Processo tributario: il diritto ad un processo equo

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L’articolo 6, primo comma, primo periodo, della Convenzione dei Diritti dell’Uomo stabilisce testualmente:

Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.

Sussiste, quindi, l’importante questione di sapere se l’articolo 6 § 1 della Convenzione, sotto il suo aspetto civile, è applicabile anche ai procedimenti in materia fiscale, ed in particolare al processo tributario italiano.

La maggioranza ha confermato la giurisprudenza degli organi della Convenzione che, fino ad ora, hanno sempre concluso che non era così.

Non si può condividere questa opinione per le ragioni di seguito esposte.

La Convenzione non contiene alcuna definizione di ciò che si intende per “diritti ed obblighi di carattere civile.

“Anche se gli organi della Convenzione, col passare degli anni, si sono pronunciati a più riprese su questa questione e hanno più di una volta modificato la giurisprudenza anteriore, simile definizione non può essere trovata nelle loro sentenze e decisioni.

Gli organi della Convenzione hanno deliberato di caso in caso sull’applicabilità dell’articolo 6 in questo ambito; hanno definito, però, certi importanti elementi generali.

Quando si dedica alla giurisprudenza reale e alla questione di sapere se è necessario farla evolvere, è secondo me essenziale di rammentare il contesto storico dell’introduzione nell’articolo 6 § 1 della nozione di “carattere civile” che non si ritrova nel testo inglese della disposizione corrispondente -l’articolo 14- del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.

L’articolo 8 della Convenzione americana relativo ai diritti dell’uomo copre, in compenso, espressamente le controversie fiscali (“diritti ed obblighi in materia civile, così come nell’ambito del lavoro, della fiscalità o ogni altro ambito”).

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I lavori preparatori concernenti l’articolo 6 della Convenzione – che sono legati strettamente a quelli dell’articolo 14 del Patto internazionale – permettono secondo molti giuristi, correttamente secondo me, di derivare le seguenti conclusioni:

  1. i redattori avevano l’intenzione di allontanare in modo più generale le controversie tra gli individui ed i governi, principalmente in ragione delle difficoltà che si incontravano allora ad operare una ripartizione chiara dei poteri tra, da una parte, gli organi amministrativi e le loro prerogative discrezionali e, dall’altra parte, gli organi giudiziali;
  1. questi testi non contengono alcun riferimento specifico alle questioni fiscali che, di solito, non derivano da un potere discrezionale ma dall’applicazione di disposizioni legali più o meno precise;
  2. l’esclusione di questo tipo di controversia doveva essere seguita da un studio più dettagliato sui problemi relativi all’”esercizio della giustizia nei rapporti tra gli individui ed i governi”; di conseguenza;
  3. sembra che i redattori non abbiano avuto l’intenzione di escludere per sempre dal campo di applicazione dell’articolo 6 § 1 le dispute che dipendono dall’ambito amministrativo (per un’analisi dettagliata, vedere i paragrafi da 19 a 22 dell’opinione dissidente comune al Sig. Ryssdal, la Sig.ra Bindschedler-Robert, il Sig. Lagergren, il Sig. Matscher, Sir Vincent Evans, il Sig. Bernhardt ed il Sig. Gersing nella sentenza Deumeland c. Germania del 29 maggio 1986, serie A no 100, pp. 38-39, così come l’opinione concordante del Sig. Sperduti nella causa Salesi c. Italia, sentenza del 26 febbraio 1993, serie A no 257-E, avviso della Commissione, pp. da 67 a 70).

In questo contesto, è comprensibile che gli organi della Convenzione, nei primi anni dopo l’entrata in vigore di questa, abbiano applicato in modo restrittivo l’articolo 6 § 1, sotto il suo risvolto civile, alle controversie tra individui e governi.

In compenso, è difficile ammettere che i lavori preparatori che risalgono a più di cinquant’ anni e che si basavano in parte su delle condizioni preliminari che non si sono realizzate o non sono più pertinenti, costituiscono sempre un ostacolo permanente ad un’evoluzione ragionevole della giurisprudenza sulla portata dell’articolo 6 in particolare negli ambiti in cui esiste un bisogno evidente di estendere la protezione accordata da questa disposizione ai giudicabili.

Risulta, in effetti, chiaramente dalla giurisprudenza reale che gli organi della Convenzione non si sentono obbligati a tenere un approccio restrittivo, ma hanno esteso al contrario l’applicabilità dell’articolo 6 § 1 ad un numero considerevole di relazioni tra gli individui e gli Stati che i redattori avevano inteso escludere all’origine.

Si possono citare i seguenti esempi di controversie tra individui e governi che, secondo la giurisprudenza della Corte, dipendono dal risvolto civile dell’articolo 6:

  • i procedimenti di espropriazione, o le istanze relative alle decisioni in materia di urbanistica, ai permessi di costruzione e, più generalmente, alle decisioni concernenti l’uso o il godimento di beni (vedere, per esempio, le sentenze Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, serie A no 52, Ettl ed altri c. Austria, Erkner e Hofauer c. Austria e Poiss c. Austria del 23 aprile 1987, serie A no 117, Håkansson e Sturesson c. Svezia del 21 febbraio 1990, serie A no 171-a, ed Olivastri Jacobsson c. Svezia e Skärby c. Svezia del 28 giugno 1990, serie A no 180-a e B);
  • i procedimenti relativi alle autorizzazioni, licenze od altri atti di un’autorità pubblica che condizionano la validità di un contratto tra persone private (vedere, per esempio, la sentenza Ringeisen c. Austria del 16 luglio 1971, serie A no 13);
  • i procedimenti relativi alla concessione o alla revoca da parte di un’autorità pubblica di una licenza necessaria al compimento di certe attività economiche (vedere, per esempio, le sentenze Benthem c. Paesi Bassi del 23 ottobre 1985, serie A no 97, Pudas c. Svezia del 27 ottobre 1987, serie A no 125-a, Tre Traktörer AB c. Svezia del 7 luglio 1989, serie A no 159, e Fredin c. Svezia (no 1) del 18 febbraio 1991, serie A no 192);
  • i procedimenti relativi alla soppressione o la sospensione da parte di un’autorità pubblica del diritto di praticare una professione particolare (vedere, per esempio, le sentenze König c. Germania del 28 giugno 1978, serie A no 27, e Diennet c. Francia del 26 settembre 1995, serie A no 325-a);
  • i procedimenti per danno-interessi dinnanzi alle giurisdizioni amministrative (vedere, per esempio, la sentenza Edizioni Periscopio c. Francia del 26 marzo 1992, serie A no 234-B);
  • i procedimenti concernenti l’obbligo di quotarsi ad un regime di sicurezza sociale (vedere, per esempio, le sentenze Feldbrugge c. Paesi Bassi del 29 maggio 1986, serie A no 99, e Deumeland, precitata);
  • i procedimenti relativi alle controversie nella funzione pubblica, quando un “diritto puramente patrimoniale” viene invocato, per esempio il livello di stipendio, e le “prerogative discrezionali dell’amministrazione non si trovano in causa” (vedere, per esempio, la sentenza Di Santa c. Italia del 2 settembre 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-V). In compenso, quando “la posta patrimoniale” è subordinata alla constatazione preliminare di un comportamento illegale o fondato sull’esercizio di poteri discrezionali, la Corte ha stimato che l’articolo 6 non era applicabile (vedere, per esempio, la sentenza Spurio c. Italia del 2 settembre 1997, Raccolta 1997-V). A questo riguardo, ha modificato la sua giurisprudenza (vedere sotto il punto 6 concernente la sentenza Pellegrin c. Francia dell’8 dicembre 1999).

È tuttavia vero che la Corte, in altre situazioni, ha dichiarato che l’articolo 6 non era applicabile alle controversie tra individui e governi (vedere, tra altre, le sentenze Pierre-Bloch c. Francia del 21 ottobre 1997, Raccolta 1997-VI, p. 2223, sul diritto di candidarsi alle elezioni, e Maaouia c. Francia [GC], no 39652/98, CEDH 2000-X, concernente le decisioni relative all’entrata, al soggiorno ed all’allontanamento degli stranieri).

Ci si può porre la questione di sapere se è possibile solo, basandosi sulla giurisprudenza reale della Corte, stabilire una distinzione netta e sincera tra i diritti e gli obblighi di “carattere civile” e quelli di “carattere non civile” e, in caso di risposta negativa, se non fosse tempo di mettere un termine a questa incertezza estendendo la protezione dell’articolo 6 § 1 a tutte le cause in cui è in gioco una decisione di un’autorità pubblica che determina la situazione giuridica di una persona privata (vedere in particolare, per una tale soluzione, il lavoro dei Sigg. Van Dijk e Van Hoof, Theory and Practice of the European Convention on Human Rights, 1998, 3a ed., p. 406).

Questa evoluzione avrebbe delle importanti conseguenze e toglierebbe dalla nozione di “carattere civile” una grande parte del suo contenuto indipendente, riducendola allo stato di disposizione “ripostiglio” che permette di coprire tutte le cause che non dipendono dall’aspetto penale.

La giurisprudenza sviluppata finora dalla Corte non viene a corroborare la conclusione secondo la quale simile misura radicale sia il solo modo di dissipare ogni incertezza sulla portata dell’applicabilità dell’articolo 6.

Tuttavia, finché sarà mantenuta la distinzione tra i diritti e gli obblighi di “carattere civile” e quelli di “carattere non civile” in quanto ai procedimenti tra individui e governi, è importante fare attenzione affinché i criteri pertinenti utilizzati per determinare ciò che è di “carattere civile” siano applicati in modo logico e ragionevole -potrebbe essere a questo riguardo, ogni tanto necessario procedere a degli adeguamenti per aggiornare la giurisprudenza con le evoluzioni recenti.

Sicuramente, per la Corte, il punto di sapere se gli interessi patrimoniali dell’individuo riguardato erano in gioco nel procedimento rappresenta un fattore determinante quando deve pronunciarsi sulla natura “civile” di diritti ed obblighi.

Così, nella sentenza Edizioni Periscopio precitata, rileva che l’oggetto dell’azione era “patrimoniale” e si basava su un attentato ai diritti anch’essi patrimoniali.

La Corte ha stimato che il diritto in questione “rivestiva un “carattere civile” dunque, nonostante l’origine della disputa (…).” L’aspetto patrimoniale è stato messo in evidenza in numerose altre sentenze, anche nelle situazioni in cui il contesto della controversia era manifestamente fiscale. Così, nella sentenza National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society et Yorkshire Building Society c. Regno Unito del 23 ottobre 1997 (Raccolta 1997-VII), la Corte, invocando la posta patrimoniale, ha stimato che un’azione per restituzione di somme di denaro versate a titolo di disposizioni di diritto fiscale invalidato in seguito rivestiva un “carattere civile”.

E di aggiungere: Non altera per niente questa conclusione il fatto che queste istanze trovavano la loro origine nella legislazione fiscale e che i richiedenti erano stati assoggettati all’imposta tramite il gioco di questa” (p. 2379, § 97).

Certo, la Corte, in altre sentenze, ha dichiarato che un contenzioso non acquisisce una natura civile per il solo fatto che solleva una questione di ordine economico (vedere, per esempio, le sentenze Schouten e Meldrum c. Paesi Bassi del 9 dicembre 1994, serie A no 304, p. 21, § 50, Pierre-Bloch precitata, p. 2223, § 51, e Pellegrin c. Francia [GC], n° 28541/95, § 60, CEDH 1999-VIII).

Nella prima di queste sentenze, la Corte ha giudicato – in un obiter dictum – che il risvolto civile dell’articolo 6 era inapplicabile ai diritti ed obblighi risultanti “da una legislazione fiscale o che facevano altrimenti parte degli obblighi civici normali in una società democratica” (italico aggiunto da me).

Nelle due ultime sentenze, la Corte non ha invocato – almeno espressamente – questo criterio generale:

– nella sentenza Pierre-Bloch, ha dichiarato semplicemente che il diritto di candidarsi ad un’elezione era “di carattere politico e non “civile”, e che la posta patrimoniale per il richiedente non era determinante se questo aspetto patrimoniale era relativo all’organizzazione dell’esercizio del diritto controverso;

nella sentenza Pellegrin, la Corte ha realizzato che il criterio “patrimoniale” che si applicava fino qui si rivelava poco comodo per determinare l’applicabilità dell’articolo 6 § 1 alle controversie tra lo Stato ed i suoi agenti.

Tuttavia, piuttosto che basarsi su un altro criterio generale, la Corte ha preferito adottare dei criteri specifici per le cause di questo tipo.

La maggioranza della Corte non ha applicato neanche nella causa Maaouia il criterio emanato nella sentenza Schouten e Meldrum, ma ha concluso all’inapplicabilità dell’articolo 6 basandosi su un’interpretazione delle intenzioni dei redattori dell’articolo 1 del Protocollo n. 7.

Il criterio degli “obblighi civici normali in una società democratica” non permette di stabilire una distinzione generale tra i diritti e gli obblighi di “carattere civile” e quelli di “carattere non civile.”

Così, è difficile comprendere perché, per esempio, l’obbligo di rimettere un bene ai fini di uso pubblico contro un compenso finanziario non costituisce un “obbligo civico normale”, se l’obbligo di accettare che questo compenso sia ridotto per ragioni fiscali ne è uno. Come spiegare che il diritto di beneficiare di abbattimenti fiscali e di tariffe postali preferenziali non costituisce un diritto di “carattere civile”, ma che il diritto di intentare un’azione per risarcimento del danno presumibilmente causato dal rifiuto di concedere tali privilegi ne è uno? Parimenti, perché l’obbligo di quotarsi ad un regime di sicurezza sociale riveste un “carattere civile”, mentre l’obbligo di saldare l’imposta sul reddito non è di natura civile?

Almeno quando gli interessi patrimoniali di un individuo sono riguardati direttamente e l’ingerenza non è fondata sull’esercizio di un potere discrezionale, converrebbe prendere sistematicamente come punto di partenza il criterio patrimoniale emanato nella sentenza Edizioni Periscopio e altre cause.

Tuttavia, delle eccezioni devono essere ammesse quando sono giustificate da circostanze speciali. Tale è il caso per il diritto di candidarsi ad un’elezione in ragione del suo carattere politico (sentenza Pierre-Bloch) per le relazioni tra lo Stato ed i suoi agenti (sentenza Pellegrin) e per il diritto di entrata e di soggiorno degli stranieri in un paese (sentenza Maaouia).

Non vi è nessuno dubbio che l’obbligo di pagare delle imposte ha delle conseguenze dirette ed importanti sugli interessi patrimoniali dei cittadini, e che le questioni fiscali -il piatto, le modalità di pagamento e di colletta dell’imposta, in opposizione alle controversie che dipendono dalle leggi di bilancio-si basano, in una società democratica, sull’applicazione di disposizioni legali, e non su un potere discrezionale dell’amministrazione.

Quindi, l’articolo 6 dovrebbe secondo me applicarsi a tali dispute, salvo sé esistono delle circostanze speciali che giustificano il fatto che l’obbligo di pagare delle imposte non venga considerato come se rivestisse un “carattere civile” allo sguardo dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria, non vi è stata nell’ambito fiscale nessuna maggiore evoluzione concernente la natura degli obblighi degli individui e delle società dall’epoca in cui la Convenzione è stata elaborata.

Di conseguenza, è del parere che la materia fiscale dipende sempre dal “nocciolo duro delle prerogative del potere pubblico, restando predominante il carattere pubblico del rapporto tra i contribuenti e la collettività.”

La maggioranza ha preso anche in conto il fatto che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 riserva agli Stati il diritto di mettere in vigore le leggi che giudicano necessarie per garantire il pagamento delle imposte.

Questo ragionamento non convince.

Constatare che l’articolo 6 § 1 della Convenzione, sotto il suo aspetto civile, si applichi alle questioni fiscali non restringe in nessun caso il potere degli Stati di fare pesare sugli individui o le società ogni obbligo fiscale che desiderano imporre.

Simile constatazione non restringe neanche la libertà degli Stati di mettere in vigore le leggi che giudicano necessarie per garantire il pagamento delle imposte (articolo 1 del Protocollo n. 1).

L’articolo 6 della Convenzione costituisce una garanzia procedurale che consacra principalmente il diritto all’accesso ad un tribunale ed il diritto di beneficiare di un procedimento giudiziale equo in un termine ragionevole.

A questo riguardo, ci sono state in effetti delle evoluzioni importanti nell’ambito fiscale dall’elaborazione della Convenzione.

Mentre a questa epoca c’erano poche probabilità di potere ottenere un controllo giudiziale – o semplicemente un controllo – delle decisioni amministrative riguardo la fiscalità, viene riconosciuto ora, almeno nella grande maggioranza degli Stati contraenti, che le controversie in materia fiscale possono essere regolate nella cornice di un procedimento dinanzi alle giurisdizioni ordinarie.

Quindi, è difficile comprendere perché sarebbe sempre necessario accordare agli Stati delle prerogative speciali in virtù della Convenzione in questo ambito, e dunque negare ai giudicabili, nella cornice dei procedimenti fiscali, le garanzie procedurali elementari consacrate dall’articolo 6 § 1.

Il bisogno di tale protezione esiste manifestamente – per esempio per evitare la combinazione di un lungo procedimento e di un obbligo a pagare delle imposte prima dell’ordinamento definitivo di una controversia concernente la legalità della decisione fiscale.

La formula dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 non permette in nessun caso di presumere che i suoi redattori avessero avuto l’intenzione di accordare agli Stati il diritto di negare agli individui qualsiasi protezione procedurale nelle controversie di natura fiscale.

Come si può giustificare di sottrarre al controllo della Corte l’applicazione dei diritti procedurali garantiti dall’articolo 6 § 1 nella cornice di un contenzioso la cui sostanza è legata direttamente ad un diritto civile, nell’occorrenza il diritto al rispetto dei beni?

Simile interpretazione andrebbe anche contro l’evoluzione consolidata della giurisprudenza della Corte secondo la quale delle disposizioni materiali della Convenzione, come gli articoli 2, 3 e 8, devono essere interpretati anche come se imponessero degli obblighi procedurali agli Stati.

Peraltro, è difficile spiegare perché un’applicazione estesa dell’articolo 6 § 1 sotto il suo aspetto civile è impossibile in ragione della necessità di preservare le prerogative degli Stati in materia fiscale, mentre la Corte, nella sua giurisprudenza, è andata abbastanza lontano per includere le controversie fiscali nella cornice del suo risvolto penale.

Dalla sentenza Bendenoun c. Francia del 24 febbraio 1994 (serie A no 284) la Corte ha stimato costantemente che i procedimenti che riguardano delle controversie fiscali rivestivano un “carattere penale”, se implicavano, o rischiavano semplicemente di implicare, delle multe fiscali, maggiorazioni, ecc., aventi un scopo preventivo e repressivo (vedere la sentenza recente J.B. c. Svizzera, no 31827/96, CEDH 2001-III).

Il risultato è lo stesso quando il procedimento riguarda la tassazione in quanto tale (vedere la decisione sull’ammissibilità del 16 maggio 2000 nella causa Georgiou c. Regno Unito, no 40042/98, non pubblicata).

Ciò significa che il livello di protezione garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione varia in funzione dell’organizzazione della cornice giuridica che regola i procedimenti fiscali nei differenti ordini giuridici; ed in seno ad un stesso ordine giuridico, questa protezione può dipendere dalla questione di sapere se il procedimento di sanzione ed il procedimento fiscale sono uniti o meno. Un’interpretazione della Convenzione che conduce anche a risultati aleatori è lontano dall’ essere soddisfacente.

Per le ragioni esposte sopra, risulta, secondo me, che non c’è argomento convincente a favore del mantenimento della giurisprudenza reale della Corte, secondo la quale i procedimenti in materia fiscale non implicano alcuna decisione su dei “diritti ed obblighi di carattere civile” ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, più volte citato.

In definitiva, secondo me, in attesa della generale riforma della giustizia tributaria, è consigliabile inviare nuovamente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) la questione relativa alla illegittimità del processo tributario italiano sia perché gestito dal MEF con giudici tributari, quindi, non terzi ed indipendenti sia perché, nella gestione processuale, mancano serie garanzie di difesa del cittadino-contribuente che, per esempio, non può citare testimoni, che invece vengono presi in considerazioni dagli organi verificatori fiscali.

 

 

Avv. Villani Maurizio

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