Reato tentato e desistenza volontaria: alla luce della nuova giurisprudenza di merito

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Norme di riferimento: art. 56 c.p.

La decisione: sentenza di rigetto della Corte di Appello in attesa del pronunciamento della Suprema Corte di Cassazione.

La vicenda.

L’imputato di reato connesso racconta delle volte nelle quali si sarebbero appostati, armati, per attentare alla vita di un soggetto che abitualmente transitava in una determinata zona isolata.

Uno dei correi avrebbe avuto il compito specifico di avvisare per tempo i sicari dell’eventuale presenza in macchina di altri soggetti che, per espresso accordo preventivo, rappresentavano motivo di rinuncia all’azione delittuosa.

La condotta delittuosa programmata non superò mai la soglia dell’appostamento, perché l’obiettivo si sarebbe trovato in compagnia di altra persona, motivo per il quale l’azione finale non venne iniziata.

Contestato il tentativo di omicidio in concorso, la difesa ha invocato la desistenza volontaria avendo i concorrenti desistito dall’azione volontariamente per la presenza di altre persone e in forza di un accordo preventivo in tal senso.

Di diverso avviso la Corte di Appello che ha ritenuto non applicabile l’istituto invocato dalla difesa, poiché la desistenza deve ritenersi volontaria quando la prosecuzione dell’azione delittuosa non sia impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo di essa; in sostanza la scelta deve essere operata liberamente; ne consegue che la desistenza non può essere invocata in caso di compimento di attività idonea, diretta in modo non equivoco a commettere il delitto, poiché in tale ipotesi si rientra nell’area di operatività di altro istituto, ossia il c.d recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento.

La motivazione.

In termini, il giudice di merito ha dedotto dalla sola presenza fisica di altra soggetto l’improbabilità dell’azione e per tale via la volontà indotta dell’agente di interrompere l’azione.

La desistenza volontaria e il recesso attivo.

L’interessante vicenda giudiziaria attualmente al vaglio della Cassazione, offre lo spunto per una riflessione rispetto ad un istituto molto particolare, la desistenza volontaria, che, unitamente al recesso attivo, presenta difficoltà di carattere interpretativo.

La desistenza volontaria è disciplinata dall’art. 56, comma 3, c.p. e ricorre quando …il colpevole volontariamente desiste dall’azione. Egli soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso;

Il recesso attivo è disciplinato invece dall’art. 56, comma 4, c.p. e ricorre quando l’agente … volontariamente impedisce l’evento. Egli soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà…

La ratio legis della desistenza volontaria viene individuata da alcuni autori nell’esigenza di incentivare l’abbandono del progetto criminoso (Marinucci-Dolcini; Mantovani; Antolisei). Per altri autori (Fiandaca-Musco), chi ritorna sui suoi passi non rappresenta un esempio pericoloso e mostra di non possedere una volontà criminosa tale da giustificare la pena. Per altri ancora (Romano) si tratta di una ricompensa per chi ritorna volontariamente al diritto.

Per la Cassazione (Sez. VI n. 40678/2011), la desistenza volontaria è un istituto che trova giustificazione in ragioni di politica criminale. Il legislatore ha ritenuto opportuno privilegiare il momento di utile volontario ripensamento prima del definitivo compimento dell’azione che conduce all’evento, sui presupposti della ridotta volontà criminale e dell’attenzione alla tutela delle vittime.

Due sono gli effetti prodotti dalla desistenza volontaria: Il tentativo del reato programmato non è punibile e sono punibili invece (con pena ridotta da un terzo alla metà) solo quegli atti commessi durante il tentativo del reato programmato sempre che i medesimi integrino gli estremi di un reato compiuto (delitto o contravvenzione).

L’inequivoco tenore letterale dell’art. 56, commi 3 e 4, pone l’accento sul momento nel quale si compie la condotta pro vittima dell’agente.

Se l’agente si adopera prima che si compia l’azione tipica programmata (es. prima di sparare), si ha desistenza volontaria detta anche tentativo incompiuto, perché l’agente, terminati i preparativi, ferma la condotta programmata per sua libera scelta.

Al contrario, se l’agente si adopera a favore della vittima dopo avere compiuto l’azione tipica (es. dopo avere sparato), per impedirne o limitarne le conseguenze, si ha recesso attivo detto anche tentativo compiuto.

La desistenza deve essere anche volontaria e su questo accertamento si annidano le maggiori problematicità ermeneutiche, soprattutto nei casi limite, come quello in attesa di definizione davanti ai giudici di legittimità, nei quali si ravvisano entrambi gli elementi della volontà autonoma e della volontà indotta dalle circostanze del momento.

Risulta indispensabile individuare un percorso ermeneutico in grado di superare il ragionevole dubbio di quale volontà, autonoma o indotta, ha prevalso rispetto all’interruzione dell’azione programmata.

In argomento si registrano diverse posizioni in dottrina e in giurisprudenza.

In dottrina pare prevalere l’opinione che la volontarietà non dev’essere intesa come spontanea o dovuta a resipiscenza, potendo la stessa essere dettata anche da motivi utilitaristici o di convenienza, quali, ad esempio, rinviare l’azione ad un momento successivo più propizio.

Per la giurisprudenza invece, la volontarietà della desistenza è connaturata alla convinzione soggettiva dell’autore: più l’autore è convinto di poter portare comunque a termine l’azione, ma si ferma, più l’interruzione è da ritenersi volontaria e non imposta da fattori esterni.

La giurisprudenza ha elaborato una formula di riferimento per la quale la desistenza è volontaria quando si possa dire che l’agente ha ragionato in questi termini: “potrei continuare ma non voglio”; inversamente, la desistenza non è volontaria quando l’agente ha detto a sé stesso “vorrei continuare ma non posso” (Cass. Sez. I n. 8864/1989; Sez. I 11865/2009; Sez. II n. 18385/2013 e sez. II n. 7036/2014).

La formula di riferimento elaborata dalla giurisprudenza, strutturata sostanzialmente sul convincimento dell’agente, soffre il limite della non facile verificabilità in tutti quei casi in cui le circostanze oggettive esterne non consentano di riscontrare autonomamente, ed oltre ogni ragionevole dubbio, se l’agente ha avuto concretamente la possibilità di portare comunque a compimento l’azione interrotta.

Si delinea l’errore di fondo in cui rischia di imbattersi il giudice di merito, di affidarsi all’intuito laddove sarebbe invece opportuno un accertamento specifico, con apposita perizia o magari con un esperimento giudiziale, diretto a verificare se l’agente ha avuto comunque la possibilità materiale di portare a termine l’azione da lui interrotta.

In definitiva, sarebbe opportuno accertare, nella sede propria del giudizio di merito, se l’impossibilità di una utile prosecuzione del tentativo sia stata assoluta e definitiva per poter escludere la desistenza giuridicamente valida, poiché se persisteva sia pure la mera possibilità (quantunque non la probabilità) di proseguire utilmente l’azione, può condivisibilmente riconoscersi la desistenza volontaria esimente la pena.

In assenza di elementi oggettivi di sicura valenza dimostrativa e in assenza di specifico accertamento del giudice di merito, rimane dunque aperta la questione ermeneutica che discende dalla difficoltà oggettiva di delineare confini certi tra autodeterminazione dell’agente e volontà indotta dalle circostanze.

Si auspica dunque un autorevole intervento della Corte di legittimità capace di sintetizzare i criteri ermeneutici richiamati e individuare l’accertamento e la valutazione che il giudice di merito dovrà necessariamente compiere tutte le volte in cui sono ravvisabili profili di autodeterminazione e di volontà indotta.

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