Osservazioni sulla proposta di legge c.2350, avente ad oggetto: “disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”

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 In un periodo tormentato da grandi interrogativi morali la Camera dei deputati si appresta a discutere una proposta di legge che, già definitivamente approvata dal Senato, dopo il richiamo ai principi di cui agli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. (art. 1), reca disposizioni in materia di consenso informato (art. 2), testamento biologico (artt. 3 ss.) e alleanza terapeutica medico-paziente.

Per la filosofia di Heidegger l’esistenza dell’uomo è un Sein zum Tode, un “essere per la morte”; ma chi, in concreto, debba governare il vivere e decidere la morte è un quesito che provoca dubbi radicali.

Si tratta, in sostanza, di riflettere su un tema antico ma ancora attuale, ossia sui limiti e sulla natura della libertà umana, cercando di tradurre in termini giuridici una riflessione che appartiene (anche o, forse, soprattutto) ad altre branche dello scibile umano.

Le materie regolande dalla legge assumono rilevanza, oltre che per il diritto costituzionale, privato e penale, anche per l’etica, la scienza, la religione, la sociologia, l’antropologia …

A distanza di due secoli la certezza di Friedrich Carl von Savigny che “la morte come limite della capacità giuridica è un evento naturale così semplice che non è necessaria una determinazione più netta dei suoi elementi” cede il passo ad uno stato di fatto che, anche a causa del progresso tecnico-scientifico, si presenta assai più problematico.

L’incessante incedere del sapere medico può illudere, invero, di restituire alla persona la signoria sulla vita e di elevare la stessa ad unica titolare del diritto di decidere in ordine ai trattamenti sanitari e al rifiuto degli stessi.

Tale illusione, tuttavia, si scioglie al contatto con l’etica della sacralità della vita e si inchina al cospetto delle tematiche di fine-vita.

Il giurista chiamato ad esprimere il proprio parere rispetto all’importanza delle questioni trattate ed alle implicazioni che derivano dalla scelta per una (piuttosto che per un’altra) opzione legislativa non può che soffrire un senso – tutto umano – di umiltà ed incertezza.

Tale atteggiamento lo indirizza alla ricerca di solidi riferimenti nei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e dell’etica, nella consapevolezza che, come sostiene Gehlen nell’opera “L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo”, “la quinta essenza della strutturazione della vita dell’uomo si chiama moralità, ed essa è una necessità biologica che sussiste solamente nell’essere umano”.

Egli, uomo con i suoi limiti e le sue debolezze, non può che cercare nei valori fondanti l’ordinamento una risposta alle molteplici domande che la società, sempre più pressantemente, gli prospetta.

Si tratta di vivere quello stesso senso di “vertigine” avvertito dal Legislatore e risolto all’art. 1 della proposta di legge attraverso il richiamo agli artt. 2 (che riconosce i diritti inviolabili della persona umana), 3 (che tutela e promuove l’uguaglianza di tutti sia in senso formale che in una dimensione sostanziale), 13 (che proclama l’inviolabilità della libertà personale, nella quale “è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo” (Cort. Cost., 471/1990)) e 32 (che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo, oltre che come interesse della collettività) della Costituzione, nonché alle più immediate e dirette specificazioni che tali disposizioni hanno ricevuto da parte della giurisprudenza.

Sul piano etico soccorre, invece, quanto contenuto nella Dichiarazione sull’eutanasia (parte IV del 9.12.2000) della Pontificia Accademia per la vita: “Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile ed imminente … vi è grande differenza etica tra “procurare” la morte e “permettere” la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa e rievoca una delle pagine più alte delle Sacre Scritture (“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” – Lc. 23, 46), quella che, con silenziosa commozione, ripercorre l’abbandono consapevole e fiducioso del Figlio dell’Uomo sul Golgota ad un destino in cui: “Tutto è compiuto” (Gv. 19,30), in cui l’immagine umana della sofferenza e della fine dell’esistenza è vinta dal tempo e si consegna alla storia: “E, chinato il capo, spirò (Gv. 19,30)”.

Questa scelta di campo non è universalmente condivisa.

Così, ad esempio, scriveva Indro Montanelli: “Io non voglio soffrire, io non ho della sofferenza un’idea cristiana. Ci dicono che la sofferenza eleva lo spirito; no la sofferenza è una cosa che fa male e basta, non eleva niente. E quindi io ho paura della sofferenza. Perché nei confronti della morte, io che in tutto il resto credo di essere un moderato, sono assolutamente radicale. Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte. Sta a noi, deve essere riconosciuto a noi il diritto di scegliere il quando ed il come della nostra morte”.

Ma anche il “semplice morire” richiede rispetto, se manca è perché cela dell’altro …

Francois de La Rochefoucaul scrive in una sua Massima: “A volte i condannati al patibolo ostentano una fermezza e un disprezzo della morte che in realtà altro non sono che paura di guardarla in faccia. Si può dire però che quella fermezza e quel disprezzo sono per il loro animo ciò che la benda è per i loro occhi!”.

Per ogni credente fra le – aspre e pungenti – parole di Montanelli o l’esempio di Piergiorgio Welby – da un lato – e la “tutela della vita umana quale diritto inviolabile ed indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei modi di legge” (art. 1, comma 1, lett. a), della proposta di legge) non vi può essere alcuna, benché minima, esitazione: “L’esistenza mi ha dato molto o, perlomeno, io ho saputo ottenere molto da lei. In questo momento … mi sembra che non abbia più niente da offrirmi, ma non sono certo di non avere più nulla da imparare da lei. Ascolterò fino all’ultimo le sue istruzioni segrete: per tutta la vita mi sono fidato della saggezza del mio corpo; ho cercato di assaporare con criterio le sensazioni che questo mio amico mi procurava, devo a me stesso di apprezzarne anche le ultime … L’ora dell’impazienza è passata … ho rinunciato a precipitare la mia morte” (Jourcenar, Memorie di Adriano).

In questo quadro va condiviso il “divieto di qualunque forma di eutanasia” categoricamente previsto dall’art. 1, comma 1, lett. c) e d), della proposta e circoscritta ogni considerazione sul cosiddetto “testamento biologico”.

A dispetto del nome, quest’ultimo negozio giuridico nulla ha a che vedere con il classico testamento: non è un atto mortis causa ma è destinato a produrre effetti inter vivos; manca di contenuto patrimoniale ed è inteso ad “esprime(re) il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere” (art. 3, comma 1).

Correttamente la proposta di legge in commento parla di “dichiarazione anticipata di trattamento”.

L’opzione del giurista in ordine all’opportunità di regolamentare tale manifestazione di volontà, i suoi limiti ed il suo contenuto non si traduce in alcun dubbio sull’illiceità di ogni e qualsiasi pratica diretta a procurare la morte del paziente (con riguardo alla quale, anzi, la citata proposta di legge sia all’art. 1, comma 1, lett. c) che all’art. 3, comma 4, contiene un espresso richiamo agli artt. 575 (omicidio volontario), 579 (omicidio del consenziente) e 580 (determinazione, istigazione o agevolazione del suicidio) c.p.) ma, al contrario, nella necessità di porre rimedio alle lacune che casi giudiziari come quello di Eluana Englaro hanno evidentemente rivelato e tutelare la vita anche nella sua fase terminale, “artificiale” o sofferente al cospetto della contraria volontà del malato che chiede di porre fine ad essa.

A questo fine tendono le previsioni di cui agli artt. 3, comma 5 (“Anche nel rispetto della Convenzione delle nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”) e 7, comma 2 (“Il medico non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica. Le indicazioni sono valutate dal medico, sentito il fiduciario, in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell’inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza”) della proposta di legge.

Un limite di quest’ultima sembra costituito dalla mancata differenziazione della situazione determinante la “perdita della propria capacità di intendere e di volere”.

Una è, infatti, l’incapacità dovuta al progressivo sviluppo di una malattia degenerativa; altra è quella conseguente ad eventi di origine accidentale.

Nella prima ipotesi le perplessità che normalmente animano la riflessione sul testamento biologico possono essere superate dalla consapevolezza del dichiarante in ordine alle cure praticabili, al decorso della malattia ed agli effetti correlati.

Nella seconda ipotesi, invece, laddove nessun processo patologico è in atto al momento della dichiarazione né v’è una diagnosi o una situazione di fatto che ne renda prevedibile l’insorgere, la manifestazione di volontà non dovrebbe considerarsi “consapevole” e, dunque, vincolante.

Né tale obiezione può ritenersi superata dalla previsione di durata di cui all’art. 4, comma 3, della proposta, per cui: “Salvo che il soggetto sia divenuto incapace, la dichiarazione anticipata di trattamento ha validità per cinque anni, che decorrono dalla redazione dell’atto ai sensi del comma 1, termine oltre il quale per ogni efficacia …”.

Un’altra questione che il progetto di legge lascia irrisolta concerne la possibilità che il “testamento biologico” provenga da un minore; l’art. 3, comma 2, richiede infatti che: “il soggetto (sia) in stato di piena capacità di intendere e di volere e in situazione di compiuta informazione medico-clinica” ma è principio ormai pacifico in giurisprudenza quello per cui anche il minore sia dotato di maturità di giudizio e possa manifestare il proprio dissenso a trattamenti sanitari voluttuari o non necessari alla propria sopravvivenza; lo stesso codice di deontologia medica (art. 34), compatibilmente con l’età e la capacità di comprendere, gli riconosce il diritto a ricevere dal medico le informazioni sul suo stato di salute.

L’aspetto più controverso della tematica è, indubbiamente, quello relativo ai concreti contenuti del “testamento”.

Se, infatti, nulla osta ad una volontà finalizzata a disporre l’espianto di organi ovvero a definire le modalità di sepoltura o di assistenza religiosa o domiciliare, molto più delicati sono gli aspetti relativi al rifiuto di cure e/o al cosiddetto accanimento terapeutico.

Diverse, a tal proposito, sono le scelte operate dai Legislatori europei: si va dall’ammissibilità dell’eutanasia della legge olandese (L. 10.4.2001 n. 137) a legislazioni di “compromesso”, come la loi francese 22.4.2005.

I confini all’interno dei quali è destinata a compiersi la scelta coincidono con i due poli dell’attività sanitaria: il diritto all’autodeterminazione del paziente da un lato ed il dovere di cura del medico dall’altro.

La centralità del consenso del malato quale presupposto necessario dell’intervento del sanitario tende, in altri termini, ad essere controbilanciato dall’intrinseca utilità sociale dell’attività medico-chirurgica, che si auto legittimerebbe – quantomeno sotto il profilo penale – ogni qualvolta sussista una indicazione terapeutica e sia effettuata secondo le leges artis.

Una precisa indicazione a riguardo si trova nel codice di deontologia medica che, dopo avere imposto al sanitario di attenersi, “nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona” (art. 34), gli vieta, “anche su richiesta del malato”, di operare o favorire “trattamenti diretti a provocarne la morte”.

Anche l’art. 3, comma 4, della proposta di legge prevede che: “Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto non può inserire indicazioni che integrino le fattispecie di cui agli artt. 575, 579 e 580 c.p.”.

Il testamento biologico finalizzato ad autodeterminare l’eutanasia dovrebbe, ergo, considerarsi nullo per illiceità della causa e contrasto con norme imperative; irrilevante, invece, dovrebbe reputarsi allorché fosse inteso ad impedire forme di accanimento terapeutico.

Lo stesso codice di deontologia prescrive al medico di non sottoporre il paziente a trattamenti o cure da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la sua salute e/o un miglioramento della qualità della vita.

L’art. 1, comma 1, lett. f) della citata proposta di legge, inoltre, “garantisce che in casi di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura”.

Il problema attiene comunque all’attuazione pratica di queste norme, laddove il confine fra l’eutanasia passiva e l’accanimento terapeutico non sempre traspare in maniera scientificamente nitida, apparendo piuttosto sottile ed incerto allorché, lasciato il piano dell’agire finalizzato a cagionare o ad accelerare la morte (cosiddetta eutanasia attiva), si riflette sulla condotta omissiva del sanitario.

A tale riguardo gli artt. 1, comma 3 (“I pazienti terminali o in condizioni di morte prevista come imminente hanno diritto a essere assistiti attraverso una adeguata terapia contro il dolore secondo quanto previsto dai protocolli delle cure palliative, ai sensi della normativa vigente in materia”) e 7, comma 1 (“Le volontà espresse dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento sono prese in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno”) della proposta di legge sembrerebbero legittimare la condotta del sanitario che rispetti il “diritto” (?) del paziente a non curarsi, a lasciarsi morire: se il consenso del paziente ad una pratica eutanasica attiva non eliminerebbe il carattere antigiuridico della condotta del medico, portando solo all’attenuazione delle pene previste dall’art. 579 c.p., la richiesta (attuale o previamente espressa attraverso il testamento biologico) di astensione terapeutica escluderebbe la responsabilità del sanitario.

Il dissenso alle cure, in altri termini, scioglierebbe il vincolo di garanzia che lega il paziente al medico ed esonererebbe quest’ultimo da ogni responsabilità per omessa cura, che “sussiste in quanto esiste … l’obbligo giuridico di praticare o continuare le terapie e cessa quando tale obbligo viene meno: l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa, insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure, quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui” (Cass., 16.10.2007, n. 21748).

Tale conclusione interpretativa, tuttavia, nel presupporre de iure condendo una precisa opzione legislativa a favore della – sebbene limitata – “disponibilità” del diritto alla vita umana, si porrebbe in contrasto con quanto solennemente previsto dall’art. 1, comma 1, lett. a) (“La presente legge … riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile ed indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei modi di legge”) della proposta di legge. Ove, inoltre, il Legislatore volesse effettivamente perseguire tale soluzione, sarebbe necessaria una riformulazione sistematica sia dell’art. 579 c.p. (che non fa distinzione ai fini dell’accertamento della causalità fra azione ed omissione) che dell’art. 5 c.c., per cui: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica …”.

In mancanza di scelte legislative chiare e sistematicamente coordinate, concreto ed attuale sarebbe il rischio di una responsabilità penale “totalizzante” del medico e di ogni conseguente empasse applicativa: il sanitario potrebbe ritenersi reo di omissione di soccorso o, addirittura, di omicidio nel caso in cui assecondasse la volontà del paziente lasciandolo morire e di violenza privata nell’ipotesi contraria.

Rispetto al bene vita, infatti, esiste un preciso obbligo giuridico di garanzia nei confronti del malato: “anche su richiesta (di quest’ultimo il medico) non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte” (art. 35 cod. deont. med.).

Un altro profilo problematico attiene ai pazienti in stato vegetativo persistente: in tal caso l’individuazione di un limite al rifiuto individuale alle cure implica la definizione della nozione stessa di “cura”: se, cioè, l’idratazione e la nutrizione artificiali siano da considerare un necessario ed irrinunciabile sostentamento di base o rientrino nella categoria dei trattamenti sanitari – ergo rinunciabili – del paziente o non consentiti in quanto accanimento terapeutico.

L’ipotesi evoca complessi interrogativi, di carattere non solo giuridico ma anche – e soprattutto – etico, medico e filosofico: tira in ballo, infatti, la stessa concezione della dignità dell’uomo sofferente.

Ogni distinzione al riguardo fra vite degne di essere vissute e non è arbitraria e come tale considerata anche dal Comitato nazionale di bioetica nella relazione inviata alla Presidenza del Consiglio dei ministri il 30.9.2005 (“L’alimentazione e l’idratazione dei pazienti in stato vegetativo persistente”).

Il problema consiste nel verificare se l’intervento finalizzato all’inserimento del sondino nasogastrico o della cannula endogastrica sia un atto medico invasivo della sfera fisica individuale.

A giudizio della Cassazione (cit. sent. 16.10.2007, n. 21748) l’idratazione e l’alimentazione artificiali integrano “un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere dai medici e consiste nella somministrazione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche”.

Il Comitato nazionale di bioetica, invece, nel documento su citato ne disconosce la natura di trattamento clinico e discorre, piuttosto, di un naturale dovere del medico di assicurare, con gli strumenti messi a disposizione dal progresso scientifico, il sostentamento vitale a chi non sia in grado di provvedervi autonomamente e personalmente.

Questo dualismo interpretativo risulta categoricamente risolto dall’art. 3, comma 5, della proposta di legge, per cui: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.

L’esperienza del sanitario e del giurista, filtrata da solidi fondamenti etici, insegna che spesso il desiderio di morte, pur di fronte ad acute sofferenze, dissimula una tensione verso la vita.

La richiesta del malato di lasciarlo morire tradisce un bisogno di attenzione e di amore, che può trovare risposta in un’efficace terapia del dolore e nella presenza di strutture e personale adeguati.

Tale sforzo, diretto ad ampliare il carattere “sociale” piuttosto che “libertario” del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., trova concreta attuazione negli artt. 1, comma 3 (“I pazienti terminali o in condizioni di morte prevista come imminente hanno diritto a essere assistiti attraverso una adeguata terapia contro il dolore secondo quanto previsto dai protocolli delle cure palliative, ai sensi della normativa vigente in materia”) e 5 (“Al fine di garantire ed assicurare l’equità nell’accesso all’assistenza e la qualità delle cure, l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza secondo le modalità previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 33 dell’8 febbraio 2002. L’assistenza sanitaria alle persone in stato vegetativo o aventi altre forme neurologiche correlate è assicurata attraverso prestazioni ospedaliere, residenziali e domiciliari secondo le modalità previste dal citato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. L’assistenza domiciliare, di norma, è garantita dalla azienda sanitaria locale di competenza regionale nel cui territorio il soggetto in stato vegetativo si trovi. 2. Il Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti con lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, adotta linee guida cui le regioni si conformano nell’assicurare l’assistenza ospedaliera, residenziale e domiciliare per i soggetti in stato vegetativo”) della proposta di legge ma subirebbe un concreto ostacolo laddove – in mancanza dell’esplicita e coerente previsione dell’irrilevanza per il medico di ogni manifestazione di volontà idonea a mettere a repentaglio la vita umana – si optasse per un principio volontaristico incondizionato, rendendo prevalente una dimensione formalistica della relazione medico-paziente, con il sanitario relegato al ruolo di burocrate della decisione del malato.

Il primo teorico della distinzione fra autonomia ed arbitrio fu Kant, che respingeva il secondo come irrazionale e vincolava necessariamente la prima al bene, perché è autonoma solo la volontà che vuole bene il bene.

Bisogna essere consapevoli e convinti, pertanto, che l’adesione al principio di assoluta autonomia del consenso, benché apparentemente al servizio di una malintesa e soltanto asserita causa di progresso del genere umano, lungi dall’attuare la piena capacità di autodeterminazione dell’uomo, comporta invece l’infelice ripiegamento della persona su se stessa ed il malinconico ritorno ad un passato in cui il diritto alla salute era inteso come diritto di libertà (Stato liberale) piuttosto che come diritto sociale.

Avv. Garzone Francesco Paolo

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