, con L. 22 dicembre 2011 n. 214.

Infatti, a differenza di quanto previsto dalla normativa del 2011, alla determinazione dell’importo assoggettato al contributo di solidarietà del 2013 non concorrevano “i trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio (ivi comprese quelle di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, al decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 563, e decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252), i trattamenti che assicurano prestazioni definite per i dipendenti delle regioni a statuto speciale e degli enti di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70 (ivi compresi quelli derivanti dalla gestione speciale ad esaurimento di cui all’articolo 75 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761) e i trattamenti erogati dalle gestioni di previdenza obbligatorie presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per il personale addetto alle imposte di consumo, per il personale dipendente dalle aziende private del gas e per il personale già addetto alle esattorie e alle ricevitorie delle imposte dirette”.

In sostanza, già nel 2013 erano stati esclusi i trattamenti pensionistici integrativi e/o aggiuntivi del personale della Banca d’Italia, dell’UIC, degli enti pubblici creditizi, delle regioni, del c.d. parastato, del personale addetto alle imposte di consumo, delle aziende del gas, delle esattorie e delle ricevitorie.

Il legislatore del 2018, nell’introdurre un prelievo a carico delle forme di previdenza obbligatorie, non soltanto ha escluso dal calcolo dell’importo assoggettato al prelievo i trattamenti pensionistici integrativi e/o aggiuntivi (già esclusi nel 2013), ma anche ha esentato dallo stesso prelievo ulteriori categorie di pensionati.

Occorre ribadire, al riguardo, che il sistema di tutela obbligatoria previsto nell’ordinamento previdenziale italiano è strutturato in due settori di riferimento, l’uno destinato ai lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, gestito dall’INPS (che attualmente include anche le ex gestioni INPDAP ed ENPALS), l’altro, indirizzato alle categorie di liberi professionisti, gestito dagli enti previdenziali di diritto privato.

Ciò premesso, va sottolineato che la gravosa decurtazione dei trattamenti pensionistici introdotta nel 2018 riguarda unicamente il settore dei “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, gestito dall’INPS” e, nell’ambito di questi, incide soltanto sui titolari di pensioni calcolate con il metodo retributivo e misto, mentre sono stati esplicitamente esentati dal prelievo:

– i titolari di pensioni interamente liquidate con il metodo contributivo (comma 263);

– i titolari di pensioni di invalidità ed i trattamenti pensionistici di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222 (comma 268);

– i titolari di trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti (comma 268);

– i titolari di trattamenti riconosciuti a favore delle vittime del dovere o di azioni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206 (comma 268).

Parimenti, sono stati esentati dal prelievo i liberi professionisti, in quanto titolari di trattamenti erogati dagli enti previdenziali di diritto privato, istituiti con Decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509 (Enti Pubblici trasformati in associazioni o fondazioni con personalità giuridica di diritto privato) e con Decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103 (costituzione di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato)[15].

Deve anzitutto ribadirsi che, ove il legislatore avesse perseguito l’intento di reperire tutte le risorse disponibili, necessarie per garantire la sostenibilità del sistema pensionistico, la misura avrebbe dovuto essere applicata non soltanto – come nel 2013 – nei confronti di tutti indistintamente i titolari di pensioni elevate, senza distinzione alcuna tra “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori” da una parte, e “liberi professionisti”, dall’altra, ma avrebbe dovuto includere nella determinazione dell’importo assoggettato al contributo di solidarietà anche “i trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio”, come era già avvenuto con i provvedimenti legislativi del 2003 e del 2011.

Invece, non soltanto l’intervento è stato circoscritto ai lavoratori dipendenti ed affini, ma nell’ambito di questi sono stati esclusi in via prioritaria i titolari di pensioni calcolate con il metodo contributivo, presumibilmente sulla base del presupposto – tutto da dimostrare – secondo cui i titolari di pensioni calcolate con il metodo retributivo sarebbero beneficiari di un trattamento pensionistico “più vantaggioso”, se raffrontato con quello spettante ai primi.

Contestualmente, in maniera del tutto contraddittoria, illogica ed arbitraria:

A – Sono stati inclusi nella riduzione dei trattamenti pensionistici i titolari di assegni erogati dalla  Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, ancorché tali assegni siano liquidati con il metodo contributivo [16].

B – Sono state escluse dalla riduzione dei trattamenti pensionistici  alcune categorie di pensionati, che beneficiano di trattamenti pensionistici elevati e relativamente ai quali il legislatore ha considerato del tutto irrilevante  l’entità dei contributi versati. Trattasi, in particolare:

– dei titolari di pensioni ai superstiti, per i quali non è stata presa in considerazione né la posizione contributiva né il metodo di calcolo applicato per la determinazione della pensione spettante al loro dante causa;

– dei titolari di particolari trattamenti pensionistici (pensioni di invalidità; trattamenti spettanti alle vittime del dovere e di azioni terroristiche), la cui liquidazione non è legata al pagamento di contributi.

C – Non solo. Avendo riguardo all’entità irrisoria dei contributi versati nel corso della loro breve vita lavorativa, tra i soggetti ingiustamente esentati dalla misura – e quindi sostanzialmente avvantaggiati – sono stati di fatto inclusi anche i titolari delle c.d. pensioni baby del settore pubblico[17], ancorché facenti parte del settore dei “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, gestito dall’INPS”. Costoro sono stati collocati a riposo a domanda nell’arco temporale dal 1974[18] al 1992[19], dopo aver maturato l’anzianità minima di servizio prevista dalla normativa all’epoca in vigore (per gli statali diciannove anni, sei mesi ed un giorno, ridotti a quattordici anni, sei mesi ed un giorno per le donne sposate o con prole a carico; venticinque anni per i dipendenti degli enti locali), ed in concreto percepiscono la pensione per un periodo che oscilla tra i quaranta ed i cinquanta anni, pari al doppio ed in molti casi al triplo del periodo di effettiva contribuzione. Pur essendo titolari di pensioni di importo non elevato (perché commisurate al livello non apicale degli stipendi in godimento all’atto del pensionamento ed al numero ridotto di anni di servizio), i c.d. pensionati baby – grazie al prolungarsi del periodo di quiescenza –  finiscono con il percepire degli assegni la cui somma complessiva, calcolata in base alla durata dell’erogazione, supera abbondantemente il triplo di quanto essi stessi hanno versato nel corso della loro ridotta vita lavorativa.

Tale ultima categoria di pensionati non è stata minimamente presa in considerazione dal legislatore del 2018, che ha scaricato il peso della “c.d. solidarietà intergenerazionale” soltanto sui titolari di pensioni elevate, specificatamente su quelle calcolate con il metodo retributivo e misto, riferibili al settore dei “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori gestito dall’INPS”, laddove una più attenta ed equa valutazione della palese distorsione creata all’interno del sistema previdenziale dalla categoria dei c.d. pensionati baby avrebbe reso necessario anche il coinvolgimento di questi ultimi, sia pure con aliquote ridotte, al fine di reperire maggiori risorse ed evitare – nello stesso tempo – di concentrare il sacrificio soltanto su alcuni e, nello stesso tempo, di vanificare in via di fatto l’efficacia della misura.

Così, a titolo esemplificativo, ipotizzando una ritenuta di Euro 500,00 annui lordi a carico di ciascun c.d. pensionato baby, si sarebbero potute reperire risorse per oltre 265 milioni di euro su base annua[20].

In sostanza, la misura, per come risulta congegnata, è palesemente discriminatoria e iniqua, perché è applicata – con aliquote molto elevate – unicamente nei confronti dei titolari di pensioni calcolate con il metodo retributivo (o misto), facenti parte del settore dei “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, gestito dall’INPS”. Ciò, ancorché l’applicazione del metodo retributivo (o misto) in luogo del sistema contributivo non sia dipesa dalla volontà del singolo[21], ma sia il risultato di una scelta operata dal legislatore (riforma Dini del 1995; riforma Fornero del 2011), il quale ha voluto dare rilevo alla “retribuzione”, partendo dal presupposto, più volte ritenuto corretto dal Giudice delle leggi, secondo cui “il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita” (Cfr. Corte Cost. sentenza 1 dicembre 2017, n. 250; idem, sentenza 30 aprile 2015, n. 70;  idem, sentenza 5 giugno 2013, n. 116, che richiama Corte Cost. sentenza n. 30/2004; idem, ordinanza n. 166/2006)[22].

In conclusione, prendendo in considerazione soltanto la categoria dei pensionati, è stata introdotta una misura che:

– danneggia unicamente i titolari di pensioni calcolate con il metodo retributivo (o misto), facenti parte del settore dei “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, gestito dall’INPS”;

– esclude i liberi professionisti titolari di trattamenti pensionistici erogati dagli enti previdenziali di diritto privato;

– non include nella determinazione dell’importo assoggettato al contributo di solidarietà le pensioni aggiuntive e/o integrative;

– esclude i c.d. pensionati baby, che fruiscono di pensioni sicuramente non commisurate all’entità dei contributi versati.

  1. La violazione di vari principi di rango costituzionale ed il mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dalla CEDU

Il prelievo di cui trattasi, oltre che palesemente discriminatorio, è ingiustamente punitivo, perché, in misura raddoppiata rispetto al passato:

– incide “sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza pubblica [recte: giuridica]» (Cfr. Corte Cost. 14 dicembre 2017 n. 267, punto 5.1 del considerato in diritto, che richiama le sentenze n. 822 del 1988, n. 16 del 2017, n. 108 del 2016, nn. 216, 56 e 34 del 2015, n. 166 del 2012)[23];

– viola il principio, sancito dagli artt. 38 e 36 Costituzione, in base al quale “La determinazione del trattamento pensionistico e del suo adeguamento tiene conto anche dell’impegno individuale nella quantità e qualità del lavoro svolto nella vita attiva” (Cfr. Corte Cost., sentenza 1 dicembre 2017, n. 250, punto 6.5.4 del considerato in diritto, e più recentemente, negli stessi termini, ordinanza 11 maggio 2018 n. 96);

– viene a “gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro” (Cfr. Corte Cost, 5 giugno 2013, n. 116, punto 7.3 del considerato in diritto);

– determina una “irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività” (Cfr. Corte Cost. 30 aprile 2015 n. 70, punto 10 del considerato in diritto, che richiama Corte Cost. sentenza n. 349/1985);

– interviene – in maniera del tutto imprevedibile – a distanza di anni rispetto alla data di collocamento a riposo, con conseguente frustrazione delle legittime aspettative degli  interessati, i quali avrebbero potuto scegliere per tempo se accedere o meno alle forme di previdenza complementare regolate dal decreto legislativo n. 252 del 2005, al fine di garantirsi più elevati livelli di copertura previdenziale, ovvero, se possibile, far valere le loro rivendicazioni nei confronti dei datori di lavoro in sede di contrattazione collettiva;

– incide sui mezzi adeguati alle esigenze di vita, i quali “non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano (sono) idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta in seno alla categoria di appartenenza per effetto dell’attività lavorativa svolta” (Cfr. Corte Cost. sentenza 7 luglio 1986, n. 173, richiamata da Corte Cost. sentenza 7 dicembre 2017 n. 259);

– colpisce un diritto di credito, che è quello vantato dai titolari di un trattamento pensionistico e che costituisce a tutti gli effetti un “bene”, mediante un’ingerenza dello Stato non ragionevolmente proporzionata al fine perseguito, poiché la perdita (o la compressione) del diritto assume un carattere sostanzialmente discriminatorio;

– introduce un’inammissibile discriminazione tra pensionati, distinguendo tra “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori” da una parte, e “liberi professionisti” e titolari di pensioni aggiuntive e/o integrative, dall’altra, con palese violazione del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Costituzione[24];

– penalizza i titolari di trattamenti pensionistici a carico della Gestione separata INPS, ancorché liquidati con il metodo contributivo, discriminandoli rispetto agli altri pensionati titolari di assegni liquidati con il metodo contributivo;

– viola ripetutamente l’art. 117, comma 1, Costituzione, non essendo stati rispettati i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, che vietano qualsiasi discriminazione.

Vanno richiamati, a tal proposito:

l’art. 21 della Carta di Nizza, in base al quale è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, tra l’altro, sul patrimonio e sull’età;

l’art. 25 della stessa Carta di Nizza, con il quale l’Unione riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale[25];

la Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 con la quale l’Unione ha stabilito “un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”[26];

l’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, secondo il quale “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” e l’art. 14 CEDU, secondo il quale “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione”[27].

  1. La violazione delle norme e dei principi che disciplinano il rapporto di rendita vitalizia

La decurtazione delle pensioni di importo elevato, disposta dall’art. 1, commi 261 – 268 della L. 30 dicembre 2019 n. 145, può essere esaminata anche in una diversa prospettiva, attingendo a principi propri del diritto civile.

La dottrina e la giurisprudenza[28]sono concordi nel qualificare la pensione ordinaria come un vero e proprio diritto soggettivo pubblico a contenuto patrimoniale, che si perfeziona nel momento dell’estinzione del rapporto d’impiego, nel concorso degli altri presupposti determinati dalla legge.

Come prima detto, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale [29] la pensione è una proiezione del rapporto d’impiego che trova nelle leggi che regolano tale rapporto il suo fondamento giuridico e deve considerarsi come una vera e propria “retribuzione differita”.

Limitando il riferimento ai dipendenti pubblici, è certo che con il rapporto d’impiego lo Stato si assicura l’attività lavorativa del cittadino per tutto il periodo più produttivo della sua vita e retribuisce tale prestazione d’opera sia con lo stipendio, sia – ricorrendone le prescritte condizioni – con la pensione[30]. Al diritto alla pensione, fondato su norme di diritto pubblico, corrisponde un obbligo – da parte dello Stato (e per esso dell’Ente di previdenza) – al pagamento periodico vitalizio di una somma di denaro.

In estrema sintesi, nelle pensioni ordinarie tra il pensionato e lo Stato (e per esso l’Ente previdenziale) viene ad instaurarsi un rapporto obbligatorio di fonte legale, avente ad oggetto le prestazioni pensionistiche[31], la durata delle quali è commisurata alla vita del beneficiario.

Il fattore temporale assume particolare rilevanza, perché consente di ricondurre il rapporto pensionistico nell’ambito dell’istituto privatistico della rendita vitalizia (o vitalizio), disciplinato dagli artt. 1872 – 1881 cod. civile, caratterizzato dall’esistenza di un rapporto obbligatorio di durata, nel quale il debitore è tenuto a fornire periodicamente una prestazione di denaro o di altre cose fungibili al creditore della rendita, per tutta la vita del beneficiario[32].

L’elemento qualificante della rendita vitalizia è rappresentato dall’alea derivante dalla permanenza in vita del vitaliziato[33], di per sé non prevedibile a priori, e tale alea è presente anche in campo pensionistico.

Le fonti della rendita vitalizia possono essere le più varie: negoziali (contratto oneroso o gratuito, donazione, testamento), giudiziali e legali.

Nell’ambito delle fonti legali vanno poi distinte le fonti civilistiche (ad esempio, l’ipotesi di cui all’art. 2057 cod. civile) e le fonti non civilistiche, a seconda che la rendita vitalizia sia prevista dalle norme del codice civile oppure da leggi speciali, come avviene per le pensioni sociali, le pensioni (ordinarie e privilegiate) connesse con un rapporto di pubblico impiego, le pensioni di guerra e così via[34].

Quale che sia il titolo costitutivo della rendita vitalizia, il codice civile si limita a delineare la disciplina essenziale del rapporto, e tale comune matrice civilistica deve essere tenuta presente – come canone ermeneutico e normativo – per la soluzione dei problemi comuni a tutte le tipologie di rendita vitalizia, ivi comprese quelle derivanti da fonti non civilistiche[35].

Fatta questa necessaria premessa, deve evidenziarsi che, in base all’art. 1879, comma 2, cod. civile, il debitore di una rendita vitalizia “è tenuto a pagare la rendita per tutto il tempo per il quale è stata costituita, per quanto gravosa sia diventata la sua prestazione”.

L’intento perseguito dal legislatore è quello di evitare che all’alea derivante dalla permanenza in vita del vitaliziato, del tutto imprevedibile, venga ad aggiungersi l’incidenza di fatti e circostanze esterne, in grado di alterare l’equilibrio economico del rapporto.

Tale disposizione risulta coerente con l’art. 1469 cod. civile, in base al quale ai contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti non si applicano le disposizioni di cui agli artt. 1467 e 1468 cod. civile, che nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione differita, consentono la risoluzione del contratto, in caso di obbligazioni di entrambe le parti (art. 1467), ovvero la riduzione della prestazione, in caso di obbligazioni di una sola parte (art. 1468), qualora la prestazione stessa sia divenuta “eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili”.

In sostanza, fatto salvo un diverso accordo delle parti, nella rendita vitalizia devono essere del tutto esclusi i rimedi correttivi collegati ad accadimenti esterni al rapporto, e ciò al fine di garantire al beneficiario la stabilità degli emolumenti, per tutto il periodo della sua permanenza in vita.

Sennonché, con l’intervento di cui all’art. 1, commi 261 – 268 della L. n. 245/2018 il legislatore  si è allontanato dalla regola, di portata generale, introdotta dall’art. 1879, comma 2, cod. civile, finalizzata a garantire l’equilibrio tra le parti del rapporto, per tutto il tempo della sua durata, dal momento che ha alterato unilateralmente quanto concordato con il vitaliaziato all’atto del suo collocamento a riposo.

In sostanza, il legislatore del 2018:

– ha ritenuto di poter modificare a proprio piacimento un rapporto sinallagmatico ormai consolidato, caratterizzato dall’aleatorietà e quindi intangibile per natura, violando il disposto di cui all’art. 1879, comma 2 cod. civile e, prima ancora, il principio di cui all’art. 1469 cod. civ. ;

– ha ridotto autoritativamente l’ammontare delle prestazioni periodiche in danno del vitaliziato, e ciò ha fatto con palese violazione delle regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civile,  riferibili a tutti i rapporti obbligatori, quale che sia la loro fonte genetica[36], così violando i doveri inderogabili di solidarietà tra le parti del rapporto, che la giurisprudenza della Suprema Corte[37], espressamente richiamata in più occasioni dalla Corte costituzionale[38], ricollega all’art. 2 Costituzione.

In conclusione, la decurtazione delle pensioni di importo elevato viola l’art. 2 Costituzione ed il principio costituzionale non scritto di buona fede, che possiede la stessa efficacia dei principi recepiti nella Carta Costituzionale[39].

Del pari, il legislatore si è discostato dai principi che disciplinano lo svolgimento del rapporto di rendita vitalizia, esplicitati da specifiche disposizioni del Codice civile, prima richiamate, ed ha colpito con intento discriminatorio un diritto di credito già consolidato, con violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Costituzione.

Risulta altresì violato l’art. 117, comma 1, Costituzione, dal momento che sia l’ordinamento comunitario sia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo vietano qualsiasi forma di discriminazione. Si richiamano al riguardo, ancora una volta:

– gli artt. 21 e 25 della Carta di Nizza e la Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000;

– l’art. 1 del protocollo n. 1 CEDU e l’art. 14 CEDU.

  1. La mancata considerazione dell’entità dei contributi versati e dell’età di collocamento a riposo. La sostanziale neutralizzazione del sistema misto

            Nell’art. 1, commi 261 – 268 della L. 30 dicembre 2018 n. 145 sono riscontrabili ulteriori criticità.

A – Il legislatore del 2018 ha omesso di considerare l’entità, sicuramente molto rilevante, dei contributi versati per un lungo periodo di tempo dai pensionati incisi, che nella maggior parte dei casi hanno concluso le loro carriere ai vertici delle Amministrazioni (o Enti anche di diritto privato) di appartenenza, conseguendo quei trattamenti stipendiali di grado elevato, ai quali sono stati commisurati nel tempo gli stessi contributi. Del pari è stata del tutto omessa la valutazione dell’età del collocamento a riposo.

Tali omissioni infirmano in radice l’assunto, sotteso alla misura di cui si discute, secondo cui i titolari di pensioni liquidate con il metodo retributivo (o misto) sarebbero dei privilegiati rispetto ai titolari di pensioni liquidate con il metodo contributivo.

Deve premettersi che tutti i lavoratori in servizio sono assoggettati al versamento di contributi previdenziali, in parte a carico del datore di lavoro ed in parte a carico del lavoratore e che la misura di tali contributi è identica per tutti i dipendenti, a prescindere dal metodo di calcolo della pensione, da adottarsi al termine del rapporto di lavoro[40].

In base alla normativa vigente (cfr. art. 1, comma 6, della L. 8 agosto 1995 n. 335) l’ammontare della pensione determinata con il metodo contributivo  è commisurato:

– all’entità dei contributi versati, la cui somma costituisce il “montante contributivo”;

– all’età del pensionamento, in relazione alla quale sono individuati i coefficienti di trasformazione” del montante contributivo in rendita, onde più elevata è l’età, maggiore è l’importo della pensione.

Viceversa, con il metodo retributivo l’ammontare della pensione è calcolato sulla base della “retribuzione media pensionabile” (ossia dalla media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di servizio, fino ad un massimo di dieci anni), ai sensi dell’art. 7 del Decreto Leg.vo 30 dicembre 1992, n. 503, e della “anzianità di servizio”. Poiché i contributi da versare sono calcolati in base all’ammontare delle retribuzioni, ad un maggior importo di queste ultime corrisponde un maggiore importo dei contributi versati.

Ove si fosse voluta perseguire effettivamente la “maggiore equità del sistema previdenziale”, il legislatore del 2018 non avrebbe potuto disporre il prelievo – puramente e semplicemente – sulla base dell’ammontare dei trattamenti di quiescenza percepiti dai titolari di pensioni liquidate con il metodo retributivo (o misto), ma avrebbe dovuto tenere conto per ogni pensionato sia dell’entità dei contributi versati nel corso dell’intera vita lavorativa, sia dell’età raggiunta all’atto del collocamento a riposo. Ciò al fine di accertare, caso per caso, l’esistenza di eventuali squilibri derivanti dal diverso metodo di calcolo della pensione.

Nella specie, nulla di tutto questo è stato fatto.

Sembra piuttosto che tale accertamento sia sostanzialmente impossibile. Infatti, per quanto risulta da taluni estratti conto informativi rilasciati dall’INPS nell’anno 2013, per i dipendenti dello Stato l’Ente di previdenza dispone dell’importo delle retribuzioni ai fini pensionistici soltanto per i periodi decorrenti dal 1 gennaio 1993 in poi, e non anche per i periodi precedenti,  il che – ovviamente –  non consente il calcolo dei contributi versati dal singolo pensionato nel corso dell’intera vita lavorativa.

Da ciò la violazione degli artt. 3 e 97 Costituzione per travisamento e carenza di istruttoria sul presupposto stesso della misura, nonché per irragionevolezza dell’automatismo della decurtazione[41].

            B – La notevole rilevanza economica dei contributi versati dai titolari di pensioni liquidate con il metodo retributivo è comprovata – sia pure indirettamente – da un recente intervento legislativo, molto significativo al riguardo.

Va ricordato, a tal proposito, che, che a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 24 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con L. 22 dicembre 2011 n. 214, nei confronti di coloro che potevano vantare 18 anni di contributi alla data del 31 dicembre 1995 è stato introdotto un particolare regime pensionistico “misto”, in virtù del quale la liquidazione della pensione deve essere effettuata con il metodo retributivo per il servizio reso fino al 31 dicembre 2011 e con il metodo contributivo per il periodo successivo.

Avendo constatato che l’applicazione del sistema “misto” comportava un maggiore esborso rispetto a quello derivante dall’applicazione delle pregresse regole di calcolo, basate unicamente sul metodo retributivo, il legislatore è corso ai ripari e con l’art. 1, comma 707 della L. 23 dicembre 2014, n. 190 ha introdotto una specifica disposizione di salvaguardia. Pertanto, integrando l’art. 24, comma 2, del D.L. n. 201/2011, è stato prescritto che “In ogni caso, l’importo complessivo del trattamento pensionistico non può eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima della data di entrata in vigore del … decreto …[42].

Da ciò è derivata la sostanziale neutralizzazione del sistema misto in danno dei titolari di pensioni elevate, il che comprova per tabulas che i soggetti che hanno fruito di trattamenti stipendiali di grado elevato hanno corrisposto – nel corso della loro lunga vita lavorativa – dei contributi altrettanto elevati, tali da procurare loro addirittura un vantaggio in sede di computo ai fini pensionistici del servizio reso dall’1 gennaio 2012 in poi, se valutato con il metodo contributivo.

  1. L’eccessivo ammontare delle nuove decurtazioni

            Nel considerare legittima la decurtazione delle pensioni di cui alla L. n. 147/2013, la Corte Costituzionale aveva sottolineato che l’incidenza del prelievo, riguardante tutti i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie (in favore dei “lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori”, nonché dei “liberi professionisti”), doveva essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili, per cui le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il criterio di proporzionalità che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura”. In virtù di tale premessa, la stessa Corte aveva ritenuto che il criterio di proporzionalità fosse stato rispettato con l’applicazione di aliquote crescenti (del 6%, del 12% e del 18%), ritenute “non eccessive”, e quindi congrue in relazione al loro ammontare.

Viceversa, la L. n. n. 145/2018, al comma 261, ha elevato in maniera consistente le precedenti aliquote, portandole:

– dal 6% al 15% per i trattamenti pensionistici da Euro 100.000 lordi ad Euro 130.000 lordi;

– dal 12% al 25% per i trattamenti pensionistici da Euro 131.000 lordi ad Euro 200.000 lordi;

– dal 18% al 30% per i trattamenti pensionistici da Euro 201.000 lordi ad Euro 350.000 lordi;

– dal 18% al 35% per i trattamenti pensionistici da Euro 351.000 lordi ad Euro 500.000 lordi;

– dal 18% al 40 % per i trattamenti pensionistici da Euro 500.000 lordi in poi.

In sostanza, nonostante le puntualizzazioni della Corte Costituzionale, che aveva insistito sulla necessità che la misura del prelievo non fosse eccessiva, le precedenti aliquote del 2013 sono state più che raddoppiate, in palese violazione dei criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, che la stessa Corte aveva ritenuto “sia pur al limite” rispettati, allorché erano state applicate aliquote ridotte rispetto alle attuali ed il prelievo era stato limitato ad un triennio.

Peraltro, tutto ciò è avvenuto, contraddittoriamente, in un contesto economico caratterizzato da un’attenuazione delle “emergenze finanziarie” che avevano giustificato la misura del 2013[43]. In una situazione siffatta, la decurtazione delle pensioni elevate, ove riproposta, avrebbe dovuto essere attenuata, e non inasprita, essendosi sensibilmente affievolite le “esigenze che avevano giustificato le iniziali misure restrittive”[44].

Altrettanto contraddittoriamente sono stati esclusi dal prelievo i liberi professionisti titolari di pensioni erogate da enti previdenziali di diritto privato, già chiamati al pagamento del contributo di solidarietà in base alla normativa del 2013.        Nello stesso tempo, sempre in maniera contraddittoria, non sono state incluse nella determinazione dell’importo assoggettato al contributo di solidarietà le pensioni aggiuntive e/o integrative percepite da alcune categorie di pensionati (Banca d’Italia, c.d. parastato ed altri), già prese in considerazione dal legislatore del 2011.

  1. L’anomala durata dell’intervento

            A – Un ulteriore profilo da esaminare è quello riguardante la durata dell’intervento, che è stata trasformata da triennale in quinquennale  con conseguenze non indifferenti dal punto di vista sostanziale, peraltro solo in danno dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, appartenenti al settore gestito dall’INPS, pervenuti in posizioni di vertice al termine di una lunga carriera, e quindi collocati a riposo in età avanzata.

Infatti, un prelievo dilatato nel tempo, rapportato con le aspettative di vita, che si riducono in maniera esponenziale con l’avanzare degli anni, diventa sostanzialmente definitivo ed irreversibile[45].

In ogni caso, a partire dall’anno 2019 nei confronti dei titolari di pensioni di importo elevato non liberi professionisti è stata posta in essere una misura che è sostanzialmente ripetitiva e che si traduce in un vero e proprio meccanismo di alimentazione “a regime” del sistema di previdenza. Ciò è comprovato dal fatto che il nuovo prelievo forzoso è l’ultimo di una lunga serie di prelievi, reiterati dal legislatore nel corso degli ultimi venti anni.

Infatti:

I – Un primo “contributo di solidarietà” è stato introdotto dall’art. 37, comma 1, della L. 23 dicembre 1999 n. 488, che ha così disposto:

  1. A decorrere dal 1° gennaio 2000 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori al massimale annuo previsto dall’articolo 2, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e’ dovuto, sulla parte eccedente, un contributo di solidarietà nella misura del 2 per cento secondo modalità e termini stabiliti con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”

Lo stesso art. 37, al comma 2, ha specificato le modalità di utilizzazione del contributo di solidarietà, prevedendone l’assegnazione al “fondo di cui all’articolo 5, comma 2, della legge 24 giugno 1997, n. 196, per le finalità stabilite dall’articolo 9, comma 3, della medesima legge”.

II – Indi è intervenuto l’art. 3, comma 102, della L.24 dicembre 2003 n. 350, in base al quale “A decorrere dal 1º gennaio 2004 e per un periodo di tre anni, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi risultino complessivamente superare un importo pari a venticinque volte quello stabilito dall’articolo 38, comma 1, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, rivalutato annualmente nella misura stabilita all’articolo 38, comma 5, lettera d), della predetta legge 28 dicembre 2001, n. 448, è dovuto un contributo di solidarietà nella misura del 3 per cento. Al predetto importo concorrono anche i trattamenti integrativi percepiti dai soggetti nei cui confronti trovano applicazione le forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, ivi comprese quelle di cui al decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 563, al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni, e al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, nonché le forme pensionistiche che assicurano comunque ai dipendenti pubblici, inclusi quelli alle dipendenze delle regioni a statuto speciale e degli enti di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70, e successive modificazioni, ivi compresa la gestione speciale ad esaurimento di cui all’articolo 75 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, nonché le gestioni di previdenza per il personale addetto alle imposte di consumo, per il personale dipendente dalle aziende private del gas e per il personale addetto alle esattorie e alle ricevitorie delle imposte dirette, prestazioni complementari al trattamento di base. L’importo complessivo assoggettato al contributo non potrà comunque risultare inferiore, al netto dello stesso contributo, all’importo di cui al primo periodo del presente comma. Gli importi dei predetti contributi, al netto della somma corrispondente all’applicazione dell’aliquota marginale prevista dalla normativa vigente per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, affluiscono al Fondo di cui al comma 101”.

III – Un terzo intervento legislativo è stato posto in essere con l’art. 18, comma 22 bis, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito con L. 15 luglio 2011, n. 111, poi modificato dall’art. 24, comma 31 bis, del D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito, con modificazioni, con L. 22 dicembre 2011 n. 214, che ha statuito quanto segue:

“In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi complessivamente superino 90.000 euro lordi annui, sono assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000 euro; a seguito della predetta riduzione il trattamento pensionistico complessivo non può essere comunque inferiore a 90.000 euro lordi annui. Ai predetti importi concorrono anche i trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, ivi comprese quelle di cui al decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 563, al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, nonché i trattamenti che assicurano prestazioni definite dei dipendenti delle regioni a statuto speciale e degli enti di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70, e successive modificazioni, ivi compresa la gestione speciale ad esaurimento di cui all’articolo 75 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, nonché le gestioni di previdenza obbligatorie presso l’INPS per il personale addetto alle imposte di consumo, per il personale dipendente dalle aziende private del gas e per il personale già addetto alle esattorie e alle ricevitorie delle imposte dirette. La trattenuta relativa al predetto contributo di perequazione è applicata, in via preventiva e salvo conguaglio, a conclusione dell’anno di riferimento, all’atto della corresponsione di ciascun rateo mensile. Ai fini dell’applicazione della predetta trattenuta è preso a riferimento il trattamento pensionistico complessivo lordo per l’anno considerato. L’INPS, sulla base dei dati che risultano dal casellario centrale dei pensionati, istituito con decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388, e successive modificazioni, è tenuto a fornire a tutti gli enti interessati i necessari elementi per l’effettuazione della trattenuta del contributo di perequazione, secondo modalità proporzionali ai trattamenti erogati. Le somme trattenute dagli enti vengono versate, entro il quindicesimo giorno dalla data in cui è erogato il trattamento su cui è effettuata la trattenuta, all’entrata del bilancio dello Stato”.

La disposizione riportata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza 3 – 5 giugno 2013 n. 116.

IV – Con l’art. 1, comma 486, della L. 27 dicembre 2013, n. 147, il legislatore ha introdotto nuovamente, per il triennio 1 gennaio 2014 – 31 dicembre 2016, un “contributo di solidarietà”, del quale si è parlato diffusamente in precedenza, destinato “anche” a concorrere al finanziamento degli interventi dei c.d. esodati”, considerato costituzionalmente legittimo dalla Corte costituzionale con sentenza 13 luglio 2016, n. 147.

V – Infine, scaduto il triennio di cui alla L. n. 147/2013, il legislatore con l’art. 1, commi 261 – 268 della L. 30 dicembre 2018 n. 145, ha introdotto una riduzione dei trattamenti pensionistici non meglio qualificata, da protrarsi per il quinquennio 1 gennaio 2019 – 31 dicembre 2023.

In sostanza, avendo riguardo all’ultimo decennio, la decurtazione delle pensioni elevate, essendo stata avviata l’1 gennaio 2014 ed essendo destinata a protrarsi fino al 31 dicembre 2023, durerà, tenuto conto dell’interruzione degli anni 2017 e 2018, ben otto anni su dieci.

In conclusione, la durata quinquennale dell’ultimo prelievo e le sua ripetitività, comprovata dalla pressoché costante reiterazione degli interventi legislativi, fanno sostanzialmente venir meno il requisito della “temporaneità” della misura, che la Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 173/2016 aveva indicato come un elemento essenziale, ai fini del rispetto dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Costituzione.

Ne consegue la violazione degli artt. 2, 3, 38 e 36 Costituzione, essendo stato inciso, in maniera irragionevole, con un intervento prolungato nel tempo, un diritto inviolabile, connesso all’attività lavorativa svolta, alla quale ultima è collegato il trattamento pensionistico.

            B – La durata quinquennale del prelievo sulle pensioni di livello elevato risulta illegittima anche per un ulteriore profilo.

L’art. 21, comma 1, della L. 31 dicembre 2009 n. 196, prevede che “Il disegno di legge del bilancio di previsione si riferisce ad un periodo triennale”. In sostanza, l’arco temporale entro cui le previsioni economiche sono considerate attendibili è quello del triennio.

Coerentemente con tale prescrizione, – nell’Allegato 1 alla nota del 18 dicembre 2018 del Presidente del Consiglio dei Ministri, indirizzata  al Presidente della Commissione europea, più volte richiamata, si fa riferimento al triennio 2019 – 2021.

Sennonché, adottando una misura di durata quinquennale, il legislatore si è discostato dalla legge di contabilità, così violando l’art. 81 Costituzione.

  1. Considerazioni conclusive

La “maggiore equità del sistema previdenziale”, professata nei lavori preparatori della legge finanziaria per l’anno 2019, costituisce in effetti una mera petizione di principio, fine a se stessa, dal momento che si colpiscono solo alcuni pensionati, colpevoli di essere stati lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, appartenenti al settore previdenziale gestito dall’INPS, e di aver conseguito pensioni elevate liquidate con il metodo retributivo (o misto), mentre si tengono indenni i titolari di pensioni liquidate con il metodo contributivo, talune categorie di pensionati indicate al comma 268 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, i liberi professionisti, i beneficiari di pensioni aggiuntive e/o integrative, i titolari delle c.d. pensioni baby e tutti gli altri cittadini, pensionati e non, ancorché percettori di redditi altrettanto elevati.

Come affermato più volte dal Giudice costituzionale, esiste un’esigenza fondamentale di bilanciare la garanzia del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, da una parte, con altri valori costituzionalmente rilevanti, dall’altra (Cfr. Corte Cost. 30 aprile 2015, n. 70, punto 10 del considerato in diritto).

Pertanto, attesa l’esistenza di un nesso inscindibile tra gli artt. 36, comma 1, e 38, comma 2, Costituzione, tutte le volte in cui si vuole conseguire un risparmio di spesa in materia pensionistica il legislatore deve operare un corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti, previa un’adeguata valutazione della situazione finanziaria, basata su dati oggettivi (cfr. Corte Cost. 12 dicembre 2017, n. 250, punto 6.5.1 del considerato in diritto).

Nella specie tale valutazione è mancata del tutto, non emergendo dai lavori preparatori della Legge n. 145/2018 la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento.

Né sono state indicate le ragioni per cui soltanto alcune categorie di pensionati dovrebbero contribuire ad “una maggiore equità del sistema previdenziale”, mentre ne sarebbero esentate altre, ancorché beneficiarie di assegni pensionistici o di redditi altrettanto elevati.

A ben vedere, il legislatore è stato mosso non da esigenze finanziarie, ma da un vero e proprio intento punitivo nei confronti di alcuni pensionati, rei di essere stati lavoratori dipendenti, pubblici e privati, autonomi e collaboratori, nel settore previdenziale gestito dall’INPS, e di aver conseguito il diritto alla pensione calcolata con il metodo retributivo (o misto), avendo maturato un’anzianità di diciotto anni di servizio alla data del 31 dicembre 1995.

La discriminazione è particolarmente evidente, avendo riguardo alla platea dei soggetti immotivatamente esentati dal prelievo.

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Post scriptum

Dopo la redazione del presente scritto, ultimato nel settembre 2019, è intervenuta l’ordinanza n.6/2019  del 17 ottobre 2019, con la quale la Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia – in composizione monocratica di Giudice Unico per le pensioni – ha sollevato avanti la Corte Costituzionale la questione di costituzionalità dell’art. 1, commi 260 – 268 della L. 30 dicembre 2018 n. 145, per contrasto con gli artt. 3, 23, 36, 38 e 53 Costituzione.

Poiché con l’ordinanza suddetta sono state evidenziate soltanto alcune criticità della normativa in esame e ne sono state tralasciate altre, si è ritenuto utile pubblicare il presente scritto, onde fornire ulteriori spunti di riflessione.

 Note

[1] Infatti non vengono trattati i profili attinenti la riduzione per un triennio della rivalutazione automatica delle pensioni di importo elevato, disposta dall’art. 1, comma 260, della L. 30 dicembre 2018 n. 145.

[2]https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/focus-on/Previdenza-obbligatoria/Pagine/default.aspx

[3] Va ricordato, al riguardo, che l’art. 18, comma 22 bis, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, come modificato dall’art. 24, comma 31 bis, del D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214, dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza 5 giugno 2013, n. 116, aveva introdotto un “contributo di perequazione”, motivato “in considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica”.

[4] Ciò a differenza dell’art. 1, comma 709 della L. 23 dicembre 2014, n. 190 che in una situazione analoga – riguardante l’utilizzazione dei fondi ricavati dal doppio calcolo delle pensioni miste, liquidate con il metodo contributivo per il servizio reso dall’1 gennaio 2012 in poi – aveva delegato al Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, il potere di scegliere  le particolari categorie di soggetti cui attribuire i fondi accantonati, al fine di garantirne l’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche.

In precedenza,  l’art.1, comma 486, della L. n. 147/2013, aveva previsto che le somme trattenute a titolo di contributo di solidarietà erano “acquisite dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie, anche al fine di concorrere al finanziamento degli interventi di cui al comma 191 del presente articolo”.

[5] Negli stessi termini, Corte Cost. ordinanza 11 maggio 2018, n. 96.

[6] Infatti già per l’anno 2019 si prevede una spesa di 1.900 milioni di euro per il Fondo reddito di cittadinanza e di 2.732 milioni di euro per il Fondo interventi pensionistici (Quota 100).

[7] Cfr. Circolare INPS 7 maggio 2019 n. 62, par. 1, penultimo capoverso.

[8] Ciò, a differenza dell’art.1, comma 486, della L. 27 dicembre 2013, n. 147, in base al quale le somme trattenute erano acquisite direttamente dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie per finalità solidaristiche endoprevidenziali già indicate dalla legge, tra cui le misure di sostegno ai c.d. esodati.

[9] La disposizione richiamata è stata riportata nel Decreto Leg.vo 12 settembre 2018 n. 116 – Allegato 1 – Principi contabili generali, punto 4), laddove, a proposito del Principio dell’integrità si afferma che “E’ incompatibile con il principio l’assegnazione di qualsiasi provento per spese o erogazioni speciali, salvo i proventi e le quote di proventi riscossi, le oblazioni e simili fatti a scopo determinato”.

[10] Andando al dettaglio, nel citato dossier del gennaio 2019 si indicano tra i “mezzi di copertura” n. 329 milioni di euro per l’anno 2019, n. 825 milioni di euro per l’anno 2020 e n. 1311 milioni di euro per l’anno 2021, che coincidono perfettamente con gli importi indicati nella Tabella di stima degli impatti finanziari delle misure emendative, di cui all’Allegato 1 alla nota del 18 dicembre 2018 del Presidente del Consiglio dei Ministri, indirizzata  al Presidente della Commissione europea. Infatti nella Tabella del dicembre 2018 è stato indicato il reperimento di risorse derivanti dal “raffreddamento indicizzazione pensioni” per n. 253 milioni di euro nell’anno 2019, per n. 745 milioni di euro nell’anno 2020 e per n. 1.228 milioni di euro nell’anno 2021, cui vanno sommate le risorse derivati dal “contributo pensioni di importo più elevato” per n. 76 milioni di euro nell’anno 2019, per n. 80 milioni di euro nell’anno 2020 e per n. 83 milioni di euro nell’anno 2021. Orbene, la somma di tali importi per anno coincide perfettamente con i “mezzi di copertura” indicati alla voce “Misure sulle pensioni più elevate”, presente nella Tabella 8 del gennaio 2019.

[11] Secondo la giurisprudenza costituzionale (Cfr. Corte Cost. Sentenza 30 aprile 2015 n. 70, punto 4 del considerato in diritto), “Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (fra le prime, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964)”.

Sulla natura tributaria del gettito destinato al bisogno finanziario dello Stato cfr. Corte Cost. 5 giugno 2013, n. 116, punto 7.2 del considerato in diritto.

In precedenza, sugli elementi in base ai quali una decurtazione patrimoniale definitiva integra un tributo, a prescindere dal nomen juris  attribuitole dal legislatore, cfr. Corte Cost. 11 ottobre 2012 n. 223, punti 12.3 e 13.2.1 del considerato in diritto.

[12] Secondo il rapporto “Il bilancio del sistema previdenziale italiano”, a cura del Comitato tecnico scientifico di itinerariprevidenziali, presentato alla Camera dei Deputati il 15 aprile 2015,  su 16.393.369 pensionati, circa 8.558.195 soggetti, cioè  il 52,2%, percepiscono prestazioni totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale. Infatti i beneficiari delle integrazioni al minimo sono 3.604.744 ed i beneficiari di maggiorazioni sociali sono 1.038.069: “Soggetti – nota il Rapporto – che, assieme agli oltre 835.669 percettori di pensione sociale, non sono riusciti in 66 anni di vita a versare almeno 15 anni di contribuzione”.

[13] Sulla natura tributaria delle disposizioni che forniscono, ancorché in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, cfr. Corte Cost. 30 aprile 2015 n. 70, punto 4 del considerato in diritto.

[14] E’ opportuno richiamare, al riguardo,  l’art. 2, comma 2, del D.L. 13 agosto 2011 n. 138, convertito con L. 14 settembre 2011 n. 148, che ha disposto quanto segue:

“In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 1º gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 sul reddito complessivo di cui all’articolo 8 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, è dovuto un contributo di solidarietà del 3 per cento sulla parte eccedente il predetto importo”. A norma dell’art. 1, comma 590, L. 27 dicembre 2013, n. 147, le disposizioni del suddetto comma sono state applicate anche per il periodo dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2016.

[15] Cfr. Circolare INPS 7 maggio 2019 n. 62, par. 1, penultimo capoverso. laddove si chiarisce che “Ai fini della determinazione dell’importo pensionistico complessivo non rilevano altresì i trattamenti pensionistici liquidati ai sensi della legge n. 228/2012 e dei decreti legislativi n. 42/2006 e n. 184/1997, stante la previsione del comma 261 dell’articolo 1 sopra citato, che circoscrive l’ambito applicativo della norma alle sole gestioni tassativamente indicate e non anche agli enti di previdenza obbligatori di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e al decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103”.

[16] Cfr. art. 1, comma 1, del D.M. 2 maggio 1996, n. 282, emanato in applicazione dell’art. 2, comma 32, della L. 8 agosto 1995 n. 335. Tale criticità è stata evidenziata sia dai Servizi studi e del Bilancio della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica nel Dossier del 23 dicembre 2018 intitolato “Legge di bilancio 2019 – Le modifiche approvate dal Senato della Repubblica. Il maxiemendamento del Governo 1.9000”, sia dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati con Parere del 27 dicembre 2018.

[17] Circa 531.752 soggetti, secondo uno studio di Confartigianato, basato su dati Inps e Istat, del 27 ottobre 2011 (cfr. tabella in https://www.confartigianato.it)

[18] in applicazione dell’art. 43 del D.P.R. n. 1092/1973

[19] per effetto del Decreto Leg.vo n.506/1992

[20] Infatti, moltiplicando la ritenuta di Euro 500,00 annui lordi per 531.732 pensionati le risorse reperibili sarebbero di circa Euro 265.866.000 l’anno.

[21] In effetti, il legislatore (riforma Dini) aveva previsto una certa flessibilità in favore dei lavoratori in attività alla data del 31 dicembre 1995, ai quali era consentito aderire al sistema contributivo su base volontaria, rinunciando completamente al criterio retributivo, in alcune particolari ipotesi. Infatti, gli interessati potevano optare per la liquidazione della pensione contributiva, utilizzando anche le contribuzioni versate entro il 31 dicembre 1995, solo in presenza delle seguenti condizioni: a) un’anzianità maturata al 31 dicembre 1995 inferiore a 18 anni; b) un minimo complessivo di 15 anni di contributi; c) almeno 5 dei 15 anni di contributi già versati con il sistema contributivo (ossia a partire dall’1 gennaio 1996 in poi).

[22] Significativo, al riguardo, quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 13 gennaio 1966, n. 3, con la quale, nel dichiarare l’incostituzionalità di alcune disposizioni che prevedevano la perdita del diritto alla pensione a seguito di condanne a particolari pene detentive, la stessa Corte ha affermato quanto segue: “Con riferimento all’art. 36, é da osservare che la retribuzione dei lavoratori – tanto quella corrisposta nel corso del rapporto di lavoro, quanto quella differita, a fini previdenziali, alla cessazione di tale rapporto, e corrisposta, sotto forma di trattamento di liquidazione o di quiescenza, a seconda dei casi, allo stesso lavoratore e ai suoi aventi causa – rappresenta, nel vigente ordine costituzionale (che, tra l’altro, l’art. 1 della Costituzione definisce fondato sul lavoro), una entità fatta oggetto, sul piano morale e su quello patrimoniale, di particolare protezione”.

[23] La sentenza n. 267/2017 citata, pur riguardando la diversa problematica della liquidazione del compenso per la custodia di veicoli sequestrati dall’autorità giudiziaria, risulta significativa perché contiene una puntuale definizione della tutela dell’affidamento.

[24] Cfr. Corte Cost. 12 ottobre 2012, n. 223, in materia di blocco degli stipendi dei magistrati , con la quale la Consulta ha censurato l’introduzione di una disciplina punitiva in danno di una  specifica categoria di lavoratori.

[25] Sulla natura precettiva di tale disposizione, cfr. Cassazione Sez. Terza Civile, 7 febbraio 2011 n. 2945).

[26] Secondo l’art. 1, scopo della Direttiva è quello di “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”. Secondo l’art. 2, comma 1, lettera a) della stessa direttiva,“sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.

[27] Per la lettura combinata dell’art. 1 del protocollo n. 1 CEDU e dell’art. 14 CEDU, cfr. Kjartan Ásmundsson v. Iceland – Corte EDU – Seconda sezione 12 ottobre 2004.

[28] Corte Cost. 10 ottobre 1983 n. 302;  Quagliariello M. Voce “Pensione”, in Nov.mo Digesto Italiano, Torino, 1968; Vol. XII, pag. 877;  Piasco S. Voce “Pensione (Dipendenti pubblici)”, in Nov.mo Digesto Italiano, Appendice, Torino, 1984 Vol. V, pag. 816.

[29]Cfr. Corte Cost. sentenza 1 dicembre 2017, n. 250; idem, sentenza 30 aprile 2015, n. 70;  idem, sentenza 5 giugno 2013, n. 116, che richiama Corte Cost. sentenza n. 30/2004; idem, ordinanza n. 166/2006; in precedenza, Corte Cost. 13 marzo 1980, n. 26; idem, 5 maggio 1988 n. 501.

[30] Quagliarello M., op. cit., pag. 878.

[31] Corte Cost. ord. 17 marzo 2017 n. 58.

[32] Lener A. Voce “Vitalizio” in Nov.mo Digesto Italiano, Torino, 1975, Vol. XX pag. 1018 e seguenti; Dattilo G. Voce “Rendita (dir. Priv.)” in Enciclopedia del Diritto, Vol. XXXIX, Milano, 1988; Vitalizio di Gardella Tedeschi B. Voce “Vitalizio” in Digesto Ipertestuale, 1999.

[33] Tribunale Roma sez. IX, 10 marzo 2017, n.4909; Cassazione Civ. Sez. III, 6 aprile 1995, n. 4025; Cassazione Civ. Sez. II, 29 agosto 1992, n. 9998; Cassazione Civ. Sez. III, 14 aprile 1984, n. 2419; Cassazione Civ. Sez. III, 16 giugno 1981, n. 3902.

[34] Lener A. Voce “Vitalizio” in Nov.mo Digesto Italiano, cit. pag. 1019. Un collegamento diretto tra la pensione e la rendita vitalizia è dato dall’art. 13 della L. 12 agosto 1962, n. 1338, riguardante l’ipotesi del  mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro.

[35] Commento all’art. 1872 cod. civ., in Leggi d’Italia PA, paragrafo 1.

[36] Infatti, ai sensi dell’art. 1173 cod. civile “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

[37] Con sentenza 25 novembre 2008, n. 28056, la Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che il principio di correttezza e buona fede, il quale secondo la Relazione ministeriale al codice civile “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge”. Negli stessi termini, Cassazione Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, secondo cui il principio di buona fede deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

[38] Cfr. Corte Cost. ord. 2 aprile 2014, n. 77; idem, ord. 24 ottobre 2013, n. 248.

[39] Teoli F. Il principio di buona fede nel diritto amministrativo, in Rivista giuridica on-line www.diritto.it

[40] Per la CTPS (Cassa trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato), l’aliquota totale è del 33%, di cui il 24,20% a carico del datore di lavoro e l’8,80% a carico del lavoratore.

[41] Sull’uso distorto della discrezionalità da parte del legislatore, che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura, per così dire, sintomatica di eccesso di potere e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa, cfr. Corte Cost. sentenza n. 313/1995.

[42] L’applicazione di tale specifica normativa è stata disciplinata in dettaglio dall’INPS con Circ. 10/04/2015, n. 74, che ha previsto un doppio calcolo della pensione e l’applicazione del risultato meno oneroso per l’ente di previdenza. Con la stessa circolare è stato richiamato l’art. 1, comma 709 della L. 23 dicembre 2014, n. 190, in base al quale le economie derivanti dal doppio calcolo affluiscono in un apposito fondo, istituito presso l’INPS, finalizzato a garantire l’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche in favore di particolari categorie di soggetti, individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

[43]Infatti in una vicenda analoga, nell’esaminare la posizione di chi ha conseguito la pensione anticipata dal 1 gennaio 2012 al 31 dicembre 2014, subendo delle decurtazioni al trattamento pensionistico, a differenza di quanti sono stati collocati a riposo nel periodo successivo,  nella sentenza 23 maggio 2018 n. 104 la Corte costituzionale  ha giustificato la disparità di trattamento, facendo riferimento al miglioramento della situazione finanziaria del Paese.

[44] A livello legislativo, la riprova dell’attenuazione delle emergenze finanziarie è data dalla mancata riproposizione della misura di cui l’art. 2, comma 2, del D.L. 13 agosto 2011 n. 138, convertito con L. 14 settembre 2011 n. 148, prorogata dell’art. 1, comma 590, L. 27 dicembre 2013, n. 147, che,  “in considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea” per il periodo dal 1º gennaio 2011 al 31 dicembre 2016 sul reddito complessivo di cui all’articolo 8 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, aveva introdotto un contributo di solidarietà del 3 per cento sulla parte eccedente il predetto importo.

[45] Secondo l’ISTAT (Scheda “indicatori demografici – Stime per l’anno 2018”, l’aspettativa di vita dei cittadini italiani di sesso maschile è mediamente di 80,8 anni.

Leotta Ettore

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