Principio di offensività e reato impossibile

 

Interpretazione del dato normativo dell’art. 49 co. II c.p.

“Il diritto è un fenomeno sociale, la società è però un oggetto completamente diverso dalla natura, perché è una connessione di elementi del tutto diversa”.

Se il diritto è diverso dalla natura, la scienza del diritto si deve distaccare dalla scienza della natura.[1]

Queste parole potrebbero giustificare l’atteggiamento di quella parte di dottrina che conferisce ad un fatto il suo senso giuridico, mutandolo, dunque, in diritto, in virtù di una norma che gli attribuisca un certo significato.

Tali considerazioni mettono in luce l’interpretazione abrogante della disposizione di cui all’art. 49 II co. C.p., avente ad oggetto il c.d. reato impossibile a mezzo del quale, nel sistema penale italiano, venne introdotta la “teoria dei fatti inoffensivi conformi al tipo”[2] e che si è resa oggetto di una annosa querelle interpretativa circa la convenienza del suo mantenimento o meno nel nostro ordinamento giuridico.

Tale fattispecie normativa, infatti, richiede, ai fini della sua retta applicazione, un accertamento giudiziale concreto il quale, lasciando ampio margine ad eventuale preconcetti del giudicante, non garantirebbe più una certezza oggettiva.

Ma, se, la legge è un rapporto necessario che deriva dalla natura stessa delle cose ne consegue che le leggi non precedono lo stato e la convivenza sociale, ma ne sono una conseguente emanazione, con l’ulteriore conseguenza che la chiarezza di un testo normativo non precede ma segue l’interpretazione.

Lungi dall’addentrarci nell’impervio terreno del dibattito della “costituzionalizzazione” dei reati c.d. senza bene giuridico e dei reati senza offesa, obiettivo del presente lavoro è quello di porre in parallelo i c.d. “atti idonei” di cui all’art. 56 c.p. con la c.d. “azione inidonea” delineata dall’art 49 c.p..

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Note

Reato impossibile e autonomia normativa rispetto al delitto tentato.

La definizione di reato impossibile è fortemente correlata con quella di Delitto tentato, rendendo, così, necessaria una analisi che abbia ad oggetto gli enunciati idoneità-inidoneità caratterizzanti rispettivamente la struttura del reato impossibile ex art 49, II co., c.p. e quella del delitto tentato, disciplinato dall’art. 56 c.p..

Tale binomio esprimerebbe, prima facie, due concetti analoghi, l’uno in positivo l’altro in negativo. Ma, operando una analisi più approfondita, il fatto che il legislatore abbia fatto ricorso alla stessa formula, seppur in accezioni contrastanti, e per di più in differenti sedi dell’impianto codicistico, renderebbe troppo semplicistico considerare l’inidoneità quale mero corrispondente negativo del delitto tentato, il quale si ridurrebbe unicamente a disposizione volte a valutare l’assoggettabilità o meno dell’autore del fatto ad una misura di sicurezza.

Pertanto, “l’evento dannoso o pericoloso” di cui all’art. 49 cpv. e la commissione di un delitto ex art. 56 c.p., alla luce delle considerazioni di cui sopra, arriverebbero a significare la stessa cosa.

E’ evidente che, senza operare una più meditata riflessione, risulterebbe molto poco comprensibile la volontà, da parte del legislatore, di volere perseguire un iter criminoso incompiuto ove già l’art. 56 c.p. stabilisce i limiti edittali di pena da applicare a chi compia un delitto tentato con l’ulteriore conseguenza di pervenire ad una logica sovrapponibilità delle due norme la quale comporterebbe una interpretazione abrogante.

Per contro, l’autonomia normativa e funzionale dei due istituti fa discendere la necessità del ricorso a criteri valutativi del tutto differenziati; nel tentativo la valutazione della idoneità degli atti necessita di una valutazione ex ante, in tema di reato impossibile, invece, il giudizio circa la offensività dell’azione interviene necessariamente a posteriori in quanto il comportamento dell’agente risulta pienamente conforme un modello legale.

Dunque, l’azione di cui all’art. 49, II co. C.p., non può costituire un mero risvolto linguistico degli “atti” di cui all’art 56 c.p.

Gli atti del tentativo, infatti, necessitano di essere connotati dei due requisiti della inidoneità dell’azione e della sua non equivoca direzione volta a commettere il reato prefissatosi dall’agente.

Contrariamente, nella disciplina del reato impossibile così come delineato dall’art. 49 co. II, c.p. non si fa menzione alcuna della “direzione non equivoca”, con la logica conseguenza che tale mancata menzione comporterebbe innumerevoli problemi interpretativi, per chi concepisce il reato impossibile come risvolto negativo del delitto tentato, soprattutto nella valutazione della retta applicazione di una delle due fattispecie al caso concreto e lasciando, dunque, aperto il problema, che rimarebbe così una incognita, della motivazione per la quale il legislatore abbia avvertito l’esigenza di introdurre istituti sostanzialmente identici in diversi contesti normativi, inoltre, facendo ricorso a termini differenti.

Già da un raffronto tra le rubriche dell’art. 56 c.p. e dell’art. 49 c.p. suggerisce l’idea della non sovrapponibilità delle norme in esame vertendo l’art. 49 c.p. sul problema dell’antigiuridicità, mentre, l’art 56 c.p. su quello della idoneità dei mezzi.

Orbene, l’impossibilità cui fa riferimento l’art. 49, Co. II, c.p. non può che avere ad oggetto la lesione o la messa in pericolo dell’interesse protetto non potendo assolutamente alludere all’evento naturalistico in quanto, inteso come modificazione della realtà naturale percepibile dall’uomo non può essere “impossibile”, tutt’al più potrà, come stabilito dall’art. 56 c.p., non verificarsi.

Quanto sopra sostenuto vincola pertanto ad una valutazione da effettuarsi necessariamente ex post l’accertamento della sussistenza della inidoneità, permettendo, dunque, una valutazione circa la manifestazione o meno dell’evento giuridico così come tratteggiato nella norma incriminatrice.

Pertanto, il termine “azione” di cui all’art. 49 c.p. deve essere inteso quale comportamento corrispondente alla norma penale incriminatrice che, per una serie di circostanze, non ha reso possibile il concreto realizzarsi dell’evento descritto e contenuto nel reato.

La valutazione che il giudicante dovrà, dunque, operare, ai fini della valutazione circa la sussistenza o meno dell’ipotesi di cui all’art. 49 c.p. è una indagine che verte su un momento posteriore alla commissione del fatto dando luogo ad un accertamento di tipo “statico” che verte sull’essersi o non essersi verificato l’evento di cui alla norma incriminatrice, ponendosi, pertanto, in contrapposizione al tipo di accertamento effettuato ai fine della valutazione della sussistenza di un tentativo punibile.

Nel caso del delitto tentato, infatti, la valutazione della idoneità degli atti alla commissione di un delitto necessita di un giudizio ipotetico che si dinamizza analizzando la progressione degli atti posti in essere dall’agente i quali, non portati a termine, dovranno comunque atteggiarsi come idonei alla produzione dell’evento.

Quanto sinora sostenuto, in conclusione, rende necessaria l’attenzione, da parte del giurista, al dato letterale nonché al trattamento sanzionatorio delle norme imponendo, così una analisi separata degli istituti scongiurando così la loro unità concettuale.

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Note

[1] Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, p. 47

[2] F. Stella, La teoria del bene giuridico e i c.d.i fatti inoffensivi conformi al tipo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,1973

Carlotta Nicotera

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