La riforma costituzionale sul “pareggio di bilancio”

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L’introduzione nel 2012 del “pareggio di bilancio” nella nostra Carta costituzionale[1] continua a sollecitare riflessioni di giuristi ed economisti. Un dibattito, tuttora animato, che si rinnova ad ogni atto o provvedimento in tema di politica economica e di finanza statale (Documento di Economia e Finanza (DEF); Documento Programmatico di Bilancio (DPB); Legge di Stabilità, Legge di Bilancio).

La specificità della materia senz’altro chiama al confronto gli specialisti. Pur tuttavia, in questo caso, dottrina costituzionale e scienza economica devono spingersi oltre la mera tecnicalità. L’imputazione politica del pareggio di bilancio, infatti, è tale che le disposizioni del novellato art. 81 Cost. vanno inquadrate da più ampie prospettive: giuspolitica, da un lato, e di policy economica, dall’altro. Costituzionalismo democratico e Pensiero economico critico ci paiono pertanto gli orientamenti meglio deputati a ciò: l’uno, lontano dalla “neutralità politica”, postulata dal positivismo giuridico, l’altro, dalla “naturalità del mercato”, assunta  dal liberismo.

È oramai acclarato dalla dottrina costituzionale che la riforma italiana sul pareggio di bilancio si sia esemplata alla normativa europea, e in particolare al Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (il c.d. Fiscal Compact).

Non deve tuttavia sfuggire che il Fiscal Compact, strumento principe dei fautori delle politiche di austerità, sia stato fra gli oggetti più controversi delle ultime elezioni europee. La critica al Fiscal Compact è assurto a simbolo politico del contrasto alla governance economica e monetaria dell’UE, la quale ha inflitto agli Stati dell’area euro, piegati da quasi dieci anni di crisi, duri rimedi neoliberisti.

Da allora lo scenario politico italiano e quello europeo sono profondamente mutati: la Brexit, l’affermazione crescente di partiti e movimenti nazionalisti, euroscettici o antieuropeisti, hanno riportato al centro del dibattito la crisi del progetto d’integrazione europea e i gravi squilibri dell’Unione economica e monetaria.

Negli ultimi anni, il dialogo fra Governo italiano e Istituzioni europee in merito alle misure di politica economica adottate o programmate si è fatto sempre più teso, e il principio del pareggio di bilancio sembra aver perso presso i politici ― ma anche presso l’opinione pubblica ― molta della sua originaria aura di “sacralità”. Sono molte le forze politiche in Italia, e non solo d’ispirazione “populista” o “sovranista”, che ormai chiedono con forza di rimettere mano al più presto ai Trattati europei, primo fra tutti il Fiscal Compact[2].

Ecco perché, a distanza di quattro anni dall’inserimento in Costituzione del principio del pareggio di bilancio, forse si rende necessario un ripensamento giuspolitico su una riforma costituzionale dai tanti “padri”, ma dagli altrettanti repentini disconoscimenti di paternità

Il Seminario della Consulta sulla riforma costituzionale del 2012

Nel novembre 2013, la Corte costituzionale ha promosso un Seminario di studio dal titolo “Il principio dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012”[3]. La Consulta si è aperta tempestivamente uno spazio di riflessione teorica: la neonata riforma costituzionale da subito profilava nodi dottrinari non trascurabili, destinati a implicare l’attività stessa del giudice delle leggi: dal rapporto ordinamentale e normativo fra Costituzioni nazionali e Trattati UE, all’alveo di giustiziabilità ancora proprio del giudice costituzionale nazionale in materie con interessi sovranazionali concorrenti.

Le tre relazioni presentate al Seminario, pur nella specificità tecnica di ciascuna,  riservano luogo a tematiche politiche di carattere generale, e possono pertanto fornirci un’utile traccia da cui partire. Seguiamone in breve lo sviluppo.

Massimo Luciani[4], prima di entrare negli aspetti più strettamente giuridici, delinea lo sfondo storico-politico della riforma costituzionale e legislativa, convinto che, per meglio comprenderla, occorra valutare il contesto in cui essa è maturata.

Sui fattori di contesto enucleati pesano scelte ideologico-culturali di fondo, operate dagli ’70 del secolo scorso sino ad oggi, e tutte nel segno di un profondo ripensamento del governo politico dell’economia. L’introduzione del pareggio di bilancio nella nostra Costituzione rappresenterebbe l’esito giuspubblicistico di un più generale processo di divaricazione fra politica ed economia, volto a sottrarre progressivamente la sfera dei rapporti economici all’indirizzo politico. Quattro sono gli snodi epocali per l’Europa occidentale evidenziati da Luciani: 1) la fine del “glorioso” trentennio di benessere post-bellico, che ha ingenerato il convincimento della necessità di un maggiore rigore contabile nel bilancio dello Stato; 2) l’introduzione della moneta unica, che ha determinato nei paesi dell’Eurozona la cessione di una importante prerogativa quale la sovranità monetaria; 3) la denazionalizzazione del debito pubblico, i cui titoli, collocati in un mercato globale, vedono la dinamica dei tassi d’interesse spesso influenzata dalle valutazioni delle agenzie di rating; 4) l’egemonia culturale del liberismo, cui è connessa quella economico-politica della Germania. A questi ne aggiunge due che riguardano specificamente l’Italia: 5) la separazione, all’inizio del 1981, fra Tesoro e Banca d’Italia, che estinse l’obbligazione in capo a quest’ultima di acquistare in sede d’asta i titoli di Stato residui; 6) l’enorme crescita del debito dello Stato negli anni Ottanta e Novanta, dovuto non solo a un deterioramento del ciclo economico, ma anche ad un aumento della spesa pubblica a fini tattico-politici[5].

Dunque, un principio ideologico sottostante assai chiaro: la convinzione diffusa della necessità che la politica arretri dalla sfera economica e, più in particolare, che si ridimensionino ruolo e peso dell’intervento pubblico sul mercato, oramai globalizzato. Pur tuttavia, se è vero che il declino del modello di progresso sociale, sviluppatosi in Europa occidentale nei trent’anni del dopoguerra in forza di una prolungata crescita economica, ha portato con sé – come afferma Luciani – il «ripiegamento della pretesa (illuministica?) del governo politico dei rapporti economici e in questo contesto è più facile che sia ospitata una concezione del bilancio dello Stato come di un semplice strumento contabile»[6], è altrettanto vero che l’introduzione dell’euro avrebbe ben presto messo a nudo gli squilibri economici e finanziari derivanti da una unificazione monetaria disgiunta, o meglio non preceduta, da un’effettiva integrazione politica della governance europea[7].

Sennonché, la crisi del 2007-2008 si è poi rivelata hegelianamente un’“astuzia della Ragione”.

Il diverso andamento regionale della crisi economico-finanziaria ha provveduto, per così dire, a vagliare e conferire titolarità politica: il minore impatto sui Paesi nordici dell’Eurozona – Germania in testa – ha di fatto legittimato questi ultimi, in ragione di finanze pubbliche più in equilibrio e maggiori tassi di crescita e produttività, ad intestarsi l’indirizzo delle misure di austerity che i Paesi più colpiti erano tenuti ad attuare. Controllo del disavanzo e del debito pubblico diventavano il discrimine per il novero degli Stati “virtuosi”; gli ingenti debiti sovrani e l’innalzamento dello spread dei titoli di stato dei Paesi sudeuropei in difficoltà erano le severe censure del mercato alla loro affidabilità e, implicitamente, a quella della loro classe politica[8]. In sintesi, un’Europa dotata di moneta unica, ancorché fragile e poco coesa politicamente, ha mutato la tenuta economica e di bilancio alla Grande recessione in un indicatore di autorevolezza per le scelte politiche future[9]; di qui il primato della Germania e della sua ortodossia neoliberista[10]. Certo, i Trattati eurounitari sono stati sottoscritti da Paesi membri con pari legittimità; ma un’egemonia politico-economica può espletarsi anche attraverso l’intransigenza circa le obbligazioni derivanti. E senza dubbio la Germania se ne atteggia da tempo a “gendarme” puntiglioso e inflessibile.

Ma torniamo all’Italia, e alla riforma costituzionale del 2012. Occorre tener presente che non vi era alcun obbligo giuridico che imponesse all’Italia di scegliere la via della revisione costituzionale per dare attuazione alle regole di bilancio stabilite in sede UE: come puntualmente illustrato nella sua relazione da Gian Luigi Tosato[11], non lo prescrivevano né le norme dei Trattati in materia di unione economica e monetaria, né le disposizioni del Patto Euro Plus (11 marzo 2011)[12], che precedette immediatamente la prima proposta di legge (23 marzo 2011)[13], né gli atti di matrice europea sopravvenuti durante l’iter parlamentare della riforma, ovvero poco prima della sua approvazione, come la Direttiva 2011/85/UE (8 novembre 2011)[14] – contenuta nel c.d. Six Pack – e il Trattato extra-UE summenzionato, il Fiscal Compact (sottoscritto il 2 marzo 2012 e vigente dal 1° gennaio 2013). Se obbligo giuridico vi sussisteva, esso riguardava esclusivamente la recezione negli ordinamenti nazionali delle regole di bilancio; la natura dell’atto normativo era lasciata alla discrezionalità dei Paesi membri, purché fosse uno strumento forte, vincolante e permanente, preferibilmente costituzionale[15].

La ragione che ha spinto l’Italia ad optare per il rango costituzionale va dunque ricercata altrove, in ambito strettamente politico[16]. E non già nel senso di una scelta politicamente meditata, bensì di un’estemporanea prova di serietà e determinazione decisionali, esibita dalla classe politica italiana alle istituzioni europee, nel tentativo di riguadagnare credibilità ed affidabilità, in quel frangente fortemente appannate. Basti ricordare che il 2011 è l’anno in cui il governo Berlusconi fu alle prese con pesantissime pressioni dei mercati sui nostri titoli pubblici e con un’impennata dello spread senza precedenti dall’introduzione dell’euro; la crisi del debito italiano era tale da rendere oramai concreto il timore di un imminente default[17]. E così, l’avvicendamento in novembre fra Berlusconi e Monti alla guida del governo apparve ai più l’ultimo argine alla bancarotta dell’Italia: un nuovo esecutivo di natura “tecnica” che, in modo rapido e draconiano, adottasse misure per la riduzione del debito e varasse riforme strutturali per il contenimento della spesa pubblica.

È nel quadro di questa emergenza politico-istituzionale che il Parlamento approva la riforma dell’art. 81 Cost., dopo un iter assai celere e un’ampia convergenza fra le forze politiche del centro-destra e del centro-sinistra, che portò all’agevole superamento del quorum dei due terzi dei componenti in seconda votazione, sia alla Camera, sia al Senato, rendendo la modifica costituzionale non suscettibile di referendum confermativo, ex art. 138, terzo comma, Cost.[18]. Proprio allorché la tenuta del  nostro sistema politico veniva maggiormente revocata in dubbio dall’UE e dagli investitori finanziari, fu dato, a dispetto dello scetticismo e del discredito consolidatisi, un chiaro segnale di coesione: un sussulto di lealismo ai vincoli di bilancio eurounitari, sancito da una revisione costituzionale, tanto più foriera d’inusitata responsabilità, in quanto non prescritta da obblighi giuridici, ma unilateralmente ed estensivamente recepita.

Non va peraltro trascurato il ruolo giocato dalla ormai famigerata lettera che Trichet e Draghi, rispettivamente presidente uscente della Bce e governatore della Banca d’Italia (subentrante alla Bce), inviano congiuntamente il 5 agosto 2011 al presidente del Consiglio Berlusconi. Oltre a contenere precise e dettagliate indicazioni di merito circa le misure necessarie ed urgenti da adottarsi per accrescere il potenziale di crescita (liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali; contrattazione salariale decentrata; revisione normativa su assunzioni e licenziamenti), e per garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche (riforma del sistema pensionistico e riduzione dei costi del pubblico impiego; introduzione di una clausola di riduzione automatica del deficit; controllo dell’indebitamento degli enti regionali e locali), la missiva sollecita perché «all actions […] be taken as soon as possible with decree-laws, followed by Parliamentary ratification by end September 2011. A constitutional reform tightening fiscal rules would also be appropriate»[19].

La procedura seguita mostra un dubbio profilo quanto meno di opportunità istituzionale. In primo luogo, gli estensori sono i vertici di banche centrali, istituzioni indipendenti e non deputate a valutazioni di carattere politico; in secondo luogo, viene inoltrata in forma strettamente riservata al solo governo italiano una lettera il cui contenuto, negli intenti dei sottoscrittori, era destinato a restare ignoto al Parlamento, e tale sarebbe rimasto, se a distanza di quasi due mesi non fosse intervenuto uno scoop giornalistico; in terzo luogo, in conformità con la presupposta necessità e urgenza delle misure da intraprendere, s’investe il governo dell’azione legislativa, prescegliendo lo strumento giuridico del decreto-legge e fissando il termine perentorio della conversione parlamentare[20].

Resta il fatto che la caldeggiata revisione costituzionale volta a più stringenti regole di bilancio verrà puntualmente realizzata, e nei tempi rapidi surricordati.

La vicenda sin qui tratteggiata meriterebbe di essere ricondotta al più ampio e generale rapporto fra norma giuridica e discrezionalità del potere politico in materia di bilancio pubblico, una questione dottrinaria e giurisprudenziale oggetto di vastissima letteratura, anche risalente. Le non specifiche competenze in nostro possesso c’impongono solo qualche sommaria considerazione, traendo spunto dalla terza relazione al Seminario della Consulta[21].

La prima notazione interessante riguarda l’esperienza internazionale sulle regole di bilancio e, in particolare, quella statunitense. Sin dalla fine del XIX secolo, gli Stati Uniti possono vantare un’attenzione alla disciplina fiscale quale mezzo di rassicurazione al mercato onde finanziare gli investimenti. In tutti gli stati federati, fuorché nel Vermont, vi sono limitazioni costituzionali o legislative ad effettuare in disavanzo spese correnti; le spese per investimenti o in conto capitale sono finanziate in debito (golden rule). La più recente letteratura economica passata in rassegna (metà anni ’90 ̶ 2012) sembra dimostrare in modo concorde che le regole del bilancio in pareggio abbiano avuto efficacia sui comportamenti fiscali virtuosi degli stati federati[22]. Se però si guarda alla fonte giuridica delle regole di bilancio, tenendo presente che queste non discendono da norme dall’alto, come sta avvenendo nell’UE,  Marè e Sarcinelli osservano quanto segue: nonostante il rilievo dato dalle indagini empiriche, le fonti costituzionali o legislative delle regole di bilancio non recano disposizioni chiare in tutti gli stati; talvolta sono semplici pronunce giudiziali, interpretative di norme poco o nulla inerenti ai bilanci, a prescrivere obblighi a governatori e legislatori; «pertanto, la generale conformità al principio del bilancio in pareggio, notevole per la mancanza di chiare e univoche fonti che l’impongono, trova in una convenzione politica la propria ragion d’essere e al tempo stesso la cogenza per il suo rispetto»[23].

Il secondo aspetto degno di nota verte sulle sfide ancora aperte per raggiungere un’effettiva e compiuta integrazione economica europea.

Si constata che, da un paio d’anni a questa parte, al livello istituzionale eurounitario, si sta ponendo l’accento sulla necessità che l’UE si doti gradualmente di una propria capacità fiscale e di una struttura centralizzata di bilancio integrato: non più, dunque, solo unione monetaria ma anche unione fiscale. Con una completa capacità fiscale l’area euro potrebbe migliorare il coordinamento preventivo dei bilanci nazionali, così da assorbire, tramite meccanismi di solidarietà fiscale, gli shock finanziari e macroeconomici; si potrebbe per giunta porre capo al finanziamento di un servizio del debito europeo finalizzato ad investimenti in settori di pubblico interesse. Non senza, ovviamente, che il livello centrale si accolli i rischi degli eventuali disavanzi nazionali dovuti ad imprudenza finanziaria. Per governare tutto ciò, occorrerebbe però istituire un Tesoro europeo con competenze specifiche e ben definite, il che implicherebbe a monte una comune volontà da parte degli Stati membri di cedere sovranità. Un idem sentire politico-strategico europeo francamente ancora di là da intravedersi[24].

Da un punto di vista generale, infine, pur con un giudizio sostanzialmente positivo sulle regole di bilancio, i due studiosi non mancano tuttavia di rimarcare che non può parlarsi di un nesso certo di causalità fra regole e risultati emerso in maniera cogente. Molteplici sono le variabili che concorrono a un sistema ottimale di balance budget rules: definizione, applicazione, procedure, severità, estensione, sanzioni. Inoltre, più si allargherà l’ambito di riferimento normativo, più le regole saranno destinate a diventare ampie, complesse e di difficile controllo applicativo. Pertanto, nella dialettica regole di finanza pubblica/discrezionalità politica, le prime, laddove chiare nel dettato e precise negli obiettivi, potranno sì ridimensionare la seconda, ma non già espungerla del tutto, considerato che «non esistono regole ottimali sempre e comunque e le stesse dipendono dal contesto storico, politico e soprattutto economico»[25].

Alla luce dei tre studi presentati al Seminario sulla riforma costituzionale del 2012, a me pare che, sotto il profilo dei risvolti politici, possano dunque trarsi queste prime conclusioni: a) l’introduzione nella nostra Costituzione del principio del pareggio di bilancio è ascrivibile a un preciso orientamento ideologico e culturale che si fa strada allorché la fine del trentennio di eccezionale espansione economica iniziata dal secondo dopoguerra impone di rivedere il modello di protezioni sociali così come concepito sino ad allora e postula una spesa pubblica più sorvegliata e disciplinata; conseguentemente, prende forza la convinzione che nel rapporto fra politica ed economia si debba andare verso una più netta separazione ed autonomia, sia delimitando il perimetro del governo politico dei rapporti economici, sia vincolando il decisore politico a norme e controlli più stringenti, in particolar modo quando si tratti di finanza pubblica, e la spesa in disavanzo può prestarsi a facile mezzo per gli interessi di una parte politica, ivi compreso il consenso elettorale; b) la globalizzazione dei mercati esige che tutti i Paesi uniti dall’euro garantiscano agli investitori rigore e solidità finanziaria, attuando politiche fiscali convergenti nel contenimento del deficit e riduzione del debito, onde evitare che la crisi di solvibilità di un singolo Stato possa ripercuotersi sulla tenuta dell’intera Eurozona; c) il minore impatto della crisi del 2008 sull’economia tedesca (tasso di crescita, bilancia commerciale, occupazione) ha fatto sì che la Germania pretendesse dai Paesi più colpiti un allineamento tramite misure di austerità, consolidando progressivamente la propria egemonia politico-economica d’impronta neoliberista, a dispetto di una maggiore flessibilità d’indirizzo keynesiano, richiesta quale stimolo alla crescita soprattutto da parte dei Paesi euro del sud in profonda recessione; d) la revisione costituzionale dell’art. 81 Cost. non discende da vincoli giuridici euronitari, ma è stata scelta dal legislatore, fra altri possibili strumenti giuridici,  allo scopo di dare alle istituzioni europee una chiara prova d’intenti, nella fase più critica della crisi del debito per l’Italia, e riscattare il nostro ceto politico dal radicato giudizio d’inaffidabilità; e) l’esempio di lungo periodo degli Stati federati americani ha evidenziato che le regole di bilancio hanno potuto avere efficacia nella misura in cui sono state sorrette da una convenzione politica all’osservanza del principio del pareggio nella gestione della spesa pubblica; f) la ricerca di criteri e parametri sempre più scientifici, cui conformare le regole di bilancio, negli ultimi anni ha sicuramente fatto progressi, ma siamo ancora ben lungi da standard ottimali, i quali, in ogni caso, potranno rendere al più residuale la discrezionalità dell’azione politica.

[1] Legge costituzionale n. 1/20 aprile 2012; legge attuativa n. 243/24 dicembre 2012.

[2] Indicativa è la pur prudente non preclusione alla modifica dei Trattati manifestata di recente da P. C. Padoan, Una strategia europea condivisa per crescita, lavoro e stabilità, MEF, febbraio 2016, p. 10: «Molto si può fare a Trattati invariati, così da costruire consenso sulle revisioni che si rendessero eventualmente necessarie». D’altronde, il DEF 2017 dello scorso aprile ribadisce con chiarezza tale linea d’intenti: «Il Governo italiano ritiene prioritario continuare a promuovere la propria strategia di riforma delle istituzioni europee. È necessaria una nuova governance che, accanto all’integrazione monetaria e finanziaria, dovrà ripartire dalla centralità della crescita economica, dell’occupazione e dell’inclusione sociale, introducendo strumenti di condivisione dei rischi tra i Paesi membri, accanto a quelli di riduzione dei rischi associati a ciascuno di essi. […]. La nuova governance dell’area dovrà incentivare politiche di bilancio favorevoli alla crescita, migliorandone anche la distribuzione tra gli Stati membri» (p. VIII).

[3] Le relazioni sono consultabili nel sito www.cortecostituzionale.it  – Documentazione/Atti di convegni e seminari.

[4] L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, in www.cortecostituzionale.it .

[5] Ivi, passim, pp. 2-11.

[6] M. Luciani, L’equilibrio di bilancio, cit., p. 11.

[7] Nell’ampia letteratura e pubblicistica, si vedano, in particolare, le tesi sull’illegittimità dell’euro in assenza di un governo politico UE di G. Guarino, Un saggio di verità sull’Europa e sull’euro, 2013, consultabile in www.giuseppeguarino.it. Dello stesso autore si veda anche Cittadini europei e crisi dell’euro, Editoriale Scientifica, 2014.

[8] Gli economisti P. De Grauwe e Y. Ji, Panic-driven Austerity in the Eurozone and its Implications, in www.voxeu.org, 21 febbraio 2013, analizzando l’andamento che gli spread dei Paesi del sud dell’Eurozona hanno avuto dal 2011 all’inizio del 2013, in rapporto all’entità delle misure di austerity adottate, sono giunti a conclusioni che  smentiscono il credo liberista circa il nesso stringente fra rigore di bilancio e calo dello spread: 1) Dall’inizio della crisi dei debiti sovrani, i mercati finanziari, in preda alla paura e al panico, hanno fornito informazioni errate, spingendo artificialmente gli spread verso l’alto e costringendo ad un’intensa austerity i Paesi dell’euro sud a corto di liquidità; 2) Allorché, a metà del 2012, la Bce annunciò il suo programma di sostegno illimitato al mercato dei titoli di stato, iniziò una rilevante discesa degli spread, in misura direttamente proporzionale ai valori iniziali (Grecia, Portogallo, e così via); 3) Il panico dei mercati e l’intervento tardivo della Bce hanno indotto nelle autorità politiche processi decisionali non razionali, che hanno forzato l’austerità ben oltre quanto avrebbe richiesto la debolezza dei “fondamentali” di taluni Paesi dell’Eurozona: i Paesi euro mediterranei, costretti ad applicare misure di austerity veloci ed eccessive, non solo sono entrati in profonda recessione, ma hanno anche accresciuto il rapporto debito/Pil; i Paesi euro del nord, in particolare la Germania, liberi dall’austerità, non si sono impegnati in politiche fiscali a contrasto delle spinte deflazionistiche provenienti dal sud, pur possedendo ampi margini di deficit di bilancio a rapporto debito/Pil costante. Riguardo all’incidenza prevalente avuta da fattori esogeni di natura finanziaria (la speculazione sul tasso di cambio dollaro/euro connessa a fluttuazioni monetarie) sull’andamento del tasso d’interesse dei debiti pubblici dell’Eurozona, si veda anche G. Di Gaspare, Anamorfosi dello “spread”, in www.economiaepolitica.it, 28 maggio 2014. Si veda, infine, la severa critica mossa alle politiche egoistiche della Germania da P. Krugman, Being Bad Europeans, in www.NYTimes.com, 30 novembre 2014: contrariamente all’opinione dei policy maker europei e alle campagne di stampa, l’Europa stenterebbe ancora ad uscire dalla crisi, non già perché stia scontando gli effetti negativi di comportamenti scorretti pre-crisi (bilancio fuori controllo della Grecia; produttività stagnante dell’Italia), né di quelli post-crisi (perdita della competitività della Francia; aumento eccessivo di costi e prezzi della Spagna), ma perché la Germania si ostina a mantenere l’inflazione troppo bassa in casa propria ed esporta deflazione in casa altrui.

[9] Come ha acutamente osservato P. De Ioanna, Forma di governo e forma di controllo della finanza pubblica, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 3 (2013), p. 404, dopo dieci anni d’ingenti investimenti straordinari finanziati largamente a debito per realizzare l’unificazione economica e la ristrutturazione industriale, la Germania ha conquistato un livello di produttività e una penetrazione tecnologica che le conferiscono nei confronti del resto dell’Europa una posizione di forza tale che «oggi i tedeschi, ad unificazione conclusa, ci fanno sapere che gli investimenti buoni sono quelli che si fanno non a debito».

[10] Che l’inasprimento dei programmi di austerity seguito alla crisi sia stata la risposta politica, estemporanea ed al ribasso, di un Euro senza Europa è stato efficacemente illustrato da J. E. Stiglitz, The Price of Inequality. How Today’s Divided Society Endangers Our Future (2012), trad. it. di M. L. Chiesara, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, 2014, p. 352: «La sua [scil. euro] istituzione fu un progetto politico: i politici pensavano che condividere la moneta avrebbe avvicinato i paesi, ma non vi era in Europa la coesione sufficiente a compiere i passi necessari a un suo buon funzionamento. L’unica cosa su cui i paesi si accordarono fu di non avere deficit e debiti troppo elevati. Ma, come la Spagna e l’Irlanda hanno prontamente dimostrato, non era abbastanza. Si sperava che nel corso degli anni il progetto politico sarebbe stato perfezionato. Ma, quando le cose funzionavano ancora bene non si trovò mai lo slancio per andare oltre e, dopo la crisi che ha colpito i vari paesi in modi così diversi, è mancata la volontà. Gli stati sono riusciti a mettersi d’accordo soltanto per stringere ulteriormente la cinghia, il che ha spinto l’Europa in una ricaduta recessiva».

[11] La riforma costituzionale del 2012 alla luce della normativa dell’Unione: l’interazione fra i livelli europeo e interno, pp. 2-3, in www.cortecostituzionale.it

[12] In particolare, il Patto Euro Plus è un accordo, sottoscritto dai Capi di Stato e di governo, che non ha natura giuridica vincolante e che presenta, peraltro, dubbia portata giuridica, non essendo stato sottoposto a ratifica parlamentare (Vedi, ivi, p. 2).

[13] A.C. 4205 Cambursano ed altri.

[14] «Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 31 dicembre 2013. Essi comunicano immediatamente alla Commissione il testo di tali disposizioni. Il Consiglio incoraggia gli Stati membri a redigere e rendere pubblici, nell’interesse proprio e dell’Unione, tavole di concordanza indicanti, per quanto possibile, la concordanza tra la direttiva e i provvedimenti di recepimento» (Direttiva 2011/85/UE, art. 15, comma 1).

[15] «Le regole enunciate al paragrafo 1 producono effetti nel diritto nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l’entrata in vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio […]» (Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria, art. 3, par. 2).

[16] Sul fattore politico concordano sia G. L. Tosato, ivi, p. 3 «La scelta della via costituzionale è dipesa, dichiaratamente, da ragioni politiche. In una situazione economico-finanziaria difficile per il nostro Paese, si è inteso rassicurare le istituzioni europee, gli altri Stati membri e i mercati circa la determinazione dell’Italia di rispettare le regole europee di bilancio»; sia M. Luciani, L’equilibrio di bilancio, cit., p. 11 «Un’introduzione che – si badi – non era affatto giuridicamente vincolata […], ma che è parsa politicamente inevitabile, visto il discredito che ormai circondava il nostro Paese».

[17] Il differenziale fra i Btp italiani e i Bund tedeschi passa dai 173 punti base del 4 gennaio 2011 ai 528 del 30 dicembre 2011; ad inizio agosto, supera la soglia dei 300 punti e da settembre non scenderà mai al di sotto di tale quota, toccando il record storico di 574 punti il 9 novembre. Il 19 settembre, l’agenzia Standard and Poor’s decide di declassare il debito sovrano a breve e lungo termine dell’Italia, abbassando il rating da «A+» ad «A» e da «A-1+» «A-1», e conferma la valutazione del maggio precedente, allorché l’outlook era stato modificato da «stabile» a «negativo». In questo contesto, non sorprende che il comunicato dell’agenzia di rating imputi esplicitamente le fibrillazioni dei mercati all’instabilità della situazione politica destinata a perdurare: «L’abbassamento dei rating riflette la nostra opinione circa l’indebolimento delle prospettive di crescita economica e circa la fragilità della coalizione di governo che insieme alle divergenze politiche all’interno del Parlamento continueranno probabilmente a limitare la capacità del governo di rispondere in maniera decisiva al difficile contesto macroeconomico interno ed esterno. […] Riteniamo che l’andamento ad oggi a passo ridotto dell’attività economica italiana renderà difficile il raggiungimento dei nuovi obiettivi fiscali posti dal governo. Inoltre, ciò che noi consideriamo la cauta riposta alle recenti pressioni del mercato indica che il clima di incertezza politica circa le misure da adottare per far fronte ai problemi economici dell’Italia perdurerà anche in futuro. […] Con le elezioni nel 2013 e la debole posizione del governo in Parlamento, non è chiaro cosa si potrà fare per superare l’attuale empasse tra le istituzioni politiche e il governo» (trad. it., Il sole 24 ore, 20 settembre 2011).

[18] Il testo viene approvato, senza modificazioni, in prima deliberazione, alla Camera il 30/11/2011 e al Senato il 15/12/2011; in seconda deliberazione, alla Camera il 06/03/2012 – 489 favorevoli; 3 contrari; 19 astenuti – e al Senato il 17/04/2012 – 235 favorevoli; 11 contrari; 34 astenuti -.

[19] Lettera di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi al governo italiano, pubblicata dal Corriere della sera – 29 settembre 2011.

[20] Sul punto, cfr. ancora M. Luciani, L’equilibrio di bilancio, cit., pp. 11-12.

[21] M. Marè, M. Sarcinelli, La regola del bilancio in pareggio: come assicurarla e a quale livello di governo?, in www.cortecostituzionale.it .

[22] Vedi M. Marè, M. Sarcinelli, cit., pp. 7-9.

[23] Ivi, p. 9.

[24] Vedi ivi, pp. 23-24.

[25] M. Marè, M. Sarcinelli, cit., p. 28. Ricco di spunti interessanti risulta in tal senso M. Humphery-Jenner, Balanced Budget Rules and Expenditure Limits: Lessons from the US and Australia and Implications for the EU, in German Law Journal, vol. 13, 6 (2012). Muovendo dagli esempi di Stati Uniti ed Australia, l’autore individua tre modelli di regolamentazione dell’equilibrio di bilancio e della spesa pubblica: a) vincolo costituzionale; b) norma statutaria “locale”; c) obiettivo di scopo non vincolato normativamente. Benché quest’ultimo (Australia) abbia dato i risultati migliori, necessita tuttavia di una volontà politica bipartisan che ne garantisca l’osservanza. L’obbligo costituzionale (federale) certamente impedisce gli eccessi di spesa, ma limita la flessibilità e la capacità di rispondere alle recessioni con politiche espansive. Preferibile risulta dunque il vincolo statutario istituzionalizzato al livello locale, perché riesce contemporaneamente a obbligare alla prudenza il governo e a garantire una certa flessibilità.

Prof. Esposito Marco

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