La sorte dei debiti e dei crediti nella società volontariamente cancellata

Michele Cespa 03/10/18
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Una recente pronuncia del Tribunale di Roma (1) offre lo spunto per sintetizzare alcune vicende chiave connesse con la cessazione volontaria della compagine sociale.
In effetti, con l’ordinanza in esame il Giudice ha rigettato l’istanza di concessione della provvisoria esecutorietà di un decreto ingiuntivo opposto, richiesta dalla società ingiungente nelle more cancellata dal Registro delle Imprese.
Inoltre, in considerazione della natura potenzialmente decisoria della questione della cancellazione, il Giudice non ha concesso i termini di cui all’art. 183, comma VI, c.p.c., rinviando la causa, ai sensi dell’art. 187, comma 2, c.p.c., direttamente all’udienza di precisazione delle conclusioni.
La domanda sorge spontanea: che ne è stato del credito sociale? Ma soprattutto: cosa non ha funzionato nel “passaggio successorio” in conseguenza dell’estinzione della società?

Per approfondire leggi anche “Il bilancio spiegato ai giuristi” di Flavia Silla e Irma Coiro

La decisione in esame

La decisione appena menzionata ha risolto la questione in forza del seguente principio di diritto: “in caso di cancellazione volontaria di una società dal registro delle imprese, effettuata in pendenza di un giudizio introdotto dalla società medesima, si presume che quest’ultima abbia tacitamente rinunciato alla pretesa relativa al credito, ancorchè incerto ed illiquido, per la cui determinazione il liquidatore non si sia attivato, preferendo concludere il procedimento estintivo della società; tale presunzione comporta che non si determini alcun fenomeno successorio nella pretesa “sub iudice”, con conseguente esclusione della legittimazione dei soci della società estinta”.
L’ordinanza fa espresso riferimento all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, “consolidatosi dopo le sentenze delle SS.UU. 6070, 6071 e 6072/2013”.
Pertanto, al fine di chiarire meglio la questione, è necessario esaminare i precedenti della Suprema Corte resi a Sezioni Unite, al fine di individuare quali problemi siano stati affrontati e le soluzioni giuridiche adottate per risolverli.

I precedenti della Corte di Cassazione

La questione affrontata dalla Suprema Corte a Sezioni Unite consisteva nell’individuare la sorte dei rapporti processuali pendenti nel momento in cui una società venga cancellata dal registro delle imprese.
Da un lato si è avuta una serie di primi pronunciamenti aventi ad oggetto gli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese (2).
Dall’altro lato, si è avuta una serie di successivi pronunciamenti aventi ad oggetto le conseguenze che possono derivare dalla cancellazione in ordine ai rapporti facenti capo alla società estinta (3); in tal senso, per comodità espositiva si farà riferimento tanto ai rapporti “passivi” (ovvero implicanti l’esistenza di obbligazioni gravanti sulla società), quanto ai rapporti “attivi” (ovvero in forza dei quali prima della cancellazione la società poteva vantare diritti).

Gli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese

Venendo alla prima questione risolta dai Giudici di legittimità, si deve osservare che l’art. 2495, comma 2, c.c., come modificato dall’art. 4 del d.lgs. n. 6 del 2003, ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l’estinzione immediata delle società di capitali.
In tal senso, la novella normativa ha individuato un preciso momento estintivo della società di capitali, ovvero quello della sua cancellazione dal registro delle imprese; è ciò è stato ribadito dai primi pronunciamenti resi a Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione: “la cancellazione di una società di capitale dal registro delle imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad essi facenti capo fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi senz’altro produttiva di quell’effetto estintivo: effetto destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma, o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente” (4).
La stessa regola è apparsa poi applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione del menzionato art. 2495 e sia rimasto per loro in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 c.c.: “In tema di società, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2495, comma 2, c.c. … impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento contestualmente alla pubblicità” (5).
Inoltre, i Giudici di legittimità hanno affrontato anche la non secondaria questione delle conseguenze della cancellazione dal registro delle imprese in pendenza di un giudizio.
Così Cass., n. 19580/2017 ha ritenuto, innanzitutto, che “La cancellazione dal registro delle imprese, causando l’estinzione della società (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall’art. 10 l.fall.), ove intervenga nella pendenza di un giudizio nel quale essa sia parte, determina un’ipotesi di interruzione, con possibilità di prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.”.
Ciò posto, la stessa decisione ha assunto che laddove l’evento della cancellazione non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non era più possibile, “l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società, in assenza di ripartizione dell’attivo, deve provenire o essere indirizzata, a pena di inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso”.

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La sorte dei debiti facenti capo alla società volontariamente cancellata dal registro delle imprese

Venendo ora alle conseguenze che possono derivare dalla cancellazione in ordine ai rapporti facenti capo alla società estinta, con particolare riferimento ai rapporti debitori, si osserva quanto segue.
Con l’estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese non si estinguono i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo: pertanto, è del tutto naturale che questi debiti si trasferiscano in capo ai soci, quali successori della società estinta.
La fonte normativa si rinviene nell’ art. 2495, comma 2, c.c.: “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti
1. nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione
2. e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”.
Dunque, quello che si verifica, è un ‘fenomeno successorio’, inteso lato sensu: i soci subentrano nei rapporti obbligatori facenti capo all’ente ormai estinto nello stesso modo in cui gli eredi subentrano nei debiti del de cuius. In realtà, a ben vedere, il regime di co-obbligazione dei soci con riferimento ai debiti della società, altro non è che il riflesso del regime di solidarietà passiva previsto in via generale dall’articolo 1294 c.c.
A tali conclusioni sono giunte le decisioni rese dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 2013 (6):“D’altro canto, alla tesi – pure in sè certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (tesi propugnata da Cass. 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679, nonchè da Cass. 9 novembre 2012, n. 19453), sembra da preferire quella che individua invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione (anche, come si dirà, ai fini processuali), fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto cenno”.
Ovviamente, il limite di responsabilità dei soci dipenderà dal tipo di rapporto sociale prescelto; e così, si avrà una responsabilità intra vires nelle società di capitali, mentre se ne avrà una ultra vires nelle società di persone.
E la società? Può rispondere dei debiti sociali a seguito della cancellazione?
L’ordinamento prevede una norma che, mediante una fictio iuris, comporta in tale ipotesi la reviviscenza dell’ente estinto.
In effetti, l’art. 10 della Legge Fallimentare prevede espressamente che “Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”. E così sé anche spiegata la disposizione di cui all’art. 2495, ult. comma, c.c., a mente del quale «La domanda [dei creditori sociali insoddisfatti], se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società».

La sorte dei crediti facenti capo alla società volontariamente cancellata dal registro delle imprese

Esaminando ora la questione dei rapporti “attivi”, ovvero dei crediti della società cancellata, occorre distinguere tra (i) mere pretese, (ii) crediti controversi e illiquidi e, infine (iii) i crediti certi e liquidi, nonché i beni mobili e immobili.
In tal senso, secondo le menzionate sentenze di legittimità (7), i soci non succedono nelle mere pretese, che devono intendersi rinunciate nel momento della cancellazione della società: “è ben possibile che la stessa scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza sia da intendere come una tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa; ma ciò può postularsi agevolmente quando si tratti, appunto, di mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale di liquidazione”.
Alle medesime conclusioni sono giunte tali sentenze per i crediti controversi ed illiquidi, laddove non ne sia stata fatta menzione, né siano stati “assegnati” nel bilancio finale di liquidazione: “Ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel caso in cui un diritto di credito, oltre che magari controverso, non sia neppure liquido: di modo che solo un’attività ulteriore da parte del liquidatore – per lo più consistente nell’esercizio o nella coltivazione di un’apposita azione giudiziaria – avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti sociali. In una simile situazione la scelta del liquidatore di procedere senz’altro alla cancellazione della società al registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo”.
Pertanto, tali crediti devono intendersi rinunciati se la cancellazione della società sia avvenuta senza l’espletamento, da parte dei liquidatori, dell’ulteriore attività necessaria a renderli iscrivibili in bilancio. A parere dei giudici di legittimità, in altri termini, la scelta operata dal liquidatore di velocizzare i tempi del procedimento di liquidazione e pervenire all’estinzione della società, rinunciando ad espletare le incombenze occorrenti per la definizione di situazioni pendenti conosciute o conoscibili, è da considerare come una manifesta rinuncia alle stesse; trattasi quindi di una presunzione iuris et de iure.
La conseguenza è, quindi, l’esclusione di qualsivoglia fenomeno successorio dei soci nella pretesa sub iudice, con conseguente impossibilità per questi ultimi di impugnare l’eventuale sentenza di rigetto ovvero di avvantaggiarsi della pronuncia favorevole (8).
Per quanto concerne, invece, i crediti certi e liquidi, altri beni mobili o immobili che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, sarebbero figurati in bilancio, le sentenze di legittimità sanciscono rispetto agli stessi un pieno fenomeno successorio da parte dei soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa: “il subingresso dei soci nei debiti sociali, sia pure entro i limiti e con le modalità cui sopra s’è fatto cenno, suggerisce immediatamente che anche nei rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale venga a determinarsi un analogo meccanismo successorio. Se l’esistenza dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificata dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s’instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o comunione”.
Ulteriori importanti precisazioni sono necessarie rispetto alla legittimazione processuale rispetto alla riscossione dei crediti non rinunciati.
In effetti, nell’ipotesi dei procedimenti instaurati dalla società prima della sua estinzione, troverà applicazione la disposizione di cui all’art. 110 c.p.c., venendosi quindi a configurare un litisconsorzio necessario tra i soci.
Diversamente, nei procedimenti instaurati a seguito della cancellazione della società, non potendosi ritenere applicabili in via analogica né i principi dettati in materia di comunione ereditaria (non essendo la trasmissione in capo ai soci dei rapporti della società totalmente assimilabile alla successione testamentaria), né quelli del condominio, si deve dedurre che ciascun socio avrà diritto di richiedere – e il debitore tenuto a corrispondergli – solo la propria parte del credito in contitolarità, ai sensi dell’articolo 1314 c.c.

La cancellazione della cancellazione

Non trascurabile risulta, poi, la questione concernente la cancellazione della cancellazione dal registro delle imprese.
In tal senso, le sentenze di legittimità rese a Sezioni Unite (9), hanno segnato il superamento della tesi secondo cui la mera permanenza di rapporti giuridici pendenti possa comportare una reviviscenza dell’ente societario, sostenendo che è “da escludere che l’esistenza di residui o sopravvenienze sia da sola sufficiente a giustificare un’eventuale revoca della cancellazione della società dal Registro delle Imprese”.
Norma cardine in materia è la disposizione di cui all’art. 2191 c.c., a mente della quale “Se un’iscrizione è avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge, il giudice del registro, sentito l’interessato, ne ordina con decreto la cancellazione”.
Ad avviso di parte della giurisprudenza merito (10), il Giudice del Registro dovrebbe disporre la cancellazione della cancellazione solo nel caso in cui non sia stata definita la liquidazione. Si tratta di una tesi che, però, non tiene in considerazione il fatto che l’unico presupposto per richiedere la cancellazione è costituito dall’approvazione del bilancio finale di liquidazione, e che solo su quest’ultimo potrà concentrarsi il controllo del Giudice del Registro.
Diversa opinione è espressa da altra parte della giurisprudenza (11), secondo la quale l’istituto in argomento potrebbe trovare applicazione nel caso in cui non vi sia stata una totale ripartizione dell’attivo disponibile. Detta posizione non convince chi rileva che la distribuzione dell’attivo non è legata all’approvazione del bilancio finale, la quale costituisce l’unico presupposto per richiedere la cancellazione della società.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute sul punto, nel 2010, con sentenza n° 8426, e – come visto – nel 2013, chiarendo che il ricorso all’istituto della cancellazione d’ufficio della cancellazione è possibile solo nella circostanza in cui si riesca a dimostrare che la società “apparentemente estinta” abbia continuato concretamente a svolgere la propria attività (12).

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NOTE

(1) Trattasi di Trib. Roma, 8 giugno 2018, est. Gandini, ord., apparsa su ilcaso.it.
(2) In tal senso, si fa riferimento alle sentenze della Suprema Corte, rese a Sezioni Unite, nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010.
(3) In tal senso, si fa riferimento alle sentenze della Suprema Corte, rese a Sezioni Unite, nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013.
(4) In tal senso, cfr. le già citate sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010.
(5) In tal senso, cfr. Cass., n. 26196/2016; App. Cagliari, n. 543/2018 del 12.06.2018 in quotidianogiuridico.it.
(6) In tal senso, cfr. le già citate sentenze, nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013.
(7) In tal senso, cfr. le già citate sentenze, nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013.
(8) In tal senso, da ultimo si è espressa Cass. Civ. n. 8582/2018; conforme Cass. Civ. n. 15782/2016. Occorre osservare che, diversamente, laddove la società fosse cancellata dal Registro delle Imprese d’ufficio (ad esempio per mancata presentazione per oltre tre anni consecutivi del bilancio annuale – art. 2490, comma 6, c.c.) ovvero il Liquidatore intraprendesse o proseguisse il giudizio risarcitorio, la pretesa creditoria non potrebbe considerarsi rinunciata in quanto non emergerebbe una “inequivoca volontà abdicativa” della stessa (cfr. Cass. Civ. Sez. Unite 6070/2013 e 6072/2013; conformi Cass. Civ. n. 16758/2010, Cass. Civ. n. 23269/2016, Cass. Civ. n. 21517/2016).
(9) In tal senso, cfr. le già citate sentenze, nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013.
(10) In tal senso, cfr. Trib. Padova, 2 marzo 2011, in Società, 2011, 900, con nota di ZAGRA, Cancellazione della cancellazione di società di capitali dal Registro delle Imprese.
(11) In tal senso, cfr. Trib. Napoli, 21 ottobre 2015 e Trib. Bologna, 6 giugno 2013, entrambe in ilcaso.it.
(12) In tal senso, v. anche Tribunale di Bologna 21 luglio 2014 n. 2333.

Michele Cespa

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