L’ampiezza dei poteri del consulente tecnico di ufficio nel processo civile e la loro compatibilità con le preclusioni istruttorie

Redazione 24/04/19
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di Maria Rosaria Manselli*

* Avvocato

Sommario

a. Premessa

b. Distinzione tra CTU deducente e percipiente

c. Il potere in generale del CTU di acquisire documenti e informazioni da terzi

d. Conclusioni

a. Premessa

Nel processo civile la consulenza tecnica non è, almeno normalmente e comunque secondo l’ottica del codice di procedura civile, un mezzo di prova in sé, ma un mezzo per aiutare il giudice a formarsi il suo convincimento sui fatti che sono rappresentati da altri mezzi di prova[1]. La legge, infatti, più che disciplinare un mezzo, disciplina l’attività di un soggetto: il consulente tecnico, quale ausiliario del giudice.[2] Insomma, se i fatti rilevanti (direttamente e indirettamente) per la causa sono fissati dal giudice in base ai mezzi di prova ed ai mezzi di presunzione ovvero alla mancata contestazione ai sensi dell’art. 115, comma 1°, c.p.c., la consulenza tecnica serve a “interpretare” quei fatti quando per la loro concreta comprensione è necessario avere una conoscenza tecnica o scientifica che va al di là di quella comunemente posseduta dall’uomo medio in una certa epoca. La consulenza tecnica è strumento di comprensione e, quindi, di formazione del convincimento del giudice. Ciò nonostante la natura della consulenza tecnica d’ufficio ha, talvolta, oscillato tra quella di mezzo istruttorio e quella di mezzo di prova, ovverossia nell’adesione alla tesi secondo la quale la c.t.u. sia un mezzo di prova in senso proprio, oppure solo un mezzo per sopperire all’incapacità del giudice di comprendere appieno le risultanze probatorie.

Parte della dottrina[3] ha definito la CTU non come un vero mezzo di prova, ma come un mero mezzo istruttorio, sia per la collocazione dell’istituto all’interno del codice, considerato che esso risulta regolato pur sempre all’interno della sezione dedicata all’istruzione probatoria, senza essere ricompreso fra gli altri mezzi di prova, sia perché il codice vigente dà molta più importanza al profilo soggettivo, inquadrando il consulente fra gli ausiliari del giudice, anzi identificandolo nel suo principale ausiliario, che lo aiuta ad una migliore valutazione dei fatti, già allegati ed asseverati dalle parti, fornendogli le massime dell’esperienza di quello specifico settore di materie che il giudice non conosce, e che, se anche conoscesse non potrebbe utilizzare per il divieto di scienza privata. Pertanto, e qui si individua il secondo motivo per cui la consulenza non sarebbe mezzo di prova tout court, la sua attività, a differenza di quella del testimone che è di mera narrazione dei fatti, costituirebbe una valutazione degli stessi, o meglio di prevalenza di simile fase su quella propriamente rappresentativa.

Altra parte della dottrina, però, prendendo appunto le mosse dalla distinzione giurisprudenziale tra consulenza deducente e consulenza percipiente, di cui poi si dirà, ha ritenuto che la CTU non possa più esser distinta dalla testimonianza, consistendo in una dichiarazione di scienza resa al giudice di fatti di cui si è avuto conoscenza[4].

Altri infine concludono che, qualora il giudice incarichi il consulente della sola percezione dei fatti allegati, non siamo lontani da una prova in senso stretto, e comunque a quel punto il consulente finisce per diventare la longa manus del giudice, tanto che gli accertamenti dei fatti dallo stesso compiuti non hanno un’efficacia diminuita, ma quella vera e propria delle indagini ispettive.[5]

Da ultimo, la Suprema Corte con sentenza del 19/04/2011 n. 8989 contribuendo a delineare il quadro interpretativo, richiamando l’orientamento oramai consolidato, ha puntualmente ricordato (invocando Cass n. 16256/04) che la consulenza tecnica, può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova, quando si risolva in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche[6]: ovviamente si colloca tra i mezzi di prova solo in senso lato, in quanto non può essere disposta per ovviare a delle carenze probatorie imputabili alle parti stesse o per la ricerca delle prove che le parti hanno l’onere di fornire.

[1] Vedi già le classiche pagine di F.Carnelutti, La prova civile (1915) ora rist. Milano 1992, 74 ss., il quale, però, non dimenticava le ipotesi in cui il consulente può avere una funzione “percipiente” (op. cit., 70 ss.),

[2] M. Vellani, Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, voce in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. III, Torino 1988, 525; G. Verde, Profili del processo civile. Processo di cognizione, Napoli 2006, 140; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, vol. II. Il processo ordinario di cognizione, Torino 2009, 200; F. P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano 2017.

[3] Francesco Paolo Luiso, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, Milano, 2017, IX edizione. Ved. anche Ferruccio Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova,2002.

[4] Andrea Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996, 477.

[5] Luca Petrone, La consulenza tecnica tra mezzo istruttorio e mezzo di prova: aspetti problematici e profili applicativi , www.judicium.it; in questo senso Gian Franco Ricci, Le prove atipiche tra ricerca della verità e diritto di difesa, Atti del XXV Convegno Nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Cagliari, 7/8 ottobre 2005.

[6] Luca Petrone, La consulenza tecnica tra mezzo istruttorio e mezzo di prova: aspetti problematici e profili applicativi , www.judicium.it; in questo senso Gian Franco Ricci, Le prove atipiche tra ricerca della verità e diritto di difesa, Atti del XXV Convegno Nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Cagliari, 7/8 ottobre 2005.

b. Distinzione tra CTU deducente e percipiente

Come si diceva la giurisprudenza, con la sentenza delle Sezioni Unite del 4.11.1996 n. 9522, e in particolar modo la dottrina, opera una distinzione essenziale che permea tutto l’argomento , tra consulenza deducente e consulenza percipiente.

I termini in realtà sono equivoci, perché sembra che vi siano attività di conoscenza che esigono una valutazione (“deducente”) ed un’attività che non esige una valutazione (“percipiente”), senza comprendere che ogni accertamento dei fatti esige sempre una valutazione, anche se essa può essere più o meno complessa. Ma la distinzione è giuridicamente chiara, dal punto di vista del processualista, perché è evidente che nell’una si immagina un consulente che “legge” fatti che risultano da mancate contestazioni, mezzi di prova o mezzi di presunzione, mentre nell’altra si immagina un consulente che diventa egli stesso strumento di percezione e, quindi, di acquisizione della prova del fatto nel processo, eventualità che si prospetta quando un simile accertamento è possibile solo se compiuto da un soggetto che abbia determinate conoscenze specialistiche. Inoltre, trattando della c.t.u. c.d. “percipiente” la giurisprudenza tiene a chiarire che, se questa è un mezzo di prova, è anche vero che le parti non possono fondarsi semplicemente su di essa, senza assolvere i loro oneri probatori, in particolare i loro oneri di allegazioni[7]. Si legga a tal proposito la seguente massima: “Le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d’ufficio cosiddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti”. Pertanto l’attività di deduzione da fatti già acquisiti al processo, di fatti ignoti sulla base di sapere specialistici si differenzia dalla attività di percezione, ove per la percezione sono necessari saperi tecnici e specialistici, ma in entrambi i casi vi sarà una valutazione tecnica, e la produzione quantomeno dei fatti e elementi posti a fondamento dei diritti lesi.

Nel primo caso, consulenza deducente, la CTU figura, quindi, quale mezzo di indagine volta ad accertare fatti già provati dalle parti e non costituisce la fonte di alcuna prova; nel secondo caso, consulenza percipiente, invece, essa assume una portata leggermente più ampia, sebbene giammai ascenda al rango di prova, poiché è finalizzata ad accertare fatti non altrimenti accertabili se non per mezzo di particolari competenze specialistiche di settore. Nel secondo caso il Giudice, quindi, può affidare al consulente, non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. Civ., Sez. III, 13/03/2009 n. 6155).
Anche in tale ipotesi, si badi bene, la consulenza tecnica rimane un mezzo di ausilio del giudice volto alla più approfondita conoscenza di fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico scientifiche non in possesso dell’organo Giudicante. Essa, però, non diviene mai un mezzo di soccorso volto a sopperire l’inerzia delle parti. Un’eventuale ammissione della CTU in tal senso comporterebbe inevitabilmente “lo snaturamento dell’istituto previsto dal codice di procedura, il mancato rispetto della posizione paritaria delle parti nel processo, un allungamento dei tempi processuali, con palese violazione del giusto processo, anche sotto il profilo della ragionevole durata, tutelato dall’art. 111 della Costituzione” (Cass. Civ., Sez. III, 19/04/2011 n. 8989).
Acclarata la rilevanza della Consulenza Tecnica come mero strumento di accertamento di situazioni rilevabili con il concorso di determinate cognizioni tecniche e, in ogni caso, fermo restando che le valutazioni espresse dal CTU non hanno efficacia vincolante per il Giudice, e che essa non rientra nella disponibilità delle parti, ma è rimessa al potere discrezionale del Magistrato, si può addivenire alla consulenza percipiente solo allorché si verta in situazioni rilevabili unicamente con il concorso di determinate cognizioni tecniche, ed i normali mezzi rendano impossibile, o estremamente difficile, il raggiungimento della prova, come, ad esempio, in caso di danno alla salute (Cass. Civ. Sez. III, 19/01/2006 n. 1020; Cass. Civ., Sez. III, 07/05/2015 n. 9249).

Quando la c.t.u. ha valenza di mezzo di prova bisogna applicare, in ogni caso, i principi che vigono appunto per l’istruzione probatoria. Le istanze istruttorie hanno sempre due profili: uno che riguarda l’ammissibilità del mezzo e l’altro che riguarda la rilevanza dell’oggetto su cui si chiede l’assunzione del mezzo, ossia il fatto che si vuole provare. Ecco allora che ogni istanza istruttoria presuppone necessariamente un’attività di allegazione dei fatti. Ma, affermare questo principio non significa anche dire che allora esiste una sorta di monopolio delle parti in ordine ai fatti, perché, salvo il divieto di scienza privata ed il principio della domanda, bisogna trovare un punto di equilibrio tra i poteri delle parti ed i poteri del giudice (compresi i poteri di un suo ausiliare qual è il consulente tecnico). Certamente è onere della parte allegare, sempre, i fatti che servono all’individuazione dei diritti che si fanno valere in giudizio, e dei fatti che possono fondare eccezioni in senso stretto. Il giudice non potrebbe fondare la sua decisione su tali fatti, se questi, non allegati dalle parti, risultino comunque dagli atti. Ma altrettanto vero che il giudice può utilizzare fatti che non individuano i diritti fatti valere, o che fondano eccezioni c.d. in senso lato (rilevabili anche dal giudice), pur se questi risultino dagli atti, quindi emergano dall’attività istruttoria, anche se le parti non li abbiano espressamente allegati (fatti c.d. avventizi). Se questi principi valgono anche in riferimento alla consulenza tecnica, certamente essa non può essere utilizzata come strumento che sostituisca gli oneri di allegazione delle parti, purché, però, si specifichi l’ambito entro il quale quegli oneri operano. E detto ambito riguarda solo i fatti che individuano i diritti azionati ed i fatti che fondano eccezioni in senso stretto (rilevabili solo ad istanza di parte). Insomma, ed in definitiva, non è pensabile che si possa ammettere la c.t.u. per accertare fatti non ancora allegati dalle parti, se essa può valere come un mezzo di prova, allora è evidente che, come ogni mezzo di prova (costituenda) di cui si chiede l’assunzione, la parte richiedente deve anche individuare il fatto sul quale si chiede l’ammissione della prova.

Poi, nell’espletamento del sub-procedimento istruttorio può accadere che emergano fatti avventizi (non individuatori del diritto azionato né fondanti eccezioni in senso stretto), ed allora il giudice non potrà non utilizzarli. Ma detti fatti non possono emergere per mezzo della richiesta di informazioni a terzi da parte del consulente, a meno che detta richiesta di informazioni sia resa necessaria al fine di rispondere ai quesiti posti al consulente dal giudice e sempre che si tratti di fatti accessori.

In tale contesto si dovrà inquadrare, pertanto, l’ampiezza dei poteri del CTU nell’espletamento del proprio incarico.

[7] Cassazione Sentenza n. 3191/2006. Altrimenti essa non è ammissibile, perché comunque si deve partire dall’idea che in linea di principio la c.t.u. non sarebbe un mezzo di prova, ma solo un mezzo d’integrazione per la valutazione del giudice. Insomma codesta c.t.u. “percipiente” è concepibile unicamente quando l’accertamento non si potrebbe effettuare senza specifiche cognizione tecnico-scientifiche

c. Il potere in generale del CTU di acquisire documenti e informazioni da terzi

Le principali contestazioni concrete, in subiecta materia nascono, infatti, principalmente dalla compatibilità di detto potere in generale con il principio dispositivo e, in particolare, con il rispetto dei termini perentori per il deposito nel giudizio dei documenti che, per il giudizio ordinario di cognizione, è sancito dal combinato disposto degli articoli 183 sesto comma c.p.c. e 87 disp. att. c.p.c.

Può, pertanto, il CTU acquisire documentazione non prodotta dalle parti nel rispetto dei termini perentori previsti per il giudizio ordinario di cognizione, e su detti documenti fondare il proprio convincimento, e quindi rispondere al quesito formulatogli dal giudice?

Il consulente ha bisogno di uno specifico mandato dal giudice per assumere informazioni, deve indicare le fonti e può riguardare fatti costitutivi o soltanto fatti accessori?

L’attività del consulente è delimitata, innanzitutto, dal giudice con la formulazione dei c.d. “quesiti”. Precisamente la nomina del consulente avviene con ordinanza del giudice istruttore ai sensi dell’art. 183, 7° comma, c.p.c., o con altra successiva ordinanza, il quale, nella medesima ordinanza, formula i quesiti e fissa l’udienza nella quale il consulente deve comparire (art. 191, come modificato con l. n. 69/2009, che si applica ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009). Non si può prescindere, per dar risposta ai quesiti suspecificati, alle statuizioni della Suprema Corte, e in particolare la Cassazione con sentenza n. 3990 del 23.2.2006, per la prima volta, collega il potere di acquisizione e di valutazione da parte del consulente tecnico di ufficio dei documenti nuovi, e non prodotti dalle parti alla distinzione tra consulenza deducente, per la quale questo potere non è consentito, e consulenza percipiente, per la quale invece questo potere è attribuito al perito. Ha, quindi, esplicitamente affermato che, nel caso di accertamenti di fatti per i quali sia necessario ricorrere a specifiche cognizioni tecniche, la CTU diventa percipiente, e cioè essa stessa fonte di prova dei fatti stessi, e in questo caso al consulente è consentito acquisire anche da una delle parti e quindi valutare documenti nuovi non prodotti[8]. Ragionamento ribadito poi con la sentenza n. 12921 del 23 giugno 2015, ove ha così statuito “…in tema di consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, e che dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice, purchè ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio”.

E tuttavia occorre chiarire entro che limiti è legittimo l’esercizio di tale facoltà da parte del consulente e quali siano i dati, le notizie, i documenti che egli può acquisire aliunde. Il criterio guida è che si tratta di un potere funzionale al corretto espletamento dell’incarico affidato, che non comporta alcun potere di supplenza, da parte del consulente, rispetto al mancato espletamento da parte dei contendenti al rispettivo onere probatorio. Esso viene legittimamente esercitato in tutti i casi in cui al consulente sia necessario, per portare a termine l’indagine richiesta, acquisire documenti in genere pubblici non prodotti dalle parti e che tuttavia siano necessari anche per verificare sul piano tecnico se le affermazioni delle parti siano o meno corrette. Potrà anche, nel contraddittorio delle parti, acquisire documenti non prodotti e che possano essere nella disponibilità di una delle parti o anche di un terzo qualora ne emerga l’indispensabilità all’accertamento di una situazione di comune interesse. Può acquisire, inoltre, dati tecnici di riscontro alle affermazioni e produzioni documentali delle parti, e pur sempre deve indicare loro la fonte di acquisizione di questi dati per consentire loro di verificarne l’esatto e pertinente prelievo. Quindi, l’acquisizione di dati e documenti da parte del consulente tecnico ha funzione di riscontro e verifica rispetto a quanto affermato e documentato dalle parti. Non è invece consentito al consulente sostituirsi alla stessa parte, andando a ricercare aliunde i dati stessi che devono essere oggetto di riscontro da parte sua, che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova (ovvero gli atti e i documenti che siano nella disponibilità della parte che agisce e dei quali essa deve avvalersi per fondare la sua pretesa che non gli siano stati forniti, acquisendoli),in quanto in questo modo verrebbe impropriamente a supplire al carente espletamento dell’onere probatorio, in violazione sia dell’art. 2697 cc. che del principio del contraddittorio. Infatti la esigenza principale da tutelare è quella di armonizzare l’attività del consulente con la regola generale prevista dall’art. 2697 c.c.: in nessun caso la consulenza tecnica può servire ad esonerare la parte dal fornire la prova che le spetta offire in base ai principi che regolano l’onere relativo; solo nel caso di fatti, il cui accertamento richieda l’impiego di un sapere tecnico qualificato, l’onere si riduce all’allegazione, spettando poi al Giudice decidere se ricorrono o meno le condizioni per l’ammissione della consulenza tecnica. In punta di diritto la CTU ben può essere disposta anche per l’acquisizione di dati la cui valutazione sia poi rimessa all’ausiliario consulente (consulenza c.d. percipiente), di tal che è così consentito a quest’ultimo pure di acquisire ogni elemento necessario per rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti e documenti «accessori», in modo che rimanga comunque esclusa, nella CTU concretamente disposta, una «funzione vicariale della prova» ( cfr. sul punto a Corte di Cassazione, Sezione VI Civile, con l’ordinanza del 11 settembre 2018, n. 22116).

In tale panorama si incunea anche la possibilità per il consulente di acquisire informazioni da terzi, nel corso delle indagini peritali, escluso ovviamente il caso in cui le informazioni siano richieste alla pubblica amministrazione, in quanto per tale fattispecie esiste lo strumento dell’art. 213 cpc, l’aspetto da chiarire riguarda, quindi, il potere del CTU di assumere informazioni da terzi che non siano la pubblica amministrazione, considerato che questo potere gli viene esplicitamente riconosciuto dall’art. 194 cpc, ma solo su autorizzazione del giudice. In linea con i principi ispiratori teste descritti si può assumere che il consulente, anche senza espresso mandato, abbia il potere di assumere informazioni da terzi, ma solo su fatti accessori, e non su fatti su cui si fondano le domande e le eccezioni delle parti, indicandone le fonti di prova in modo che le parti siano messe in grado di contestarle, con l’onere di farlo nella prima difesa utile successiva al deposito della relazione peritale.

[8] Con il primo motivo(violazione degli artt. 61 c.p.c. e art. 87 disp. att. c.p.c.) la ricorrente ha dedotto che dalla irrituale produzione dei preventivi di spesa relativi al materiale didattico danneggiato non era derivata alcuna lesione del diritto di difesa, avendo la controparte preso conoscenza di tali documenti con la relazione di consulenza, sottoponendoli a critica nel merito, e che la consulenza tecnica, pur avendo, di regola, funzione di fornire al Giudice una valutazione relativa a fatti già acquisiti o accertati, può legittimamente costituire fonte oggettiva di prova qualora si risolva non soltanto in uno strumento di valutazione, bensì di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche. La censura è fondata. L’eccezione di irritualità della produzione dei preventivi è stata sollevata soltanto con l’atto di appello, come risulta anche dal controricorso, mentre non è stata fatta alcuna opposizione in sede di merito in primo grado, sicchè i documenti, conosciuti attraverso la lettura della relazione del C.T.U., e comunque prendendo visione degli atti allegati a tale relazione, discussi nel merito dalle parti ed esaminati dal Tribunale, devono aversi per ritualmente prodotti nonostante la violazione dell’art. 87 disp. att. cod. proc. civ. (Cass. n. 4313 del 1986 e n. 5722 del 1984). Il Giudice può affidare al consulente tecnico non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), e in tal caso, in cui la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova, è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il Giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. S.U. n. 9522/1996; Cass. n.10871/1999). Ed è il caso di specie, in cui l’intervento del consulente è stato ritenuto necessario per accertare sia lo stato dei luoghi e la riduzione del valore locativo dell’immobile che eventuali danni patrimoniali ai beni di proprietà dell’attrice

d. Conclusioni

Il nostro legislatore ha scelto di fondare la trattazione del processo sul principio della domanda, sul principio dispositivo e sul divieto di scienza privata, per cui sta certamente solo alle parti allegare i fatti che individuano il diritto fatto valere, sta normalmente alle parti produrre le prove o presentare le istanze istruttorie volte a dimostrare la narrazione che fonda le loro pretese giuridiche ed in ogni caso il giudice non può fissare i fatti in base ad una sua scienza privata. Non sempre, però, il giudice è in grado di compiere la necessaria razionalizzazione pregiuridica del dato, prima di applicare ad esso la norma giuridica, perché non è detto che il giudice possieda i criteri di valutazione, le massime di esperienza che sono necessarie per quella razionalizzazione. Ecco, allora, che nell’esperienza giuridica può emergere l’esigenza di appoggiarsi a soggetti che abbiano quelle conoscenze tecniche, non giuridiche di cui l’operatore del diritto ha bisogno, per la soluzione di una controversia giuridica. Tuttavia, se normalmente la consulenza tecnica serve al giudice per integrare delle conoscenze che a lui mancano al fine della soluzione della quaestio facti, sta normalmente allo stesso giudice valutare nella sua piena discrezionalità l’opportunità o la necessità di ricorrervi e delegando specifici poteri .

A questo proposito, si deve contemperare, il pur esistente spazio di valutazione del giudice con il diritto alla prova della parte, esigenza che viene giustamente attuata dalla giurisprudenza in due modi. Per un verso, affermando che, se è vero che rientra nei poteri discrezionali del giudice disporre o meno una c.t.u., è anche vero che l’istanza di parte, quando trattasi di una consulenza con funzione di accertamento, non può essere disattesa dal giudice senza una puntuale motivazione. Per altro verso, precisando che il giudice non potrebbe dar torto alla parte istante imputandogli di non aver assolto al suo onere probatorio, dopo aver rifiutato di assumere proprio la consulenza tecnica per mezzo della quale quell’onere probatorio si sarebbe potuto assolvere.

Va da se che il consulente nominato, per sopperire ad una lacuna di sapere tecnico, dovrà far uso di quei strumenti che gli consentano di poter serenamente valutare , ricorrendo a verifiche suppletive che gli permettano di rispondere ai quesiti tecnici necessari per l’accertamento della verità reale, che non sempre coincide con la verità processuale: il fine ultimo dell’operatore del diritto, che, seppur caldeggiato negli ultimi disegni legge, aventi ad oggetto la Riforma del processo civile, con l’obiettivo di rendere il giudizio di primo grado ” luogo elettivamente deputato alla cognizione del fatto, che sia capace di tendere ad una decisione giusta della causa, in quanto basata su un accertamento dei fatti tendenzialmente corrispondente alla realtà”, purtroppo allo stato nulla è cambiato, potendosi definire meri ritocchi tecnici quelli contenuti nella Riforma del 2009.

Lasciando ai margini la vexata quaestio circa la possibile qualificazione della consulenza come vero e proprio mezzo istruttorio , e mostrando di ignorare le ampie critiche sollevate da quella parte della cultura processualcivilsitica che ha evidenziato il ritardo fra le impostazioni giurisprudenziali del nostro ordinamento, rispetto a quelle di altri ordinamenti, il tema delle modalità di utilizzazione di cognizioni esperte affidabili che rappresenterebbe uno degli snodi essenziali per il corretto funzionamento della giustizia civile, sarebbe auspicabile che venisse posto seriamente in luce[9].

[9] La consulenza tecnica nel processo civile. Problemi e funzionalità Vincenzo Ansanelli Temi di dirittp privato . Giuffrè Editore 2011 pagg.263 264

Redazione

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