La sanatoria dell’atto amministrativo invalido: art. 21 octies comma 2 della L. 241/90

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Sebbene mancasse, prima dell’entrata in vigore della riforma della legge 241/1990 operata dalla legge n.15/2005, una codificazione delle varie tipologie di invalidità del provvedimento amministrativo, la patologia dell’atto amministrativo ha da sempre costituito una tematica di notevole interesse.

A differenza del diritto civile, nell’ordinamento amministrativo la patologia dell’atto opera con un modello contrario, per cui l’annullabilità costituisce la regola, mentre la nullità costituisce l’eccezione. La ratio di tale meccanismo risiede nel fatto che nel diritto amministrativo, l’esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità dell’atto o del provvedimento, essendo inconcepibile che un vizio di un atto amministrativo, per quanto derivante da violazione di norme imperative, possa essere rilevato senza limiti temporali, se non addirittura d’ufficio. Pertanto dottrina e giurisprudenza hanno optato per un’impostazione autonoma del regime di invalidità del provvedimento amministrativo rispetto al diritto civile tanto da non prevedere le c.d. le nullità virtuali, derivanti dalla violazione di norme imperative che, pur in assenza della espressa sanzione della nullità, non siano assistite da altra sanzione, con la conseguente applicabilità della regola generale di cui al comma 1 dell’art. 1418 c.c.. In via generale si considera vizio dell’atto amministrativo, la divergenza tra la fattispecie in concreto posta in essere dalla P.A., ed il modello astratto predeterminato in sede normativa.

 

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La considerazione del vizio richiede quindi la comparazione tra l’atto posto in essere ed il modello astratto a cui il primo dovrebbe riferirsi e pertanto la fattispecie astratta deve essere da un lato conforme alle norme di legge e dall’altro alle regole di opportunità. Ne consegue che i vizi che possono inficiare l’atto amministrativo possono essere di legittimità e di merito. A seconda della maggiore o minore divergenza dal parametro normativo l’atto amministrativo può essere invalido o irregolare. L’ invalidità si sostanzia in una difformità dell’atto dal diritto e determina una sanzione di inefficacia definitiva dell’atto stesso, sanzione che può essere automatica (es. nullità che opera di diritto) o può necessitare di apposita applicazione giudiziale (es. annullabilità che deriva da una decisione del G.A.).

Mentre la nullità comporta l’assoluta insuscettibilità dell’atto di produrre effetti, l’atto annullabile è in ogni caso idoneo a produrre i propri effetti fin quando e solo se, su istanza di parte ed in via giudiziale non se ne dichiari l’illegittimità. Di particolare interesse è un recente arresto del Consiglio di Stato, sez. IV 2.4.2012 n. 1957, secondo il quale “la nullità dell’atto costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi in cui sia specificamente sancita dalla legge; l’annullabilità invece costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento. Pertanto un atto annullabile, ma non annullato, è da considerarsi sanato”. Ed invero, il meccanismo di cui all’art. 21octies consiste in una vera e propria sanatoria o convalida ex lege realizzata dalla P.A. Sotto quest’ ottica l’art. 21octies spezzerebbe il meccanismo dell’invalidità derivata consentendo di far ritenere pienamente legittimo il provvedimento finale, qualora si dimostri che, in assenza del vizio, esso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso.

Arduo è l’inquadramento sistematico di tale norma, tant’è che sono state delineate tre diverse teorie: quella sostanziale, quella processuale ed infine quella sulla irregolarità. Secondo la tesi della irregolarità, respinta da dottrina e giurisprudenza prevalente, l’irregolarità presuppone che il giudice effettui una valutazione del vizio ex ante e in astratto, senza alcun riferimento alla fattispecie concreta. All’opposto, invece, l’art. 21-octies impone l’accertamento ex post che il provvedimento affetto da un vizio di legittimità non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso in assenza del vizio. Pertanto Si deve escludere che un provvedimento difforme dal paradigma normativo, poiché adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, possa essere considerato semplicemente irregolare. Per la tesi sostanziale, invece, l’art. 21-octies, comma 2 costituirebbe una fattispecie di sanatoria che si realizza secondo il consueto meccanismo fattispecie-effetto proprio delle norme sostanziali.

Secondo la giurisprudenza prevalente la norma avrebbe natura processuale, non incidendo sulla qualificazione dell’atto, che resterebbe pertanto illegittimo, sebbene non annullabile dal giudice. L’interpretazione troverebbe conferma nel dato letterale, atteso che la norma statuisce come effetto della fattispecie la non annullabilità del provvedimento, con ciò significando la conservazione della sua qualifica di illegittimità. Si tratterebbe, dunque, di una sanatoria di tipo processuale, il cui fondamento risiede nel principio del raggiungimento dello scopo, già enunciato dall’art. 156, 3°comma c.p.c. secondo cui “la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”. Quanto al profilo sostanziale, l’art. 21octies prevede, al comma 1, il tradizionale regime dei vizi di legittimità per cui “È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.

Al secondo comma contiene, invece, una importante novità: i c.d. vizi non invalidanti del provvedimento amministrativo e prevede che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e che il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Si tratta, dunque, di una disposizione che da un lato recupera un ruolo primario del provvedimento amministrativo rispetto al procedimento e dall’altro contiene il rischio di svalutare alcune norme fondamentali per la partecipazione del privato, quale quella relativa all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, prevedendo che la loro violazione possa non condurre ad annullare il provvedimento finale, c.d. vizio non invalidante, qualora sia accertato in giudizio che comunque il provvedimento non poteva essere diverso. Pertanto il giudice, sia esso d’ufficio o su istanza e prova dell’amministrazione, eliminato mentalmente il vizio, il procedimento amministrativo deve essere ricostruito ipotizzando che la comunicazione all’interessato sia stata data, verificando, in base alla tipologia della funzione e a come il procedimento si è concretamente svolto, se la sua partecipazione avrebbe potuto modificare la decisione adottata. Solo se l’esito di questa simulazione è certamente negativo il provvedimento non sarà annullabile. In ipotesi di attività vincolata il giudizio controfattuale si presenta tutto sommato agevole. In presenza di un quadro normativo di riferimento chiaro e di un’istruttoria sui fatti completa, è ragionevole inferire che la partecipazione del privato non avrebbe potuto influire sull’esito del procedimento, qualora la valutazione dei presupposti di fatto e di diritto sia stata compiuta correttamente dall’amministrazione. In ipotesi di attività discrezionale, invece, sarà assai più difficile operare un accertamento oltre ogni ragionevole dubbio.

Laddove l’attività presenti margini di discrezionalità la partecipazione del privato sia in grado di incidere sulle scelte amministrative. Ciò, tuttavia, è vero solo ex ante. Invece, dovendo effettuare una valutazione ex post può emergere che, sulla base delle risultanze procedimentali, l’intervento del privato non avrebbe concretamente influito sul decison making process. Dunque, la partecipazione del privato non va considerata in una logica aprioristica, quasi che la stessa sia sempre in grado di apportare, sul piano della legittimità o del merito, una qualche utilità all’azione amministrativa. Ciò è vero se egli sia in possesso di elementi, di fatto o di diritto, cui l’amministrazione non possa autonomamente attingere, ma ove così non fosse l’arricchimento procedimentale derivante dalla partecipazione dell’interessato resta una petizione di principio, la cui effettività va verificata nel concreto svolgimento delle fasi procedimentali, ben potendo l’amministrazione aver personalmente acquisito tutti quegli elementi che avrebbe potuto portare il privato, ovvero essere gli stessi non influenti nel caso concreto.

Avv. Fornaro Pasquale

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