L`affidamento di reparto commerciale: esplicazione dell`istituto in un`apparente “legislazione inesistente”

Ivano Ciurlia 20/10/20
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L`inquadramento giuridico dell`istituto: l`autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c.

L`evoluzione della realtà economica e commerciale ha portato inesorabilmente all`avvento di nuove pratiche organizzative, in seno ai grandi centri commerciali, che sfuggono odiernamente da una specifica trattazione della materia all`interno del corpus del codice civile o di leggi speciali.

Sovente si assiste alla creazione, tramite il contratto di affidamento di reparto, del cosiddetto “shop in shop”. Tale fenomenologia consiste nella cessione, da parte dell`affidante, di una porzione di spazio all`interno della propria attività commerciale ad un ulteriore soggetto, l`affidatario, che esercita un ulteriore attività economica, limitatamente al reparto affidato tramite statuizione contrattuale. In siffatto modo si giunge a razionalizzare maggiormente l`offerta al pubblico diversificando i prodotti venduti e raggiungendo una clientela nettamente più ampia, sfruttando sia una gestione autonoma del reparto affidato e sia altresì i maggiori guadagni arrecati all`affidante tramite l`introito di denaro pervenuto dal canone versato dall`affidatario per lo spazio fisico utilizzato o attraverso, in alternativa, la cessione di una percentuale dei guadagni fatturati dal reparto affidato, a titolo di corrispettivo, nelle casse dell`affidante.

Attualmente, a livello normativo, non si è assistito all`intervento del legislatore per disciplinare tale istituto sorto dalla mera prassi commerciale. Anche la giurisprudenza di legittimità non è idonea a fornire, in questa specifica circostanza, delle salde linee guida all`istituto, essendo tale contributo assai scarno e rivolto soprattutto al piano amministrativo anziché privatistico della questione.

In assenza di una disciplina normativa di riferimento l`istituto deve essere forzosamente ricondotto, ex art. 1322 c.c., nell`alveo dei contratti cosiddetti atipici. L`articolo in questione dispone testualmente quanto segue:

«Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e dalle norme corporative.

Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l`ordinamento giuridico».

È agevole notare come, nel primo comma del prefato articolo codicistico, il legislatore si sia premurato di statuire un assunto di rilevante importanza ossia il principio dell`autonomia contrattuale delle parti. In ossequio a tale previsione, le parti, anche nello specifico caso del contratto di affidamento di reparto, saranno libere di determinare a proprio piacimento il contenuto del contratto che vincolerà le rispettive volontà e posizioni giuridiche. L`unica limitazione esistente alla libera contrattazione è ravvisabile nella dicitura «nei limiti imposti dalla legge». Difatti la predisposizione di clausole contrattuali vietate espressamente dalla legge sono sanzionate con la loro nullità.

Il secondo comma, invece, esterna la possibilità di creare contratti non rientranti in quelli espressamente tipizzati dal legislatore, ma vi è la facoltà di volta in volta, in base alle esigenze privatistiche meritevoli di tutela, di formalizzare schemi contrattuali del tutto nuovi e denominati, per l`appunto, “contratti atipici”.

Dunque, in base a quanto previsto e concesso ex art. 1322 c.c., le parti che intendano disporre un contratto di affidamento di reparto possono statuire liberamente, di comune accordo, il contenuto e le singole clausole che disciplineranno i rapporti sorti per il tramite della sottoscrizione, con l`unico limite di eventuali divieti legali predisposti dal legislatore.

Invero un primo tentativo da parte del legislatore di predisporre una disciplina, per l`istituto in esame, è stata fatta in tempi risalenti attraverso il D.M. n. 375/88.

Difatti l`art. 41 del citato Decreto Ministeriale, al comma 14, testualmente disponeva:

«Il titolare di un esercizio commerciale organizzato su più reparti in relazione alla gamma dei prodotti trattati o alle tecniche di prestazione del servizio impiegate può affidare uno o più di tali reparti, perché lo gestisca in proprio per il periodo di tempo convenuto, ad un soggetto che sia iscritto nel registro, dandone immediata comunicazione alla camera di commercio, al Comune e all`ufficio dell`imposta sul valore aggiunto. Qualora non abbia provveduto a tale comunicazione risponde dell`attività esercitata dal soggetto stesso»

Il Decreto Ministeriale prosegue, nel comma 15, statuendo che:

«La fattispecie di cui al comma 14 del presente articolo non costituisce un caso di subingresso».

Siffatto tentativo del legislatore, di approntare una disciplina all`istituto inerente l`affidamento di reparto, si è concluso a posteriori con un nulla di fatto. Difatti, l`unico apporto fornito è stato quello di individuare una certa definizione del fenomeno senza però normare gli aspetti salienti e controversi di un istituto del tutto nuovo venuto alla luce per via di prassi.

A distanza di dieci anni, tramite l`emanazione del D. Lgs. n. 114/98, il prefato Decreto Ministeriale veniva abrogato. La nuova disciplina nulla prevedeva in merito all`istituto dell`affidamento di reparto, tuttavia il Decreto Ministeriale ebbe il modo ed il tempo di approntare il proprio lascito, tramite il recepimento, già avviato da parte della legislazioni regionali, della definizione dell`istituto contemplata dall`art. 41 del D.M. n. 375/88.

In conclusione. si può affermare, senza alcun indugio, che una disciplina ad hoc concernente il contratto di affidamento di reparto non possa reperirsi in alcun specifico e tipico dettame codicistico o di legislazione speciale, ma la regolamentazione è lasciata all`autonomia delle parti in forza della previsione e codificazione di tale principio, sancito ex art. 1322 c.c.

In effetti, tale orientamento è stato ribadito finanche dal Ministero delle Attività Produttive che con il Parere n. 549384 del 12 Novembre 2002 ha asserito che:

«I rapporti tra titolare dell`esercizio ed affidatario possono essere regolati dalle parti in base alla normativa dettata dal codice civile attraverso i principi dell`autonomia contrattuale delle parti».

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L`inapplicabilità dell`art. 2112 c.c.

Vige nel nostro ordinamento giuridico una disposizione di comprovata rilevanza precettiva in merito alla continuazione del rapporto di lavoro e contrattuale dei dipendenti laddove l`azienda, o una parte di essa, venga ceduta o affittata ad un soggetto terzo.

Tale principio è codificato all`interno dell`art. 2112 c.c., rubricato per l`appunto «mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d`azienda», e nel primo comma testualmente dispone che:

«In caso di trasferimento d`azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano».

Siffatto principio, a tutela del lavoratore, non pare applicabile all`istituto dell`affidamento di reparto, stante, innanzitutto, la precisa rubricazione posta dal legislatore che specificatamente menziona la dicitura «in caso di trasferimento di azienda». Orbene, l`istituto dell`affidamento di reparto non si sostanzia in una cessione o affitto dell`azienda o di un ramo di essa, perché queste ultime fattispecie richiedono la predisposizione, da parte del cedente, dei mezzi e della forza lavoro per la continuazione dell`opera lavorativa aziendale acquisita dal cessionario. In siffatto contesto appare essenziale tutelare la forza lavoro del locus aziendale ceduto o affittato, predisponendo, in itinere, una continuazione contrattuale dei dipendenti a seguito dell`avvenuta cessione del ramo aziendale dove essi espletavano la loro opera.

L`affidamento di reparto, invece, riguarda essenzialmente la dazione all`affidatario di un circoscritto luogo dove possa svolgere, in autonomia, la propria attività economica, reclutando, ove richiesto dalle necessità organizzative dell`attività da avviare, una propria forza lavoro legata contrattualmente al medesimo affidatario. In tali circostanze è lampante che non si possa parlare di una continuazione della realtà economica facente capo all`affidante, ma bisogna evidenziare il sorgere di una totale ed autonoma gestione di un`ulteriore realtà aziendale, del tutto nuova, e non legata dalla predisposizione di mezzi o di forza lavoro di alcun genere.

Un ulteriore demarcazione della distinzione operante tra i due istituti è stata posta dal Ministero dello Sviluppo economico che in merito ad una richiesta di chiarimento della Camera di Commercio, inerente il dubbio che aleggiava in tema di forma scritta ad probationem del contratto di affidamento di reparto, asseriva, con la Risoluzione n. 103791 del 3 Maggio 2012, quanto testualmente segue:

«L`affidamento in gestione di reparto sfugge alla previsione dell’art. 2556 del c.c. che prevede l’iscrizione nel registro delle imprese “dei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda” ed impone ad essi la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Diversamente, nel caso in cui si tratti di cessione di ramo di azienda, per tale intendendo il trasferimento di un reparto commerciale ad altro soggetto che lo gestisca autonomamente anche dal punto di vista fiscale, sorge l’obbligo del rispetto dell’art. 2556 c.c. con la conseguente necessità del rispetto del requisito formale del contratto e del deposito dello stesso nel Registro delle Imprese ai fini dell’iscrizione».

Può evincersi chiaramente, da quanto appena richiamato ed esposto, che il contratto di affidamento di reparto ben si distingue dalla cessione di azienda o di ramo di essa, non essendo applicabili le disposizioni peculiari di quest`ultimo istituto.

Difatti, l`elemento di discrimine, che si rinviene dalla Risoluzione citata, pare essere la “gestione autonoma dal punto di vista fiscale”, da intendersi come gestione degli oneri tributari gravanti sul reddito generato dalle vendite commercializzate nel reparto, che sarebbe imputabile in capo all`affidatario laddove si eserciti la cessione di ramo di azienda, mentre in caso di affidamento di reparto competerebbe all`affidante.

Un ulteriore elemento di differenziazione, tra l`istituto dell`affitto di ramo di azienda e l`affidamento di reparto, è rinvenibile nella preziosa Risoluzione n. 122063 del 3 Maggio 2016 del Ministero dello Sviluppo Economico, nella quale si afferma:

«La gestione di reparto si differenzia dal subingresso per trasferimento in gestione dell’azienda in quanto, nel primo caso, l’azienda e l’autorizzazione correlata continuano a rimanere in capo al titolare mentre nel caso di sub-ingresso il subentrante deve effettuare la SCIA ai fini dell’intestazione pro tempore del titolo legittimante l’esercizio dell’attività».

Si desume, dunque, che in caso di affitto di ramo di azienda il titolare dell`esercizio economico è tenuto ad effettuare la voltura della propria autorizzazione amministrativa al soggetto subentrante, mentre nel caso di affidamento di reparto tale incombenza non è necessaria e la relativa autorizzazione resta in capo al soggetto affidante (conforme in tal senso la sentenza n. 4372/2001 del Tar Puglia sez. II).

In conclusione, la distinzione tra i due istituti è di fondamentale importanza sul piano operativo e giuridico, perché consente di non applicare al contratto di affidamento di reparto l`art. 2112 c.c., previsto invece esplicitamente dal codice civile nel caso di cessione di azienda o di parte di essa.

La non corresponsione dell`indennità per la perdita di avviamento

In dottrina si è da sempre dibattuto circa un certo accostamento ed analogia tra l`istituto dell`affidamento di reparto e la locazione ad uso non abitativo, essendo che in entrambe le casistiche si assiste ad un affidamento, di un certo spazio fisico, ad un ulteriore soggetto a titolo oneroso.

La locazione ad uso non abitativo, contenuta nella legge sull`equo canone, prevede all`art. 34 la corresponsione dell`indennità per la perdita di avviamento, difatti viene disposto che:

«In caso di cessazione del rapporto di locazione…che non sia dovuta a risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore, il conduttore ha diritto ad una indennità pari a 18 mensilità dell’ultimo canone corrisposto; per le attività alberghiere l’indennità è pari a 21 mensilità»

Nel caso di applicazione analogica della disciplina contenuta nella legge sull`equo canone al contratto di affidamento di reparto, si assisterebbe ogniqualvolta il cedente voglia interrompere il rapporto di gestione, alla forzosa dazione della somma di denaro pari a 18 mensilità dell`ultimo canone corrisposto.

Tale applicazione analogica appare, oltremodo, forzata ed inadeguata.

Innanzitutto, è la stessa legge sull`equo canone a predisporre una limitazione alla corresponsione dell`indennità per la perdita di avviamento. Siffatto limite è contemplato all`art. 35 della prefata legge, che dispone:

«Le disposizioni di cui all’articolo precedente non si applicano in caso di cessazione di rapporti di locazione relativi ad immobili utilizzati per lo svolgimento di attività che non comportino contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori nonché destinati all’esercizio di attività professionali, ad attività di carattere transitorio, ed agli immobili complementari o interni a stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio stradali o autostradali, alberghi e villaggi turistici».

L`ultima parte di disposizione del summenzionato art 35 prevede, difatti, l`esclusione dell`indennità per la perdita di avviamento laddove gli immobili in questione siano complementari o interni ad un novero di strutture dove l`utente si trovi a transitare per ulteriori finalità e non allo scopo di entrare in “contatto diretto” con l`attività commerciale. Tale novero di strutture, ricavabili dalla lettura del prefato articolo della legge sull`equo canone, non è da considerare un numerus clausus, come ribadito più volte da costante giurisprudenza.

La giurisprudenza parla in siffatti casi di “avviamento parassitario” perché teso a sfruttare la posizione assunta all`interno del luogo specifico e di transito in cui si svolge l`attività economica, e non in grado, dunque, di creare quel “vincolo diretto” con l`utente consumatore che la giurisprudenza considera necessario ai fini del ristoro economico previsto dall`indennità per l`avviamento.

Per dovere di esaustività, merita di essere richiamato l`ultimo filone giurisprudenziale, in controtendenza a quanto finora esposto, che ammette la dazione dell`indennità per la perdita di avviamento in favore degli esercizi ubicati all`interno dei centri commerciali. La Suprema Corte, con sentenza n. 18748/2016, ha affermato:

«I Centri Commerciali di dimensioni molto ampia, ove sono presenti una molteplicità di esercizi che offrono prodotti e servizi, assumono una funzione attrattiva di clientela che costituisce, a ben vedere, il risultato del richiamo operato dalle singole attività che vi hanno sede, in una sorta di sinergia reciproca. In tale situazione non è possibile distinguere un avviamento “proprio” del Centro Commerciale che non sia anche il frutto di un avviamento di ciascuna attività in esso svolta».

Come ben può evincersi, la sentenza della Suprema Corte, menziona e distingue il “Centro Commerciale” dagli “esercizi commerciali” che lo animano e popolano, che attraggono validamente clientela propria e quindi sono tutelati dal diritto alla corresponsione all`indennità per perdita di avviamento.

La sentenza tace per quanto concerne il “singolo reparto” all`interno di un esercizio commerciale, e può evincersi, con una certa sicurezza, che in siffatto casistica l`indennità per la perdita dell`avviamento non sia dovuta perché il singolo reparto è incapace ad avere un avviamento proprio. La moltitudine delle Legislazioni Regionali, difatti, suffragando quanto finora esposto, hanno previsto che il singolo reparto, affidato tramite contratto, non debba avere un`entrata propria ed autonoma, ma che utilizzi l`entrata dell`esercizio commerciale principale che circonda il reparto. A queste condizioni può parlarsi, senza timori interpretativi, di avviamento parassitario, e l`indennità deve essere esclusa in forza dell`applicazione dell`art. 35 della legge sull`equo canone.

Invero, ogni tentativo di applicazione analogica della legge sull`equo canone all`istituto dell`affidamento di reparto dovrebbe essere disatteso sul nascere.

Difatti, le fattispecie in esame ed a confronto sono estremamente diverse nelle finalità.

Innanzitutto, il reparto non è un mero spazio autonomo che viene locato ma un luogo attrezzato da intendersi come un`appendice ed articolazione funzionale dell`attività commerciale che lo circonda.

In secondo luogo, l`affidatario non può svolgere nel reparto, affidato tramite contratto, qualsiasi attività economica e di vendita, ma potrà esercitare solo ed esclusivamente quella specifica attività prefissata a pattuita dalle parti contrattuali, in forza del legame funzionale che lega le attività economiche e commerciali.

L`affidamento di reparto, dunque, deve essere considerato come qualcosa di totalmente diverso rispetto alla mera locazione di uno spazio per finalità commerciali.

Il Tar Puglia, difatti, con sentenza n. 4372/2001, ha asserito che:

«Sussiste, infatti, notevole differenza tra le due fattispecie atteso che il reparto è un “quid pluris”, rispetto allo spazio, poiché comprende e include al suo interno l’elemento soggettivo del personale e quello oggettivo della struttura di vendita ed impiantistica che deficita della mera gestione dello spazio».

Sulla base delle argomentazioni finora esposte si può desumere che, in caso di cessazione del rapporto riguardante l`affido del reparto, l`affidante non debba conferire alcunché all`affidatario a titolo di indennità per la perdita dell`avviamento.

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