LA VALUTAZIONE DELLE CONDIZIONI ECONOMICHE DEI CONIUGI NEL QUADRO DEI PROVVEDIMENTI CONCERNENTI LA PENSIONE E L’INDENNITÀ DI FINE RAPPORTO

Redazione 02/06/01
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SOMMARIO:

PREMESSA

La quota dell’indennità di fine rapporto
1 – L’art. 16 della L. 6 marzo 1987 n. 74: origine, ratio e legittimità costituzionale. 2 – La durata del matrimonio. 3 -Questioni applicative: rilevanza del momento della “maturazione” e “percezione” dell’indennità rispetto alla vicenda matrimoniale. 4 – Segue: morte del coniuge obbligato dopo il divorzio ma prima della riscossione dell’indennità. 5 – Segue: assegno liquidato una tantum ex art. art. 5, 8° comma, L. 898/70. 6 – Segue: le anticipazioni TFR percepite prima del divorzio e gli incentivi al prepensionamento. 7 – Il rito applicabile. 8 – Problemi di diritto intertemporale.

La pensione di reversibilità
1 – Attribuzione al coniuge divorziato della pensione di reversibilità: evoluzione storica dell’istituto 2 – Attribuzione della pensione in assenza di coniuge superstite: presupposti e ratio. 3 – Segue: questioni processuali. 4 – L’attribuzione di una quota della pensione di reversibilità in concorso con il coniuge superstite. 5 – Segue: La durata del rapporto quale elemento di quantificazione del diritto alla quota. 6 – La nozione di “rapporto”. 7 – Questioni processuali. 8 – Nozione di “pensione ed altri assegni”

PREMESSA:

Quella che ci accingiamo ad esplorare è una materia ad alto rischio per l’interprete.
La novella del 1987 si proponeva di realizzare un articolato strumentario di tutela al fine di realizzare, nella fase post-divorzile, un maggiore equilibrio a favore del coniuge più debole. Si tendeva infatti a <<rimuovere effetti di segno negativo e a ripristinare una situazione di uguaglianza tra i soggetti del rapporto matrimoniale nella misura in cui ciò è possibile dopo la dissoluzione del vincolo coniugale>> (cfr. Relazione al disegno di legge presentata al Senato).
Purtroppo, gli esiti dell’ambizioso progetto del legislatore sono stati in gran parte vanificati da una tecnica legislativa assai approssimativa e lacunosa, che ha gettato nello sconforto una intera generazione di interpreti e studiosi. La novella fu approvata in gran fretta, senza la necessaria limatura del testo: il risultato è che scelte ermeneutiche essenziali ai fini pratici – come l’individuazione del criterio di riparto della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge divorziato oppure l’individuazione del rito applicabile – sono affidate a complesse operazioni che si risolvono in una pluralità di esiti di segno opposto ma ugualmente attendibili sul piano del rigore interpretativo.
Non certo di aiuto per l’interprete è l’anomalia tutta italiana per la quale Corte costituzionale e Corte di cassazione si pongono in concorrenza nell’interpretare, con esiti diversi, la stessa norma.
A questa materia non sono indifferenti i diversi approcci culturali dell’interprete rispetto a fenomeni sociali quali la convivenza uxoria e la concorrenza tra coniuge divorziato e coniuge superstite. Così, in giurisprudenza non mancano decisioni che assumono che il trattamento di reversibilità ha un suo destinatario “naturale” nel coniuge superstite, mentre altre concludono per una totale parità.
Alla resa dei conti, l’assunzione di responsabilità del giudice è notevole, specie in una materia in cui, per tacer d’altro, l’eterogeneità della casistica comporta il quotidiano rischio di decisioni inique.

L’art. 16 della L. 6 marzo 1987 n. 74: origine, ratio e legittimità costituzionale

L’art. 16 della L. 16 marzo 1987 n. 74 ha introdotto nel tessuto originario della legge sul divorzio un art. 12 – bis che dispone:
1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
Per la ricostruzione degli aspetti teorico-sistematici dell’istituto e della sua ratio, può essere utile prendere le mosse da Corte Cost., 24 gennaio 1991 n. 23, in Foro It., 1991, I, 3006.
Infatti, sebbene la Corte sia stata investita della legittimità costituzionale della determinazione forfetaria della quota e, soprattutto, del riferimento alla durata legale del matrimonio, i giudici delle leggi si sono fatti carico di un’attendibile ricostruzione dell’istituto.
Diciamo subito che la Corte ha ritenuto legittima non solo e non tanto la predeterminazione forfetaria della quota di indennità da assegnare al coniuge divorziato (sull’assunto che il criterio censurato mira ad assicurare certezza e rapidità nelle definizione del contenuto del diritto), ma anche e soprattutto il riferimento, quale criterio temporale, alla durata del matrimonio e non a quella dell’effettiva convivenza.
Per quanto qui interessa, i giudici costituzionali hanno osservato che:
con la riforma della disciplina del divorzio del 1970, il legislatore del 1987 ha mirato <<a rimuovere effetti di segno negativo e a ripristinare una situazione di uguaglianza tra i soggetti del rapporto matrimoniale nella misura in cui ciò è possibile dopo la dissoluzione del vincolo coniugale>> (cfr. Relazione al disegno di legge presentata al Senato): ha cioè avuto tra i suoi obiettivi quello di dare una più ampia e sistematica tutela al soggetto economicamente più debole con l’approntamento di incisivi strumenti giuridici a garanzia di posizioni economicamente pregiudicate dagli effetti della cessazione del matrimonio.
Ecco la ratio: l’istituto in questione si inserisce in un nuovo strumentario di tutela, unitamente alla fissazione di criteri più articolati e precisi per la determinazione dell’assegno divorzile; al suo adeguamento automatico e alla più intensa tutela sul terreno esecutivo e su quello penale rispetto ai rischi di inadempienza; alla nuova disciplina del trattamento pensionistico di reversibilità ed, infine, alla attribuzione di una quota percentuale dell’indennità di liquidazione spettante al divorziato. D’altra parte, la Corte ha affermato che nel nuovo istituto convergono sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che essa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile; sia, e soprattutto, profili di carattere compensativo, in relazione al contributo personale ed economico dato dall’ex-coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune.
Si è osservato in chiave critica (De Filippis e Casaburi, Separazione e divorzio nella dottrina e nella giurisprudenza, Padova, 1998, 636 ss.) che l’attribuire rilievo prevalente alla dimensione compensativa rispetto a quella assistenziale si pone in contrasto con il fatto che i coniugi che hanno contribuito alla formazione del TFR dell’altro coniuge non possono godere della quota se non sono nelle condizioni di cui all’art. 5. Se ne è tratta la conclusione che occorre dare maggior rilievo al profilo assistenziale, quale condicio iuris sia dell’assegno divorzile sia, di conseguenza, del beneficio della quota del TFR, mentre il criterio compensativo riemerge semmai nel metodo di calcolo della quota stessa, rapportato opportunamente alla durata del matrimonio. In questa chiave, meglio si spiegherebbe come al divorziato in stato di bisogno il cui coniuge abbia già percepito l’indennità di fine rapporto spetta un assegno divorzile calcolato su un patrimonio già implementato da detta percezione, mentre al divorziato il cui coniuge non ha ancora percepito l’indennità spetta il beneficio, aggiuntivo rispetto al più ridotto assegno già fissato, della quota dell’indennità.

La durata del matrimonio

Nella sentenza citata, la Corte costituzionale ha rilevato poi che nella concreta applicazione degli istituti introdotti dalla novella, la durata del matrimonio assume un rilievo centrale: si consideri il riferimento, per l’assegno divorzile, alla <<durata del matrimonio>> (art.5); si consideri ancora che la pensione di reversibilità va ripartita tra coniuge divorziato e coniuge superstite in base all’unico criterio della durata di ciascun matrimonio (art. 9, terzo comma). Inoltre, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, il contributo dato dall’ex-coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune deve essere valutato in riferimento all’intera durata del matrimonio, in quanto esso non cessa col venir meno della convivenza e con l’instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale.
Se ne deve dedurre, sempre secondo la Corte, che analogo principio deve presiedere alla commisurazione della quota d’indennità di fine rapporto. Infatti, da un lato la cessazione della convivenza non comporta immediatamente ed automaticamente il totale venir meno della comunione materiale e spirituale di vita; dall’altro, si tratta della ripartizione di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, sicché il contributo dato dall’altro coniuge non può non avere rilievo determinante. Tale contributo non cessa con la separazione, legale o di fatto, specie nel caso in cui il coniuge più debole sia quello cui sono affidati i figli:
anzi, esso aumenta con l’accrescersi della sua responsabilità nell’opera di educazione e di assistenza e col venir meno di quel tanto di materiale collaborazione che, in relazione ad un compito cosi importante e spesso assorbente, poteva pervenirgli dall’altro coniuge (così in motivazione).
La Corte ha concluso, quindi, che un criterio fondato sulla cessazione della convivenza sarebbe non solo incoerente con l’indirizzo seguito dal legislatore in tema di misure patrimoniali e con le esigenze di certezza da esso perseguite, ma, soprattutto, inidoneo a cogliere il modo in cui prevalentemente si articolano, in concreto, il contributo personale e le esigenze di solidarietà.
Va comunque precisato che non sono mancate, in giurisprudenza, decisioni anche recenti che hanno dato rilievo alla cessazione della convivenza ai fini della quantificazione dell’indennità: App. Cagliari, 9 febbraio 1998, in Riv. giur. Sarda, 1999, 41.

Questioni applicative: rilevanza del momento della “maturazione” e “percezione” dell’indennità rispetto alla vicenda matrimoniale

L’infelice formulazione della norma apre spazi a non pochi problemi interpretativi in riferimento alla dizione “anche se maturata dopo la sentenza”.
Sembra pacifico che se il TFR è percepito in costanza di matrimonio da un coniuge in regime di comunione dei beni, l’indennità cade in comunione de residuo (art. 177, lett. c, c.c.): all’atto dello scioglimento della comunione la quota dell’indennità ancora in essere competerà a ciascun coniuge nella misura della metà (così Trib. Torino, 17 marzo 1999, in Dir. Famiglia, 1999,1226).
Se l’indennità è percepita, sempre in costanza di matrimonio, da un coniuge in regime di separazione, la medesima resta nella esclusiva titolarità del coniuge percettore: tuttavia se ne potrà tener conto ai fini dell’assegno di separazione o divorzile.
Se infine il trattamento è percepito in costanza di separazione tra i coniugi, essendo venuta meno la eventuale comunione familiare si sarebbe portati ad affermare che il trattamento stesso resti nella titolarità del percettore, con effetti analoghi ai precedenti.
In effetti, si è ritenuto costantemente nella giurisprudenza di merito che l’indennità percepita prima del divorzio si sottrae alla ripartizione: Trib. Torino, 17 marzo 1999, in Dir. Famiglia, 1999, 1226; Trib. Catania, 30 gennaio 1997, in Giur. Merito, 1998, 443; in termini di “esigibilità”, App. Milano, 18 febbraio 1997, in Gius, 1997, 1022; Tribunale Taranto, 28 dicembre 1995, in Famiglia e diritto, 1996, 440; Trib. Roma, 10 giugno 1992, in Giur. it., 1994, I, 2, 47; App. Brescia, 28 novembre 1992, in Giust. civ., 1993, I, 1074; Trib. Milano, 5 marzo 1992, in Giur. it. 1993, I, 2, 80.
In dottrina, si è osservato che tale pacifico orientamento si fonda per lo più su considerazioni di ordine sistematico, mentre la dizione letterale della norma, assai infelice, è fonte di qualche dubbio. Si è così giunti (BARBIERA, I diritti patrimoniali dei separati e dei divorziati, Bologna, 1993, 83), muovendo dal dato letterale, alla conclusione che la quota di indennità spetta in virtù di una sorta di vincolo di destinazione in favore della comunione familiare, a prescindere dal momento della maturazione.
Sempre in dottrina, si è ipotizzato che, distinguendosi concettualmente la “percezione” dalla “maturazione” secondo una sorta di criterio di cassa, l’espressione “anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza” altro non significherebbe che il fatto decisivo ai fini del sorgere del diritto alla quota è che l’indennità (maturata prima o dopo) sia stata percepita materialmente dopo la sentenza di divorzio (con attribuzione di assegno). Infatti, si è già detto che presupposto per il sorgere del diritto è proprio la condizione di coniuge divorziato titolare di assegno.
Sul punto è intervenuta la recente Cass. 7 giugno 1999 n. 5553, in Giust. civ. 1999, I, 2293.
La sentenza in questione, decidendo su un caso in cui il coniuge, convenuto in sede divorzile, aveva proposto in riconvenzione un’istanza ex art. 12 – bis L. 898/70 per un’indennità percepita e maturata in costanza del giudizio di separazione, ha ritenuto che il diritto alla quota sorge soltanto se l’indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa – in tal senso dovendosi intendere l’espressione “anche prima della sentenza di divorzio”.
Può essere opportuno sintetizzare gli argomenti della Cassazione.
I giudici di legittimità, integrando e sviluppando una precedente giurisprudenza (Cass. 27 giugno 1995, n. 7249, in Giur. it., 1996, I, 1, 626), hanno ritenuto:
a) le disposizioni di carattere patrimoniale in materia divorzile prendono tutte in considerazione la situazione esistente al momento della pronuncia di divorzio;
b) fra i coniugi separati, giudizialmente o consensualmente, nonche’ fra i coniugi prima della pronuncia di separazione, operano rispettivamente i regimi patrimoniali propri di tali istituti (v. supra): colui il quale percepisce il TFR può disporne liberamente, nel rispetto dei limiti fissati dall’ordinamento né è tenuto in alcun modo ad accantonarla in previsione di un evento futuro ed incerto, quale il divorzio;
c) se questa e’ l’intenzione del legislatore, sarebbe del tutto eccentrica, rispetto a tale intenzione, una interpretazione della norma che, in relazione ad una particolare attribuzione patrimoniale, quale quella derivante dalla maturazione dell’indennità di fine rapporto, la consideri come rilevante autonomamente per affermare il diritto del coniuge, che si e’ visto riconoscere l’assegno di cui all’art. 5, ad una quota della stessa, a prescindere dal momento in cui l’indennità sia venuta a maturare;
d) se allora si ammettesse che, una volta sopravvenuto il divorzio, sorgesse un obbligo, per chi ha ricevuto l’indennità, a prescindere dal momento in cui la stessa e’ maturata, di corrisponderne una quota all’ex coniuge, si avrebbe la conseguenza che quest’ultimo verrebbe a beneficiare due volte della stessa (prima, con il godimento della stessa e con l’attribuzione di un più elevato assegno di mantenimento, poi, con la percezione della quota legalmente fissata); si avrebbe l’ulteriore conseguenza che si imporrebbe un obbligo di accantonamento in funzione di un evento futuro ed incerto quale la pronuncia di divorzio, in contrasto con gli enunciati principi;
e) è dunque necessario prendere le mosse dalla natura costitutiva, pacificamente ammessa, della sentenza di divorzio, nonche’ dal principio enunciato dalla legge n. 74 del 1967, secondo cui, malgrado tale natura, il tribunale può disporre, a norma dell’art 4, comma 10, legge n. 898 del 1970 (nuovo testo), che l’obbligo di corrispondere l’assegno produca effetti fin dal momento della domanda. Ciò consentirebbe di interpretare il più volte citato art. 12-bis nel senso che il diritto alla quota dell’indennità di fine lavoro sorge anche se l’indennità matura prima della sentenza di divorzio, ma la maturazione deve avvenire in un momento in cui tale sentenza può produrre i suoi effetti e cioe’, al più presto, al momento della proposizione della domanda, con la conseguenza che se l’indennità e’ maturata anteriormente a tale momento la stessa non dà diritto ad alcuna quota, perche’ vengono in rilievo i diversi principi che regolano la situazione;
f) concludendo, secondo la S.C., il disposto dell’art. 12-bis della l. 1 dicembre 1970 n. 898, introdotto dall’art 16 della l. 6 marzo 1987 n. 74 deve essere interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge solo qualora l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda e quindi anche prima della sentenza di divorzio.

Segue: morte del coniuge obbligato dopo il divorzio ma prima della riscossione dell’indennità

Può avvenire che il coniuge lavoratore deceda dopo la sentenza di divorzio ma prima di percepire l’indennità.
Vi è in materia un recentissimo arresto: Cass., 20 settembre 2000, n. 12426, in CED Cassazione, RV. 540298. Secondo tale decisione, l’ex-coniuge titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5 legge cit. ha diritto, se non passato a nuove nozze, a una percentuale dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, non rilevando che la stessa maturi per morte di questi o per altra causa. V. anche, nello stesso senso, Trib. Genova 8 gennaio 1991, in Giur. merito 1992, 322..
In sostanza, si è affermato che il diritto alla quota dell’indennità, trovando il suo fondamento nella valorizzazione del contributo personale e materiale del coniuge più debole durante il matrimonio, deve necessariamente prescindere dalla circostanza accidentale della morte del coniuge obbligato.
Del resto, l’art. 9 L. 898/70 prevede, in caso di morte del coniuge, l’attribuzione al coniuge divorziato di tutta o parte della pensione di reversibilità.

Segue: assegno liquidato una tantum ex art. art. 5, 8° comma, L. 898/70

Nel caso di assegno liquidato una tantum ex art. art. 5, 8° comma, L. 898/70, sembra escluso il diritto del coniuge divorziato a percepire la quota dell’indennità.
Infatti, da un lato nella determinazione della liquidazione una tantum i coniugi dovrebbero aver fatto confluire ogni valutazione sui rispettivi patrimoni; dall’altro, è esclusa, per espresso divieto, ogni successiva domanda di contenuto economico.

Segue: le anticipazioni TFR percepite prima del divorzio e gli incentivi al prepensionamento

In caso di anticipazioni ex art. 2120 c.c. di parte del TFR, si pone il problema se le stesse vadano conteggiate ai fini della quota del 40%.
Si è ritenuto che la questione si pone in termini analoghi alla percezione integrale dell’indennità prima del divorzio. Infatti, le somme anticipate sono entrate a far parte del patrimonio del lavoratore ed, eventualmente, della comunione familiare. Se ne potrà tener conto ai fini dell’assegno divorzile, se ancora disponibile nel patrimonio dell’obbligato al tempo del divorzio. In tal senso anche Cass. 27 giugno 1995, n. 7249, cit..
Quanto agli incentivi al prepensionamento, si è affermato (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294, in Ced Cassazione, RV. 503744) che la quota dell’indennità riguarda unicamente quell’indennità (comunque denominata) che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, e’ determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; di conseguenza, non spetta al coniuge divorziato una parte di altri eventuali importi erogati, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro dell’ex coniuge, ma ad altro titolo.

Il rito applicabile

Il legislatore non si è preoccupato di stabilire quale sia il rito applicabile alla domanda ex art. 12 – bis L. 898/70.
La mancanza di un espresso richiamo al rito camerale ha indotto a ritenere che sia necessario il rito ordinario di cognizione: cfr. Trib. Roma, 18 maggio 1994, in CED cassazione, PD.940212, che ha deciso un caso in cui l’attrice aveva chiesto con ricorso in sede camerale l’attribuzione di quota dell’indennità di fine rapporto ex art. 12 bis della Legge n. 898 del 1970 ed il tribunale ha disposto la conversione del rito. Secondo i giudici romani:
La scelta del rito non può riconnettersi esclusivamente alla valutazione da parte del giudice circa la maggiore o minore funzionalità dello stesso rispetto alle esigenze da realizzare con il processo, giacche’ tale scelta e’ di esclusiva competenza del legislatore e non e’ sindacabile dal giudice neppure sotto il profilo dell’aderenza alla normativa costituzionale. Le questioni di rito non possano tradursi nel vigente ordinamento processuale in motivo di inammissibilità della domanda, dovendosi applicare, ove non siano ravvisabili ulteriori situazioni ostative, il consueto principio del mutamento del rito da parte del giudice investito della controversia, di cui costituisce espressione anche la recente disposizione di cui al nuovo testo dell’art. 40 cod. proc. civ.
E’ però prevalsa tra i giudici di merito la tesi che individua in quello camerale il rito applicabile a tutto le controversie successive al divorzio, per le quali il legislatore ha inteso privilegiare la snellezza e la velocità del procedimento, anche con riguardo alla delicatezza delle questioni. In tali termini, App. Cagliari, 9 febbraio 1998, cit.; Trib. Catania, 30 gennaio 1997, cit.; Tribunale Genova 4 febbraio 1991, cit..
Ad avviso dello scrivente, tale interpretazione presenta degli indubbi vantaggi pratici, anche se non sembra affidarsi ad argomentazioni processualmente rigorose.
Altra questione è se, come di frequente avviene, specie in riconvenzione, la domanda di quota TFR possa essere introdotta nel giudizio di divorzio.
Secondo Trib. Bari, 7 novembre 2000, inedita, la domanda sarebbe inammissibile. Infatti:
…le uniche domande di contenuto patrimoniale consentite nel giudizio divorzile sono solo quelle di cui agli artt. 5 – 6 – 8 L.Div., le quali, non a caso, sono strettamente attinenti all’oggetto del giudizio, poiché consequenziali alle statuizioni ivi emanande in materia di rapporti personali tra i coniugi, e fra questi e l’eventuale prole, ed aventi lo scopo di consentire all’originario consorzio familiare, pur nel momento della definitiva crisi, di porre le basi per il futuro sviluppo psico-socio-affettivo della persona umana e per il perdurante soddisfacimento dei suoi bisogni più elementari, sia morali che materiali, in conformità ai principi di cui agli artt. 2, 29, 30 e 31 della Costituzione. Trattasi di tipico giudizio sullo “status personale” che coinvolge la delibazione sui presupposti dello scioglimento del vincolo e sulle pronunzie accessorie in tema di affidamento dei figli e su quelle connesse in tema di assegnazione della casa coniugale, diritto di visita e ripartizione degli oneri di mantenimento. Non v’è spazio per contenzioso di altro genere.
Dopo l’intervento di Cass. 7 giugno 1999 n. 5553, cit., la questione, ad avviso dello scrivente, si pone nei seguenti sintetici termini:
a) la proposizione, negli atti introduttivi, di una domanda principale o riconvenzionale per la quota TFR è ormai poco più che un caso di scuola, non potendosi invocare quote di TFR maturati anteriormente al ricorso;
b) certamente più realistico è il caso in cui il TFR maturi nel corso del giudizio: in questo caso si potrebbe o accedere alla tesi del Tribunale di Bari circa l’oggetto vincolato del giudizio di divorzio oppure affermare che la domanda è inammissibile vuoi per difetto di attualità del suo presupposto rappresentato dall’assegno divorzile vuoi perché trattasi di domanda nuova avanzata in corso di giudizio.

Problemi di diritto intertemporale

In proposito, sembra opportuno distinguere tra il caso in cui l’indennità sia maturata prima dell’entrata in vigore della novella e quello in cui l’indennità stessa, sebbene il divorzio sia stato dichiarato in precedenza, sia maturata successivamente.
Nel primo caso, sembra trovare spazio la nota teoria del fatto compiuto: la percezione dell’indennità già avvenuta prima della novella rappresenta un factum praeteritum, le cui conseguenze non possono più essere travolte.
Nel secondo caso, nulla sembra opporsi all’applicabilità della norma, visto che la maturazione del TFR, fattispecie generatrice del nuovo diritto, è sopravvenuta alla novella.
In giurisprudenza, cfr. da ultima Cass. 28 aprile 1998, n. 4327, in Mass. Giust. civ. 1998, 895. V. anche Cass. 26 giugno 1997, n. 5721, ivi, 1997, 1065; Cass., 18 marzo 1996, n. 2273, in Giur. it. 1996,I, 1, 1340; Cass. 29 maggio 1993, n. 6047, in Dir. famiglia 1994, 853; Trib. Milano, 5 marzo 1992, in Giur. it. 1993,I,2, 80.

La pensione di reversibilità
Attribuzione al coniuge divorziato della pensione di reversibilità: evoluzione storica dell’istituto

L’originario art. 9, primo comma, secondo periodo della L. 898/70 prevedeva che
In caso di morte dell’obbligato, il tribunale può disporre che una quota della pensione o di altri assegni spettanti al coniuge superstite sia attribuita al coniuge o ai coniugi rispetto ai quali sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentite le parti ed il pubblico ministero.
La norma, come è evidente, prevedeva come condizione necessaria il passaggio a nuove nozze dell’obbligato e faceva sorgere notevoli dubbi di costituzionalità a causa della palese disparità di trattamento tra il caso in cui il coniuge obbligato si fosse risposato ed il caso contrario.
L’art. 2 L. 1 agosto 1978 n. 346 riformò una prima volta l’istituto, contemplando entrambi i casi. Il divorziato poteva così pretendere una quota della pensione di reversibilità del coniuge defunto, previa valutazione discrezionale del giudice da attuarsi in un’ottica prevalentemente assistenziale. Tale attribuzione era intesa dalla giurisprudenza “come diritto non gia alla pensione di riversibilità, ma come diritto autonomo, di natura non previdenziale, che partecipa della natura propria dell’assegno di divorzio”, come tale non necessariamente legato ai presupposti tipici del trattamento di riversibilità. Si riteneva allora che, ove fosse sopravvenuto uno stato di bisogno, l’attribuzione potesse essere chiesta anche dall’ex coniuge che non fosse gia beneficiario di assegno di divorzio a seguito di provvedimento giurisdizionale.
L’art. 13 L. 6 marzo 1987 n. 74 conferì all’istituto il suo assetto attuale:
2. In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza. 3. Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze (2° e terzo comma dell’attuale art. 9 come novellato).

Attribuzione della pensione in assenza di coniuge superstite: presupposti e ratio
Anche in questa materia, come in quella della quota TFR, appare essenziale la corretta individuazione della ratio dell’istituto: operazione ermeneutica che condiziona in modo decisivo anche l’esatta individuazione dei presupposti di operatività dell’istituto.
Ebbene, la legge impone tre condizioni: a) l’ex coniuge non deve essere passato a nuove nozze; b) il medesimo deve essere titolare di assegno ex art. 5; c) il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico deve essere anteriore alla sentenza.
Il presupposto che ha suscitato i maggiori contrasti interpretativi è quello sub b).
In astratto, appaiono praticabili almeno due soluzioni: secondo una tesi più estensiva, è sufficiente la condizione teorica per essere titolare di assegno al momento del divorzio (Cass. 10 settembre 1990 n. 9309, in Giust. civ. 1990, I,2253) o anche successivamente; secondo una tesi più restrittiva, la titolarità di assegno deve essere attuale e concreta, in quanto prevista da un provvedimento giudiziario. Resterebbe esclusa, inoltre, qualsiasi contribuzione fondata su private convenzioni (cfr. la recentissima Cass. sez. lav. 27 novembre 2000 n. 15242, in Ced Cassazione RV. 542187), così come l’ipotesi di assegno una tantum (cfr. App. Genova, 1 febbraio 1995, in Informazione previd. 1995, 527.).
La giurisprudenza di legittimità e di merito sembra ormai orientata in prevalenza verso quest’ultima soluzione, con l’avallo anche della Corte Costituzionale. Quest’ultima, pronunciandosi sulla costituzionalità della norma, ha rilevato che non costituisce violazione dell’art. 3 cost. l’aver condizionato il diritto alla pensione di riversibilità della moglie divorziata alla titolarità dell’assegno attribuito giudizialmente tra i coniugi (Corte Cost. 7 luglio 1988 n. 777, in Foro it. 1988, I,3515; 17 marzo 1995, n. 87, in Dir. famiglia 1996, 13.
Le conclusioni cui a suo tempo è pervenuto il giudice delle leggi sembrano muovere proprio dalla individuazione di una modifica, sostanziale e di ratio, tra l’istituto precedentemente disciplinato dalla novella del 1978 e quello introdotto nel 1987.
Analizzando la motivazione della prima decisione, si può agevolmente rilevare che il giudice a quo aveva ravvisato una violazione dell’art. 3 Cost. assumendo come dato di comparazione il trattamento dell’ex coniuge non titolare di assegno divorzile in base al testo precedente della norma.
Invece, la Corte muove dalla considerazione che, nel regime abrogato, occorreva qualificare l’attribuzione della pensione <come diritto non già alla pensione di riversibilità, ma come diritto autonomo, di natura non previdenziale, che partecipa della natura propria dell’assegno di divorzio>, come tale non necessariamente legato ai presupposti tipici del trattamento di riversibilità. Invece, il nuovo testo dell’art. 9, secondo comma, introdotto dalla legge n. 74 del 1987, ha trasformato l’assegno di mantenimento all’ex coniuge superstite in un vero e proprio diritto alla pensione di riversibilità, operando nel quadro di una limitata ultrattività, sul piano dei rapporti patrimoniali, del matrimonio sciolto per divorzio. Ne consegue, sempre secondo la Corte, che l’attribuzione patrimoniale al divorziato:
a) ha acquistato carattere di automaticità e non è più subordinata alla condizione di uno stato di bisogno effettivo, mentre prima era rimessa nell’an e nel quantum alla discrezionalità del tribunale;
b) viene assoggettata alla condizione della pregressa fruizione indiretta, mediante l’assegno di divorzio, della pensione di cui l’ex coniuge defunto era titolare in base a un rapporto sorto anteriormente alla sentenza di divorzio.
Secondo i giudici costituzionali da tale condizione non si può prescindere, posto che carattere essenziale del trattamento di riversibilità è quello di <realizzare una garanzia di continuità del sostentamento al superstite> (cfr. Corte Cost. n. 7 del 1980 e n. 286 del 1987).
Si tratta allora di un nuovo istituto, diverso dai precedenti, che appare funzionale, tra l’altro, all’esigenza di eliminare le occasioni di litigiosità che produceva la norma abrogata.
Quest’ultima norma, pertanto, e l’interpretazione che la giurisprudenza ne aveva dato, non possono essere assunte come termine di comparazione per valutare la razionalità della diversità di trattamento dell’ex coniuge superstite a seconda che sia o no titolare dell’assegno di divorzio. Così, l’esclusione del diritto alla pensione di riversibilità, quando l’ex coniuge superstite non sia concretamente titolare di assegno ai sensi dell’art. 5 trova un fondamento razionale che la mette al riparo da censure dal punto di vista del principio di eguaglianza.
In questa direzione si è poi mossa anche Cass. sez. un., 25 maggio 1991 n. 5939, in Giust. civ. 1991, I,1981, sia pure al fine di risolvere una questione di diritto intertemporale: indubitabile, per i giudici di legittimità, è il mutamento dello stesso fatto generatore del diritto tra disciplina abrogata e disciplina vigente.
Si e’ trasformata la precedente aspettativa avente ad oggetto un assegno pensionistico che il giudice doveva determinare con provvedimento costitutivo in un vero diritto alla pensione di riversibilità, spettante “ope legis” quando ricorrono determinate condizioni, alcune delle quali diverse rispetto a quelle che nel sistema precedente il giudice doveva tenere presenti. Il fatto generatore del diritto al trattamento pensionistico (che per di più, come si e’ detto, non era ancora una vera posizione previdenziale, ma un assegno avente natura sostanziale di pensione, assimilabile, per la funzione svolta, ad un assegno di divorzio “post mortem”, a carico degli enti previdenziali) era nel precedente sistema la sentenza costitutiva del giudice che, in presenza di determinati requisiti e interponendo il proprio giudizio discrezionale, poteva concedere o non concedere l’assegno pensionistico e, nel caso positivo stabilirne l’ammontare, anche in rapporto alla posizione previdenziale del coniuge superstite, se esistente. Nel sistema introdotto dalla legge 6.3.1987 n. 74, invece, titolo costitutivo e’ direttamente la legge (e, se fosse necessario l’intervento del giudice si tratterebbe di pronunzia meramente dichiarativa), nel concorso di determinati requisiti la cui esistenza non richiede alcuna valutazione del giudice. E ciò in quanto, trattandosi ormai di vera pensione di riversibilità, la morte del coniuge assicurato e’ direttamente il fatto produttore del diritto a pensione del beneficiario e per ciò stesso fatto costitutivo nuovo (così in motivazione).
Successivamente, è intervenuta sulla questione Cass., sez. un., 14 dicembre 1998, n. 12540, in Mass. Giust. civ. 1998,2576, la quale ha ribadito, sia pure a fini processuali, l’orientamento di cui sopra.
Si veda tuttavia la recente Cass., sez. lav., 17 gennaio 2000, n. 457, in Ced Cassazione, RV. 532907, secondo cui l’attribuzione e’ consentita indipendentemente dal riconoscimento giudiziale, dovendosi interpretare l’espressione “sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5” come riferita alla titolarità “in astratto”. La presenza di un simile provvedimento rileva, infatti, esclusivamente al fine dell’attribuzione “ope legis” del trattamento previdenziale, mentre la sua assenza non ne esclude l’attribuzione “ope iudicis” ove sia stato accertato che la mancanza di mezzi adeguati, quale presupposto per il riconoscimento dell’assegno, si era comunque verificata prima della morte dell’assicurato o pensionato.

Segue: questioni processuali

Non vi è dubbio che il mutamento di disciplina operato con la novella del 1987 comporta radicali conseguenze anche sul piano processuale.
Infatti, il coniuge divorziato non ha affatto bisogno di una pronuncia giurisdizionale, ma può rivolgersi direttamente all’autorità amministrativa competente. Solo ove sorgano controversie con tale autorità sul piano dell’an debeatur o sul piano quantitativo, sorge la necessità di una pronuncia giurisdizionale che dirima il contrasto.
In questo caso, come bene ha tratteggiato la citata Cass., sez. un., 14 dicembre 1998, n. 12540, le liti sono devolute agli organi giurisdizionali ai quali e’ istituzionalmente attribuita la cognizione delle controversie in materia di trattamenti previdenziali:
– in via generale, l’Autorità giudiziaria ordinaria, con la competenza del giudice del lavoro, l’assoggettamento al rito del processo del lavoro e la legittimazione passiva dell’istituto previdenziale onerato del trattamento pensionistico;
– la Corte dei conti, allorche’ la pensione sia a carico dello Stato (cfr. Cass 20 marzo 1999, n. 2593 in Mass. Giust. civ. 1999, 623).

L’attribuzione di una quota della pensione di reversibilità in concorso con il coniuge superstite

Sotto il profilo dell’evoluzione normativa e delle differenze sostanziali tra la precedente normativa e quella introdotta nel 1987, si è già detto a proposito dell’attribuzione della pensione in assenza di coniuge superstite.
E’ forse il caso di aggiungere che, nel regime previgente, in caso di concorso, il coniuge divorziato era una sorta di creditore distrattario di una somma che di diritto spettava al coniuge superstite, sempre e soltanto in un’ottica assistenziale. Oggi, il medesimo è titolare di un diritto proprio, di natura esclusivamente previdenziale, parificabile a quello del coniuge superstite.
Sotto quest’ultimo profilo, si può affermare che dottrina e giurisprudenza sembrano concordare sul fatto che entrambi gli aventi diritto sono titolari di una posizione che diverge solo nei possibili esiti quantitativi: per entrambi si tratta di un diritto di natura previdenziale, né il coniuge divorziato appare discriminabile per solo fatto di essere… divorziato. La durata del rapporto funge così da discrimine puramente quantitativo.
Tuttavia, è bene dire subito che non mancano, specie nella giurisprudenza di merito, pronunce nelle quali emerge una concezione del coniuge supersite quale destinatario naturale della pensione (cfr. Trib. Catania 14 luglio 1990, in Dir. Fam., 1991, 634, e 18 gennaio 1993, in Foro It., 1994, I, 1569).
Anche in questo caso il giudice non ha alcun potere discrezionale sul piano dell’an debeautur.
Non così sul piano del quantum: qui vengono al pettine tutti i nodi di una formulazione normativa piuttosto approssimativa.

Segue: La durata del rapporto quale elemento di quantificazione del diritto

Nei primi anni di applicazione della normativa, emersero tre orientamenti: a) quello “matematico”, fondato sull’estensione temporale dei matrimoni del coniuge superstite e di quello divorziato (Cass. 5 luglio 1990 n. 7079 e 5 febbraio 1997 n. 1086); criterio ricavato del dato testuale e dalla ratio legis (eliminazione della litigiosità connessa alla precedente articolazione normativa); b) quello per cui la durata del rapporto costituisce l’elemento cardine di quantificazione, il quale, in caso di necessità, può essere emendato e corretto (ma solo in termini riduttivi) attraverso l’elastica valorizzazione di altri elementi di giudizio, quali quelli utilizzabili ai fini della determinazione della misura dell’assegno divorzile (Cass. 9 dicembre 1992 n. 13041); c) quello per cui la durata del matrimonio, pur costituendo il parametro legale, non costituisce un elemento esclusivo ed automatico di quantificazione, dovendosi prendere in considerazione anche gli altri elementi di riferimento utilizzabili nella liquidazione dell’assegno divorzile, quali, in particolare, quello delle condizioni economiche delle parti (cfr. Cass. 20 febbraio 1991 n. 1813, 22 aprile 1992 n. 4897, 27 maggio 1995 n. 5910, 27 giugno 1995 n. 7243, 13 maggio 1996 n. 7980, 22 aprile 1997 n. 3484).
Il fondamento di quest’ultimo (e forse prevalente) criterio andava ricercato sostanzialmente in una pretesa concezione assistenziale, intesa nel senso della continuazione dell’assegno divorzile: il coniuge divorziato non concorreva con il coniuge superstite in posizione di parità, ma era titolare del diritto a partecipare ad una quota della pensione attribuita a quest’ultimo. Si aggiungeva anche una considerazione sistematica fondata sul raffronto con l’istituto di cui all’art. 12 bis (introdotto anch’esso dalla L. n.74 del 1987): la norma prevede in modo espresso una ripartizione in base ad una percentuale determinata riferita agli anni in cui il rapporto di lavoro e’ coinciso col matrimonio, sicché, argomentando a contrariis, si dovrebbe escludere analoga rigidità con riferimento alla disciplina di cui al terzo comma dell’art. 9.
Gli effetti pratici dell’applicazione di quest’ultimo criterio, che presupponeva una ripartizione incidente non sul trattamento pensionistico ma sul diritto del coniuge superstite nei confronti del coniuge divorziato, comportavano che l’elemento della durata del rapporto non si sostituiva ma si aggiungeva agli altri elementi di cui all’art. 5 comma 6, sicche’: a) costituiva soltanto uno degli elementi dei quali il giudice doveva tenere conto; b) diventava legittima una ripartizione della pensione che non solo non rispecchiasse la proporzione tra la durata dei rapporti matrimoniali, ma, addirittura, attribuisse una quota maggiore al coniuge il cui rapporto matrimoniale con il coniuge defunto avesse avuto una durata minore.
La nota decisione delle Sezioni unite n. 159 del 1998 si propose di dirimere il contrasto.
Vale la pena di ripercorrere in sintesi gli argomenti della decisione.
I giudici di legittimità muovevano dal presupposto che la novella del 1987 avesse fissato quattro principi fondamentali: a) la natura previdenziale del trattamento spettante al coniuge divorziato e la sottrazione dell’attribuzione del trattamento di reversibilità alla discrezionalità del giudice; b) nessuna subordinazione dell’attribuzione della pensione allo stato di bisogno del coniuge divorziato ed alla sua vivenza a carico del pensionato; c) assoluto sganciamento della concreta attribuzione del trattamento e della sua misura da qualsiasi collegamento con i criteri che sovrintendono al riconoscimento ed alla quantificazione dell’assegno divorzile d) necessaria “anteriorità” alla sentenza del divorzio del “rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico”.
Le SS.UU. aggiungevano ancora che:
il diritto al trattamento sorge nel coniuge divorziato in via autonoma ed automatica nel momento della morte del pensionato, ma in forza di una aspettativa maturata, sempre in via autonoma e definitiva, nel corso della vita matrimoniale, sicche’ e’ insuscettibile d’essere vanificato dal successivo decorso degli eventi relativi al rapporto matrimoniale; e che, correlativamente, la disposizione in esame attribuisce al coniuge divorziato un diritto che non e’ la continuazione, mutato il debito avanti la sua morte; ma e’ un autonomo diritto – di natura squisitamente previdenziale – alla pensione di reversibilità collegato automaticamente alla fattispecie legale, di modo che prescinde da ogni pronunzia giurisdizionale che, ove necessaria, ha natura meramente dichiarativa.
Secondo le SS.UU., ne discendeva l’erroneità del richiamo alle regole e dei principi previgenti e la non condivisibilità di uno degli argomenti (quello appunto della continuità tra i due regimi) sul quale si fondava l’orientamento prevalente.
Di conseguenza, il disposto del terzo comma dell’art. 9 non poteva che essere ricostruito sulla base delle stesse conclusioni cui si preveniva per il secondo comma, essendo le due disposizioni in rapporto di complementarietà: il secondo detta le regole cardine ed i principi generali essenziali della disciplina della materia, il terzo si limita a fissare le disposizioni specifiche strumentali all’applicazione della disciplina generale all’ipotesi particolare della sopravvivenza, all’ex coniuge, di due o più coniugi. Se si assume, come sembra certo, che nell’ipotesi di assenza del coniuge superstite il trattamento attribuito al coniuge divorziato ha natura previdenziale, ne consegue necessariamente che il trattamento attribuito allo stesso coniuge nel terzo comma non può che avere identica natura. In sostanza, il legislatore ha allargato al coniuge divorziato l’ambito della categoria dei sopravvissuti al pensionato aventi diritto al trattamento di reversibilità. Non vi è quindi un destinatario naturale della pensione, tanto meno individuabile nel coniuge superstite.
In conclusione, non possono essere utilizzati criteri diversi da quello della “durata del rapporto”, ossia del semplice dato numerico rappresentato dalla proporzione tra le estensioni temporali dei rapporti (matrimoniali) degli stessi coniugi con l’ex coniuge. Secondo la Corte risultava così soddisfatto l’intento di introdurre una disciplina idonea ad eliminare le occasioni di litigiosità sia le disparità di trattamento originate dalla carenza di una regolamentazione precisa.
Le critiche all’orientamento dettato dalle Sezioni unite (confermato dalle successive decisioni (cfr. Cass. 9 giugno 1998, n. 5662 in Fam. e Dir. 1998) non furono di poco conto.
Il risultato ottenuto dalla Cassazione era certamente funzionale al raggiungimento di un buon grado di certezza operativa. Tuttavia, finiva per realizzare anche situazioni di iniquità, talvolta clamorose, concretandosi in una sorta di rimedio peggiore del male.
Infatti:
a) ridotti i termini del problema ad un semplice calcolo aritmetico, non si vedevano l’utilità e l’economicità di una pronuncia giurisdizionale, la quale doveva limitarsi a calcolare ciò che agevolmente avrebbe potuto fare una qualsiasi autorità amministrativa di media efficienza; al più, l’intervento del giudice sarebbe stato opportuno in caso di errore di calcolo o di semplice rifiuto;
b) il concetto di durata legale del rapporto ha un senso, nel nostro ordinamento, solo dall’istituzione del divorzio nel 1970: in passato non sono mancati casi di matrimoni la cui convivenza è durata pochi anni ma che sono stati sciolti formalmente solo dopo molti anni, grazie all’istituzione del divorzio. Si venivano così in concreto a favorire situazioni che avrebbero meritato un grado di tutela ben minore;
c) la giustificazione della norma risiede, tra l’altro, nel fatto che è durante il ménage familiare che entrambi i coniugi, nella loro comunione di vita, sostengono in posizione di parità il peso dei prelievi contributivi. E’ vero che la Cassazione ha fatto rilevare che la separazione non incide più di tanto sui profili solidaristici tra i coniugi e che comunque il sistema vigente si fonda sul favor matrimonii; ma è anche vero che comunque la separazione affievolisce in qualche modo tali doveri, mentre l’assegno di mantenimento assorbe gran parte dei doveri patrimoniali dell’un coniuge verso l’altro;
d) le Sezioni unite, soprattutto, non risolvevano affatto il nodo essenziale del problema: il persistente carattere ibrido dell’istituto, ben testimoniato dalla necessità, quale indefettibile presupposto, della titolarità di assegno divorzile; si è già detto che la Corte Costituzionale (Corte Cost. 7 luglio 1988 n. 777, cit.), affrontando il problema all’indomani dell’entrata in vigore della novella, non avesse potuto fare a meno di riconoscere la persistenza di una componente assistenziale.
La sentenza della Corte costituzionale n. 419 del 4 novembre 1999, in Foro It., 2000, I, 1770, ha inaspettatamente riaperto la questione con una sentenza interpretativa di rigetto.
In sintesi:
a) il giudice a quo (la Corte d’appello di Trento) riteneva che l’art. 9, comma 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898, prevedendo che la ripartizione dell’ammontare della pensione tra il coniuge e l’ex coniuge, se entrambi vi abbiano diritto, avvenga «tenendo conto della durata del rapporto», imponesse di effettuare tale ripartizione esclusivamente secondo il criterio matematico della proporzione fra la estensione temporale dei rispettivi rapporti matrimoniali, senza che il giudice chiamato a determinare le quote di ripartizione della pensione potesse utilizzare alcun altro criterio o correttivo; così interpretata, la disposizione denunciata avrebbe costituito violazione dei princìpi di razionalità e di solidarietà sociale (artt. 3 e 38 Cost.);
b) la norma prevede un diritto alla pensione di reversibilità, che non è inerente alla semplice qualità di ex coniuge, ma che ha uno dei suoi necessari elementi genetici nella titolarità attuale dell’assegno, la cui attribuzione ha trovato fondamento nell’esigenza di assicurare allo stesso ex coniuge mezzi adeguati (art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970);
c) in caso di concorso di più aventi diritto, la ripartizione del suo ammontare tra di essi non può avvenire escludendo il possibile correttivo rappresentato delle finalità e dai particolari requisiti che, in questo caso, sono alla base del diritto alla reversibilità;
d) una volta attribuito rilievo, quale condizione per aver titolo alla pensione di reversibilità, alla titolarità dell’assegno, sarebbe incoerente e non risponderebbe al canone della ragionevolezza, né, per altro verso, alla duplice finalità solidaristica (n.d.r.: previdenziale ed assistenziale) propria di tale trattamento pensionistico, la esclusione della possibilità di attribuire un qualsiasi rilievo alle ragioni di esso perché il tribunale ne possa tenere in qualche modo conto dovendo stabilire la ripartizione della pensione di reversibilità;
e) l’esclusione di qualsiasi correttivo nell’applicazione del criterio matematico di ripartizione consente che il coniuge superstite potrebbe conseguire una quota di pensione del tutto inadeguata alle più elementari esigenze di vita, mentre l’ex coniuge potrebbe conseguire una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto;
f) secondo il dato testuale, la ripartizione della pensione di reversibilità deve essere disposta «tenendo conto» della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali (art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970): quindi, secondo l’ineludibile significato letterale, il giudice deve “tenere conto” dell’elemento temporale, la cui valutazione non può in nessun caso mancare; anzi a tale elemento può essere riconosciuto valore preponderante e il più delle volte decisivo, ma non sino a divenire esclusivo nell’apprezzamento del giudice, la cui valutazione non si riduce ad un mero calcolo aritmetico. Una conferma del significato relativo della espressione «tenendo conto» si trova nel sistema della stessa legge, che altre volte usa la medesima espressione per riferirsi a circostanze da considerare quali elementi rimessi alla ponderazione del giudice; e ciò proprio per definire i rapporti patrimoniali derivanti dalla pronuncia di divorzio (cfr. art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970);
g) la diversa interpretazione non giustificherebbe, tra l’altro, la scelta del legislatore di investire il tribunale per una statuizione priva di ogni elemento valutativo;
h) quando il legislatore ha inteso stabilire in modo rigido e automatico i criteri per la determinazione di prestazioni patrimoniali dovute all’ex coniuge, ha usato una diversa espressione testuale, direttamente significativa della percentuale di ripartizione e del periodo da considerare (indennità di fine rapporto);
i) in definitiva, l’interpretazione prospettata appare preferibile in quanto conserva all’ordinamento una norma nel significato, che la disposizione può esprimere, compatibile con la Costituzione.
In sostanza, la Corte condivide l’orientamento secondo cui il coniuge divorziato ed il superstite sarebbero titolari del medesimo diritto, con una reciproca limitazione quantitativa. Tuttavia, ed è questo il dato essenziale, non si può eludere la considerazione che uno degli elementi genetici del diritto è la titolarità dell’assegno divorzile: di conseguenza, anche sulla base di argomenti testuali, conclude per la natura mista dell’istituto e per la necessaria considerazione, sia pure a fini meramente correttivi, delle ragioni poste a base della concessione dell’assegno.
Così, torniamo al criterio della “correzione”, attraverso la valutazione delle condizioni previste per l’assegno divorzile, del criterio-base rappresentato dalla proporzione matematica dei rapporti.
La dottrina (cfr. QUADRI, nota a Corte Cost. 4 novembre 1999, cit.) ha da un lato salutato con favore la decisione considerandone del tutto fondati gli argomenti. Tuttavia, non ha mancato di notare l’anomalia di un sistema in cui la suprema istanza nomofilattica (le Sezioni Unite della Cassazione) ed il giudice delle leggi appaiono in concorrenza nello stabilire quale è la più corretta interpretazione della norma.
Sul piano sostanziale, si può dire che la vicenda commentata dimostra che tutta la problematica in oggetto, nell’ambiguità della norma, si riduce a due possibili scelte, ugualmente attendibili: o un orientamento che elimina gli spazi discrezionali del giudice e crea maggiore certezza, pagando il prezzo di eventuali risultati iniqui; oppure un orientamento che lascia al giudice una valutazione di discrezionalità tale da adattare elasticamente il proprio giudizio in funzione della casistica concreta, aprendo però la strada ad un contenzioso praticamente infinito.
La giurisprudenza sembra incline a farsi carico della seconda opzione: cfr. a titolo di esempio, Trib. Bari, 14 dicembre 2000, inedita, che ha deciso un caso in cui il primo matrimonio era durato ventiquattro anni ed il secondo… un mese (cfr. allegato). cfr. anche Cass. 14 giugno 2000 n. 8113, in Ced Cassazione, RV. 537591, secondo cui Ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e quello divorziato, il giudice deve necessariamente tener conto del preponderante elemento temporale della durata legale dei rispettivi rapporti matrimoniali con il coniuge deceduto, cioe’ del dato numerico rappresentato dalla rigida proporzione tra i relativi periodi di tali rapporti, senza che, tuttavia, l’applicazione di siffatto criterio implichi la mancata considerazione, in funzione di mera emenda o correzione del risultato conseguito, vuoi degli altri criteri di riferimento utilizzabili nella liquidazione dell’assegno di divorzio, afferenti alle condizioni economiche delle parti interessate ed alle finalità assistenziali di quest’ultimo, vuoi dell’ammontare del predetto assegno goduto dall’ex coniuge al momento della morte del titolare diretto della pensione. (conf.: Cass. 2920/2000).

La nozione di rapporto

Altra questione sulla quale la giurisprudenza si era divisa era quella della nozione di “rapporto” matrimoniale.
L’orientamento prevalente guardava alla durata legale del rapporto matrimoniale e non al periodo della effettiva convivenza tra i coniugi (cfr. Cass. 19 gennaio 1990 n. 305, 17 luglio 1992 n. 8687, 9 dicembre 1992 n. 13041 e 13 maggio 1996 n. 7980). Secondo un orientamento minoritario, si doveva far riferimento alla durata effettiva della comunione materiale e spirituale tra il coniuge divorziato e quello superstite e, più precisamente, alla durata del periodo legale del matrimonio tra i detti coniugi, depurata dal periodo di convivenza more uxorio dell’ex coniuge con il coniuge superstite (cfr. Cass. 27 maggio 1995 n. 5920).
Ebbene, secondo la già citata decisione delle SS.UU. n. 159/98, la durata del rapporto andava identificata nella durata legale del matrimonio, né poteva assumere rilevanza, in pregiudizio del coniuge divorziato, l’eventuale cessazione della convivenza matrimoniale prima della pronuncia di divorzio; o, in favore di quello superstite, l’eventuale periodo di convivenza more uxorio con l’ex coniuge che abbia preceduto la stipulazione del nuovo matrimonio.
Premessa la intrinseca ed inscindibile contiguità tra i regimi dettati, rispettivamente, per l’ipotesi in cui il coniuge divorziato non concorra col coniuge superstite e l’ipotesi del concorso, ed il regime relativo alla seconda ipotesi, di modo che quest’ultimo regime ripete le regole fondamentali dettate per l’altro la Corte di legittimità rilevava che:
a) la cessazione della convivenza, anche se a seguito di separazione legale, comporta soltanto una fase di sospensione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e non anche la sua radicale caducazione, che si verifica, con effetto ex nunc, unicamente con la sentenza di divorzio; di conseguenza, il generico riferimento a quel rapporto contenuto nel terzo comma dell’art. 9 non può essere limitato al circoscritto periodo del normale svolgimento del rapporto matrimoniale, escludendo così periodi che costituiscono pur sempre componenti di quel rapporto;
b) vanno condivisi i rilievi – in quanto coerenti ai principi fin qui affermati – con i quali la Corte costituzionale ha giustificato, nella citata sentenza n. 24 gennaio 1991 n. 23, la declaratoria di infondatezza della eccezione di incostituzionalità del criterio di ripartizione dell’indennità di fine rapporto dettato nell’art. 12 bis della L. n. 898 del 1970, nella parte in cui non lo rapporta alla sola durata della convivenza; in sostanza, la Corte Costituzionale rilevava che era del tutto razionale che il legislatore avesse preferito ancorarsi ad un dato certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza;
c) è inammissibile la valorizzazione di un rapporto di fatto extra matrimoniale:
il trattamento di reversibilità per il coniuge superstite ha il suo intrinseco fondamento nelle implicazioni patrimoniali della comunione di vita connesse al rapporto matrimoniale e, più esattamente nell’apporto diretto di quel coniuge al patrimonio non solo comune e familiare ma anche personale del coniuge poi deceduto. In questa prospettiva, infatti, specie di fronte alla contrapposizione dei reciproci diritti dei coniuge superstite e divorziato, non vi può essere spazio per la valorizzazione, in favore del coniuge superstite, di periodi di convivenza extra matrimoniali.
d) Di conseguenza la quota della pensione di reversibilità spettante a ciascuno dei coniugi non può che essere data dal rapporto tra la durata legale del suo matrimonio con l’ex coniuge e la misura costituita dalla somma dei due periodi matrimoniali. Per esempio, se il matrimonio tra il coniuge divorziato e l’ex coniuge sia durato 17 anni e quello tra l’ex coniuge sia durato 8 anni, la somma dei due periodi matrimoniali ammonta a 25 anni e la quota del coniuge divorziato e’ pari ai 17/25 del trattamento globale di reversibilità, mentre quella del coniuge superstite agli 8/25 dello stesso trattamento.

Questioni processuali

Diversamente dal caso di cui al 2° comma, nell’ipotesi di riparto sembrerebbe necessaria una pronuncia costitutiva del giudice.
La tesi non è condivisa dalla unanime giurisprudenza di merito. A parere dello scrivente, tuttavia, la stessa riceve nuova e decisiva linfa dalla citata sentenza della Corte Costituzionale la quale, nel restituire al giudice vasti poteri discrezionali sul piano della quantificazione del diritto, sembra richiedere ineludibilmente una pronuncia giurisdizionale.
La questione da dirimere in sede giurisdizionale, a ben vedere, non sembra l’attribuzione, con effetti costitutivi, del diritto al coniuge divorziato: se così fosse, occorrerebbe, per coerenza, adire il giudice anche in difetto di un coniuge superstite. La questione da dirimere è il quantum che spetta a ciascun avente diritto, in quanto la posizione di ciascuno trova un limite in quella dell’altro.
Allora, sembra praticabile la strada che conduce ad ascrivere la decisione in questione alla tipologia delle sentenze costitutive modificative di rapporti giuridici ex art. 2908 c.c., né più né meno che quella di cui all’art. 1111 c.c. in materia di scioglimento di comunione. Anche in questo caso la questione è quella della trasformazione di una quota astratta (nella specie non predeterminata nell’ammontare) in una somma da assegnarsi costitutivamente a ciascun condividente sulla base del titolo.
Sorgono allora due questioni essenziali: la scelta del rito e la forma della decisione.
Sotto il primo profilo, valgano le considerazioni già esposte in tema di indennità di fine rapporto. Cfr. anche Trib. Bari 14 aprile 1994, in Inf. Previden., 1994, 537, secondo cui la procedura in camera di consiglio, promossa con ricorso ex art. 9 legge n. 898/1970, non e’ applicabile alla richiesta, avanzata dalla coniuge divorziata, intesa a conseguire parte della pensione di reversibilità spettante all’attuale coniuge, poiche’ si tratta di questione da proporsi con ordinario giudizio di cognizione. V. anche, nello stesso senso, App. Palermo 3 aprile 1989, in Il diritto di famiglia e delle persone, 1990, 1168.
Sotto il secondo, si deve rilevare che secondo Cass. 8 gennaio 1997 n. 75, in Famiglia e diritto, 1997, 283, l’espressa previsione contenuta nell’art. 9 comma ult. l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 13 l. 6 marzo 1987 n. 74, per il quale la decisione delle controversie relative al conseguimento da parte del coniuge divorziato di una quota della pensione di reversibilità spettante all’altro coniuge deve essere resa con sentenza, comporta che, a prescindere dalle forme o dal rito da adottare in tali controversie, la pronunzia sulle stesse, ove emessa in sede d’appello, e’ suscettibile di ricorso per cassazione, entro gli ordinari termini di cui agli art. 325 e 327 c.p.c., poiche’ quando la legge per il provvedimento del giudice richiede la forma della sentenza, le eventuali peculiarità del procedimento che conduce alla sua emanazione, non sono idonee – in difetto di specifiche indicazioni legislative – a degradare a mera apparenza formale la definizione del provvedimento ed a sottrarre quest’ultimo all’operatività dei termini per la proposizione del gravame contro le sentenze.
Se ne deduce, allora, che il provvedimento avrà forma di sentenza, sarà soggetto ai termini ordinari di impugnazione e dovrà essere sottoscritto, a pena di nullità, anche dal giudice estensore.
Circa la natura della controversia, sembra escluso che si tratti di causa previdenziale (cfr. Cass 27 gennaio 1992 n. 865, in Giur. it. 1993, I, 1, 1100: La controversia relativa all’attribuzione della pensione di riversibilità basata sui presupposti previsti dall’art. 13 l. 6 marzo 1987 n. 74, che ha novellato la precedente legge n. 898 del 1970, e’ di competenza del tribunale in quanto si tratta di questione strettamente legata allo “status” di divorzio e dipendente dalla sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge. L’accertamento di tali condizioni esula dall’ambito delle controversie previste dall’art. 442 c.p.c. per le quali e’ prevista la competenza del pretore in funzione di giudice del lavoro).
Naturalmente, il giudice ordinario esaurisce il suo compito con la determinazione delle quote spettanti ai due aventi diritto, mentre appartiene al giudice delle pensioni conoscere della legittimità degli elementi costitutivi e della loro misura assunti a base della liquidazione del trattamento pensionistico operata dall’ente erogatore (C.Conti reg. Lazio sez. giurisd., 19 aprile 1994, n. 80, in Foro amm. 1994,2610)
Quanto alle parti del giudizio, ad avviso dello scrivente, occorre riflettere bene prima di escludere l’ente erogatore della pensione dal novero delle parti necessarie (Cfr. App. Brescia 6 febbraio 1992, in Giust. Civ., 1992, 1078, secondo cui A seguito della legge 6 marzo 1987 n. 74, nella controversia promossa dal divorziato contro il coniuge superstite per l’attribuzione – in morte di colui che, in vita, fu coniuge di entrambi – di una quota della pensione di riversibilità, sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario, nei confronti dell’ente erogatore della prestazione pensionistica. Ciò sull’assunto che la pronuncia del giudice incide sulle posizione soggettive dell’ente, il quale pertanto è contraddittore necessario).
Si è rilevato al riguardo che non è in discussione l’obbligo dell’ente di versare un certo trattamento, né il concorso tra due o più aventi diritto. Unica questione da dirimere sarebbe allora quella della ripartizione interna tra questi ultimi, con effetti solo riflessi sull’ente, che non vedrebbe in alcun modo attinte le sue posizioni soggettive. L’ente nulla avrebbe da contraddire in merito alla concreta applicazione di un criterio di riparto cui è estraneo. Se deve 10, dovrà sempre dare 10.
In realtà, l’ente erogatore è parte, in qualità di debitore, di quel rapporto che la sentenza intende modificare: pertanto la decisione non sembra del tutto indifferente rispetto alle sue posizioni soggettive.
Quanto, infine, alla decorrenza degli effetti della decisione, è noto che per il coniuge superstite il diritto al trattamento di reversibilità sorge a far data dal primo mese successivo a quello della morte del lavoratore.
Si è allora fatta questione circa l’identità di decorrenza del trattamento tra i due coniugi e, in caso di soluzione negativa, sulla decorrenza dalla domanda giudiziale o dalla sentenza.
Secondo Cass., sez. un., 25 maggio 1991 n. 5938, in Giur. it. 1992, I,1,894, l’art. 9 della l. 1 dicembre 1970 n. 898, come modificato dall’art. 2 della l. 1 agosto 1978 n. 436, nello stabilire che, ove l’obbligato alla somministrazione dell’assegno di divorzio muoia senza lasciare un coniuge superstite, il coniuge divorziato possa ottenere l’attribuzione, integrale o parziale, della pensione di riversibilità o degli altri assegni spettanti a quest’ultimo, prevede una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente previdenziale, a decorrere dal primo giorno del mese successivo a quello della morte dell’ex coniuge e soggetta alla automatica perequazione. La decisione, ultimo arresto che consta allo scrivente, vale però per il regime abrogato.
Tuttavia, la tesi sembra tuttora condivisibile.
Se infatti la decisione del giudice incide costitutivamente (ed ha una sua ragione) sulla sola ripartizione quantitativa del diritto e se i due concorrenti godono di un diritto di pari natura, non si vede perché la decorrenza dovrebbe essere diversa (così Trib. Bari 14 dicembre 2000, cit.).
La tesi opposta si fonda sul carattere costitutivo della decisione, obliterando però che nella specie si tratta di effetti costitutivi creativi, ma di effetti costitutivi modificativi.

Nozione di “pensione ed altri assegni”
Secondo Cass. 7 settembre 1993 n. 9387, Mass. Giust. civ. 1993,1373, l’espressione “altri assegni” contenuta nell’art. 9 3° comma della l. 1 dicembre 1970 n. 898 (ma senza che ciò ne escluda la riferibilità anche alle vicende del comma 2) – va intesa in senso ampio ed e’ perciò comprensiva di qualsiasi attribuzione previdenziale, anche solo in senso lato, spettante al coniuge divorziato in dipendenza della morte del proprio ex coniuge e, in particolare, dell’indennità premio di servizio di cui alla l. 8 marzo 1968 n. 152. Pertanto, tale indennità – che l’art. 3 della citata legge n. 152 del 1968 (come l’art. 5 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032 per l’indennità di buonuscita dei dipendenti statali) attribuisce al coniuge superstite solo nel presupposto della permanenza, al momento della morte del dipendente, del rapporto di coniugio – può essere attribuita (iure proprio) al divorziato, il cui ex coniuge sia deceduto senza coniuge superstite, in virtù del suddetto art. 9.
20 gennaio 2001 Giuseppe Rana
ALLEGATO:

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
Il Tribunale di Bari – Prima Sezione Civile, in composizione monocratica ed in persona del Giudice dott. Ettore Cirillo, ha pronunziato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta nel registro generale affari contenziosi per l’anno 1997 col numero d’ordine 5898
TRA
D. M. (elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. A. Regina, dal quale è rappr. e dif. unitamente all’avv. D. Putzolu) Attrice
E
P. A. Convenuta/contumace
Sulle conclusioni precisate dal difensore della parte costituita in giudizio, all’udienza del 18 settembre 2000 la causa veniva riservata per la decisione con assegnazione dei termini di legge.
FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione del 10 novembre 1997, D. M., nata a Luogosanto il 12.01.1939 e residente a Tempio P. Via Buondestino Lutzu n.6, conveniva in giudizio P. A., vedova F., nata in Bari il 27/1/1949.
Premesso che in data 4.7.1971 aveva contratto matrimonio con F. P., la istante esponeva e documentava quanto segue:
che, con sentenza del 4-19 luglio 1995, il Tribunale di Bari aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio;
che, in forza di tale pronunzia, le era stato riconosciuto il diritto alla corresponsione di un assegno divorzile, a carico del F., di lire 300.000 mensili oltre adeguamenti annuali Istat;
che, in data 11/12/1995, il F. aveva contratto nuovo matrimonio con la convenuta P. e che, in data 15/01/1996, l’ex marito era deceduto;
che la medesima attrice non aveva contratto nuovo matrimonio e, di conseguenza, era attualmente di stato libero.
Chiedeva, pertanto, l’accertamento e la dichiarazione del diritto ad ottenere l’attribuzione diretta di quota parte della pensione di reversibilità erogata alla convenuta, in qualità di ex coniuge, in misura mensile pari alla metà dell’importo erogato ovvero in misura pari all’assegno divorzile e, per l’effetto, con ordine all’ente di pagare direttamente all’attrice la detta quota parte della pensione di reversibilità, nonchè con vittoria di spese in caso di opposizione della controparte.
Nonostante la rituale notificazione della citazione la convenuta non si costituiva in giudizio, e pertanto, alla prima udienza di comparizione, previ gli accertamenti di rito, ne veniva dichiarata la contumacia.
Su richieste del Giudice Istruttore l’attrice depositava la documentazione necessaria, in forza del dettato dell’art.9 L.1/12/1970 n. 898, così come modificato dall’art.13 L.6/3/1987 n 74, per l’attribuzione di quota – parte della pensione di reversibilità.
Acquisite pure informazioni presso l’ente previdenziale, all’udienza del 18/9/2000, sulla base delle conclusioni precisate dal difensore della parte attrice, attesa la perdurante contumacia della convenuta, la causa veniva riservata per la decisione.
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La domanda dell’attrice è fondata e deve, dunque, essere accolta per quanto di ragione.
Sussiste, nella fattispecie in esame, il requisito essenziale della titolarità effettiva, in capo all’ex coniuge, al momento della morte del de cuius, dell’assegno di divorzio previsto dall’art.5 L.D., che l’art.9 comma II° e III° L.cit. prescrive, unitamente alla libertà di stato e alla anteriorità alla sentenza di divorzio del rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico, ai fini dell’attribuzione della quota della reversibilità spettante al coniuge superstite. Occorre, infatti, evidenziare che tale requisito sussiste solo nel caso in cui, al momento della morte del coniuge dalla cui attività lavorativa ha origine il trattamento previdenziale in oggetto, l’ex coniuge divorziato fosse effettivamente ed “attualmente” titolare del diritto alla corresponsione periodica dell’assegno divorzile giudizialmente riconosciuto (C. Cost. 4 novembre 1999, n.419, in G.U. 10.11.1999 n. 45/S.Spec.).
L’art. 9, comma terzo, della legge n. 898 del 1970, nel testo vigente prevede che nella ripartizione della pensione di reversibilità fra il coniuge superstite e l’ex coniuge occorre tener conto della durata del matrimonio, nel senso che non e’ possibile prescindere dall’elemento temporale, e che ad esso può essere attribuito, secondo le circostanze, valore preponderante ed anche decisivo. Ma tale criterio, nel contesto normativo, non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo matematico. Nel suo apprezzamento il giudice potrà ponderare ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzarsi, eventualmente, quali correttivi del risultato che conseguirebbe dall’applicazione del mero criterio temporale. Esigenze di coordinamento sistematico (anche a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 419 del 1999) portano ad individuare nell’ambito dello stesso art. 5 (comma sesto) tali ulteriori elementi di giudizio, tra i quali potranno assumere specifico rilievo l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge e le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda matrimoniale. Se, infatti, la funzione dell’assegno divorzile e’ eminentemente assistenziale, anche questo profilo deve essere suscettibile di valutazione in funzione correttiva del criterio, non eludibile, dell’elemento temporale (sul punto cfr. Cass. n. 2920/2000). Nel caso di specie a fronte di una pensione netta di lire 1.217.235 (al gennaio 2000), ove di dovesse tener conto solo della durata dei due matrimoni (24 anni il primo, un mese il secondo), alla P. spetterebbero soli pochi spiccioli.
Peraltro va tenuto conto che la convenuta non si è costituita e non ha dunque allegato specifiche situazioni di bisogno, mentre l’attrice è percettrice di modestissimi redditi lavorativi.
Sicché, avuto riguardo pure all’ammontare dell’assegno divorzile, si stima equa la ripartizione per quote eguali (50%) della pensione di reversibilità.
Nulla è dovuto per spese in assenza di opposizione da parte della convenuta.
P.Q.M.
Il Tribunale – monocraticamente e definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da D.M. nei confronti di P. R. – così provvede:
Accoglie la domanda e, per l’effetto, assegna alla D. M. una quota pari al 50% dell’ammontare della pensione di reversibilità n. 11080882/R che è in godimento di P. A. a decorrere dal 01.02.1996.
Autorizza l’INPDAP, Direzione provinciale di Bari, al versamento della quota di cui al capo A) direttamente alla richiedente D. M., espressamente esonerando l’ente da qualsivoglia responsabilità in merito.
Nulla per le spese.
Così deciso in Bari, il 14 dicembre 2000.
Il Giudice
Dott. Ettore Cirillo

Redazione

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