Orale di avvocato 2019: le domande più frequenti di diritto ecclesiastico

Redazione 15/10/19
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Di seguito alcune delle domande più frequenti di diritto ecclesiastico effettuate nelle sessioni d’esame degli scorsi anni presso le varie corti d’appello.

Le risposte alle domande sono tratte dal “Compendio di diritto ecclesiastico” a cura di Marco Zincani, scritto da Andrea Bettetini e Alessandro Perego. 

Quali sono i riferimenti costituzionali del diritto ecclesiastico?

La nostra Costituzione riserva un ruolo privilegiato alla libertà religiosa, in quanto tutelata e garantita in maniera diretta da quattro articoli (quindi, anche dal punto di vista quantitativo, più di ogni altro diritto di libertà contemplato dalla Carta fondamentale): 7, 8, 19 e 20. Specificamente, gli artt. 7 e 8 garantiscono la libertà istituzionale, ossia delle confessioni religiose, intese quali enti rappresentativi e identitari di un determinato credo (rispettivamente, l’art. 7 per la Chiesa cattolica, l’art. 8 per le confessioni religiose diverse dalla cattolica); l’art. 19 tutela la libertà religiosa del singolo, “in forma individuale o associata”; l’art. 20 ha infine ad oggetto la libertà collettiva, ossia la libertà degli enti esponenziali delle confessioni religiose, garantiti nella loro uguaglianza con gli enti di diritto comune.

Vi sono poi altre norme della nostra Carta fondamentale che riguardano i profili giuridici del fenomeno religioso: rileva così soprattutto l’art. 3, che inibisce ogni disuguaglianza fondata anche, e appunto, sulla religione.

Altre disposizioni costituzionali, in modo diretto o indiretto, possono valere a disciplinare i rapporti di religione, come l’art. 2 e le norme degli artt. 13-18 e 21-25, che, come noto, garantiscono le libertà civili.

Per avere la risposta completa consulta le pagine 19 ss. del “Compendio di diritto ecclesiastico” a cura di Marco Zincani, scritto da Andrea Bettetini e Alessandro Perego.

Quali sono le fonti del diritto ecclesiastico?

La disciplina del diritto ecclesiastico è caratterizzata da una pluralità di fonti, che comunque affondano tutte ugualmente le loro radici nell’ordinamento internazionale e nella nostra Carta fondamentale.

Per i riferimenti costituzionali, v. la risposta supra.

Oltre alle norme costituzionali, vigono nel nostro ordinamento leggi ordinarie e norme regolamentari che, talora in modo diretto, talaltra in via incidentale, disciplinano la materia. Ricordiamo, a solo titolo di esempio, la l. 27 maggio 1929, n. 847, riguardante il matrimonio; il d.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, sul riconoscimento della personalità giuridica agli enti privati; il d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore. Sono inoltre di unilaterale derivazione statale le norme sulle confessioni religiose diverse dalle confessioni che hanno stipulato Intese con lo Stato, ossia la l. 24 giugno 1929, n. 1159 e il r.d. 28 febbraio 1930, n. 289, concernenti tutte le dette confessioni, nonché le norme sulla previdenza sociale dei ministri di culto di cui alla l. 22 dicembre 1973, n. 903.

Ritroviamo ulteriori disposizioni in testi legislativi coinvolgenti più vasti interessi, come le norme contenute nei codici (civile, penale, di procedura civile, di procedura penale) o in leggi speciali, nonché le disposizioni di leggi regionali concernenti l’assistenza, l’istruzione religiosa, i consultori familiari, ecc.

Particolare rilievo assumono logicamente le norme di derivazione pattizia, ossia le leggi che hanno dato esecuzione agli accordi fra Stato italiano e Chiesa cattolica di cui all’art. 7 Cost., e quelle che hanno approvato le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica ai sensi dell’art. 8, terzo comma Cost. Tali norme costituiscono una forma espressiva della legislazione negoziata così tipica del diritto contemporaneo, in cui è sempre più abituale che si faccia assegnamento sulla collaborazione dei gruppi sociali (ordini professionali, sindacati, confessioni religiose, ecc.) per emanare le disposizioni che in qualche modo li riguardano. In una prospettiva partecipativa e sussidiaria, lo Stato si impegna ad adeguare le sue risposte ai bisogni reali della collettività.

Per avere la risposta completa consulta le pagine 12 ss. del “Compendio di diritto ecclesiastico” a cura di Marco Zincani, scritto da Andrea Bettetini e Alessandro Perego.

Qual è il regime tributario degli enti religiosi e dei loro immobili?

La garanzia apprestata dall’art. 20 Cost. impedisce che agli enti ecclesiastici, e di conseguenza ai mezzi attraverso i quali esplicano le proprie attività, possa essere imposto un trattamento fiscale deteriore rispetto agli enti di diritto comune. Così, e conseguentemente, l’art. 7, comma 3, della l. n. 121 del 1985 dispone che agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Mentre le attività diverse da quelle religiose o cultuali sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità degli enti ecclesiastici, alle leggi dello Stato che regolano tali attività e al regime tributario previsto per le medesime.

Volendo poi esaminare il trattamento tributario relativo in particolare agli edifici di culto, va qui ricordato che a norma dell’art. 36, comma 1 del T.U. delle imposte sui redditi (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), il reddito prodotto dai beni immobili è costituito dal reddito medio ordinario che si ricava da ciascuna unità immobiliare urbana, mediante l’applicazione di tariffe d’estimo catastali in relazione a ciascuna classe e categoria di appartenenza.

Per avere la risposta completa consulta le pagine 71 ss. del “Compendio di diritto ecclesiastico” a cura di Marco Zincani, scritto da Andrea Bettetini e Alessandro Perego.

Come funziona l’8 per 1000 quale forma di finanziamento delle confessioni religiose?

Il primo e più rilevante canale di finanziamento delle confessioni religiose è certamente rappresentato dall’otto per mille, che, come si diceva, vede una convergenza tra le libere indicazioni dei cittadini e le casse dello Stato.

Sulla base di quanto prevede l’art. 47, comma 2 della l. 222/1985, a partire dal 1990 si è destinata “una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, liquidata dagli uffici sulla base delle dichiarazioni annuali … in parte, a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica”. Alla ripartizione di tale quota concorrono oggi anche tutte le altre confessioni religiose dotate di intesa con lo Stato, eccettuata la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, che ha scelto di finanziarsi esclusivamente “con i contributi volontari dei suoi fedeli”. L’otto per mille del gettito IRPEF è pertanto oggi ripartito tra lo Stato, la Chiesa cattolica e le altre undici confessioni religiose dotate di intesa; è invece certamente da escludere che possano partecipare, sotto qualsiasi forma, a questa ripartizione le confessioni religiose prive di intesa e soggette alla legge 1159/1929 sui culti ammessi.

La distribuzione delle somme tra i soggetti che ne hanno diritto avviene “sulla base delle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi”: così, ad esempio, se il 35% dei contribuenti dichiara di voler destinare l’otto per mille alla Chiesa cattolica, il 5% allo Stato, il 2% alla Tavola Valdese, ecc., la corrispondente quota del gettito IRPEF verrà assegnata per il 35% alla Chiesa cattolica, per il 5% allo Stato, per il 2% alla Chiesa valdese e così via. Il meccanismo si fonda, insomma, su di una votazione per teste, realizzata in sede di dichiarazione dei redditi ed avente ad oggetto la ripartizione dell’otto per mille dell’intero ammontare del gettito IRPEF tra lo Stato, la Chiesa e le altre confessioni religiose.

Per avere la risposta completa consulta le pagine 88 ss. del “Compendio di diritto ecclesiastico” a cura di Marco Zincani, scritto da Andrea Bettetini e Alessandro Perego.

In che cosa consiste il dovere del segreto d’ufficio del ministro di culto e quali sono le conseguenze della sua violazione?

Il diritto dei ministri di culto di astenersi dal riferire informazioni di cui siano venuti a conoscenza in ragione del loro ministero si accompagna al dovere dei medesimi di non rivelare quelle notizie che, sempre nell’esercizio delle proprie funzioni, abbiano conosciuto in via riservata o addirittura a titolo di segreto affidato loro da terzi. Lo prevedono alcuni ordinamenti confessionali come quello canonico, che vieta al confessore, a pena di scomunica, di rivelare quanto appreso durante il sacramento della riconciliazione, anche in caso di autorizzazione da parte del penitente (c.d. sigillo sacramentale)

Nell’ordinamento dello Stato l’art. 622 c.p. punisce “a querela della persona offesa” il ministro del culto che riveli “senza giusta causa” un segreto di cui ha avuto notizia per ragione del proprio ministero ovvero che lo impieghi “a proprio o altrui profitto” “se dal fatto può derivare nocumento” .

Per approfondire consulta le pagine 131 ss. del “Compendio di diritto ecclesiastico” a cura di Marco Zincani, scritto da Andrea Bettetini e Alessandro Perego.

Qual è l’estensione del territorio dello Stato Città del Vaticano?

Il territorio vaticano copre una superficie di 0,44 kmq (44 ettari) delimitato secondo la pianta di cui all’Allegato I del Trattato, è circoscritto in parte dalle mura e si estende, sulla Piazza San Pietro, sino ad una fascia di travertino che congiunge al suolo le estremità esterne del colonnato berniniano, segnando il confine dello Stato al limite della piazza. L’Italia ha riconosciuto sul Vaticano “la piena proprietà e la esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana” della Santa Sede (art. 3 Trattato). Detto territorio dunque rimane sottratto ad ogni ingerenza delle autorità italiane pur costituendo lo SCV uno Stato enclave, il cui territorio cioè è circondato completamente da quello dello Stato italiano

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