La putatività nella struttura del reato con specifico riguardo alle cause di giustificazione

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SOMMARIO:1 introduzione; 2 le cause di giustificazione: nozione, riferimenti normativi, differenziazioni e ratio 2.1 la collocazione sistematica delle cause di giustificazione: tesi a confronto e risvolti applicativi 2.2 l’elemento soggettivo e il reato putativo; 3 la scriminante putativa nella struttura del reato e la c.d. legittima difesa putativa; 3.1 la scriminante putativa nei delitti colposi e valenza processuale.

1 Introduzione

Il termine putativo deriva da putare cioè “credere” e significa presunto, supposto e fa riferimento dunque ad una situazione apparente ma che viene considerata come se fosse reale.

Nel diritto penale la putatività con specifico riguardo alle cause di giustificazione, trova il proprio riferimento normativo al quarto comma dell’art. 59 c.p. che esclude la punibilità dell’agente, salvo ipotesi tassativamente determinate dal legislatore, tutte le volte in cui il reo ha creduto per errore che esistessero circostanze di esclusione della pena a lui favorevoli

Generalmente infatti chi commette un reato incorre in una sanzione di natura penale, ma vi sono dei casi in cui la legge prevede delle cc.dd. cause di giustificazione in presenza della quali il soggetto che ha commesso il fatto non viene punito.

Nel trattare la putatività all’interno delle cause di giustificazione ed al fine di una migliore disamina della tematica oggetto della traccia, occorre preliminarmente soffermarsi su quest’ultime: con specifico riguardo alla definizione, al fondamento normativo, alla ratio, alla loro collocazione sistematica all’interno della struttura del reato ed ai rivolti applicativi che ne derivano; per poi trattare specificamente della esimente putativa e delle implicazioni ad essa connesse.

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2 Le cause di giustificazione: nozione, riferimenti normativi, differenziazioni e ratio

Come accennato, le cause di giustificazione dette anche cause di liceità o scriminanti, sono circostanze particolari in presenza della quali un fatto considerato normalmente reato è autorizzato dalla legge, ma non sono espressamente richiamate dal nostro codice penale con tale definizione, l’art. 59 c.p. infatti fa latu sensu riferimento alle “cause di esclusione della pena”.

E’necessario a tal proposito differenziare le cause di liceità disciplinate dagli artt. 50 e ss. del c.p., da altre figure specifiche che hanno come effetto quello della non applicazione della pena: le scusanti e le cause di non punibilità in senso stretto:

  • mentre infatti la presenza delle cause di giustificazione comporta la liceità del fatto ab origine;
  • le scusanti escludono solo l’elemento soggettivo del reato ovvero la colpevolezza;
  • le cause di non punibilità in senso stretto invece, incidono solo sulla applicazione della pena lasciando permanere la struttura del reato consistente nella tipicità, nella antigiuridicità e colpevolezza, struttura sulla quale sarà necessario soffermarsi a breve.

Effettuate le dovute precisazioni e differenziazioni contenutistiche, è adesso facilmente comprensibile evidenziare che le cause di giustificazione seppur impropriamente contemplate a livello codicistico come cause di esclusione della pena, sono invece da considerare come cause di esclusione del reato in quanto non contemplano, a differenza delle prime, un reato completo di tutti i suoi elementi costitutivi, ma lo rendono fin dall’inizio lecito.

Infine riguardo la ratio delle scriminanti, la stessa è rinvenibile da un lato nel rispetto del principio di non contraddizione consistente nel conflitto logico-giudico che comporterebbe il facoltizzare determinati comportamenti per poi invece punirli; dall’altro nel bilanciamento di interessi fra la reazione punitiva dello Stato a seguito della lesione di determinati beni e la mancanza di dannosità sociale che al contrario giustificherebbe il fatto.

2.1. Collocazione sistematica delle cause di giustificazione: tesi a confronto e risvolti applicativi

Per quanto concerne la collocazione sistematica delle cause di giustificazione all’interno della struttura del reato, occorre da subito evidenziare il riflesso che ne deriva soprattutto in termini applicativi; e con specifico riguardo alle c.d. scriminanti putative ciò si riverbera: dal punto di vista sostanziale sia riguardo all’elemento soggettivo che all’ammissibilità delle c.d. scriminanti atipiche, e dal punto di vista processuale sia riguardo alle formule assolutorie, che alla distribuzione dell’onere della prova.

Sono due i filoni interpretativi che sono stati avanzati in ordine alla collocazione sistematica delle scriminanti nella struttura del reato.

  • Il primo orientamento, aderendo alla concezione bipartita considera solo due gli elementi della struttura del reato ovvero il fatto tipico e la colpevolezza: le cause di giustificazione pertanto non hanno rilevanza autonoma ma sarebbero racchiuse all’interno del fatto tipico come elementi negativi dello stesso, quindi il fatto tipico considerato come l’elemento positivo verrebbe integrato dall’assenza delle scriminanti.
  • Il secondo orientamento invece, aderisce alla concezione tripartita ed assegna alle cause di liceità rilevanza autonoma: le scriminanti pur sempre considerate in senso negativo, in quanto al fine dell’integrazione del reato è necessaria la loro assenza e dunque la presenza dell’ulteriore requisito dell’antigiuridicità del fatto, sono distinte dal fatto tipico e pur sempre dall’elemento soggettivo concernente la colpevolezza.

L’adesione all’una o all’altra teoria come accennato non è di poco conto e si riflette imponentemente sul piano applicativo.

  1. In primo luogo nei confronti della formula assolutoria utilizzata dal giudice nel caso in cui sia presente una causa di giustificazione: se si aderisce alla tesi bipartita allora dovrà essere utilizzata la formula perché il “fatto non sussiste”, in quanto le scriminanti non hanno valenza autonoma, ma come accennato, sono considerate solo come elemento negativo all’interno del fatto tipico; se al contrario si aderisce alla concezione tripartita, il giudice dovrà pronunciare la formula “perché il fatto non costituisce reato”, in quanto ciò che viene meno è il secondo elemento costitutivo della struttura del reato ovvero l’antigiuridicità.
  2. In secondo luogo, l’accoglimento della prima o della seconda teoria, comporta ripercussioni in termini probatori: se si aderisce alla teoria bipartita è sul Pubblico Ministero che grava l’onere di provare il fatto, in quanto l’assenza di cause giustificazione costituisce un elemento negativo del fatto; al contrario l’adesione alla teoria tripartita che considera le cause di giustificazione come elementi impeditivi del reato e non del fatto tipico, non implica da parte del P.M. l’onere di provare l’assenza di una causa di giustificazione, ed imputa alla difesa l’onere di allegare (ma non provare) al di là di ogni ragionevole dubbio, che il fatto tipico sia stato commesso in presenza di una causa di giustificazione.
  3. In terzo luogo, l’accoglimento della teoria tripartita, comporterebbe la possibilità di ammettere anche cause di giustificazione atipiche. Mentre l’adesione alla teoria bipartita che contempla le cause di giustificazione come rientranti all’interno del fatto tipico, comporterebbe che quest’ultimo ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost., debba essere previsto espressamente e tassativamente dalla legge, non lasciando quindi aperte possibilità di ulteriori scriminanti non codificate; al contrario, l’adesione alla teoria tripartita che colloca le scriminanti al di fuori del fatto tipico, lascia aperta la possibilità della sussistenza di ulteriori cause di giustificazione oltre a quelle contemplate dal legislatore e quindi delle c.d. cause di giustificazione atipiche, in quanto non espressamente previste dalla legge.

 

Senza pretesa di assolutezza giova considerare che la teoria che ad oggi trova maggiore consenso è quella tripartita, in base alla quale quindi la struttura del reato è composta da tre elementi caratterizzanti: Il fatto tipico, l’antigiuridicità e la colpevolezza.

Il reato è quindi l’insieme di elementi soggettivi ed oggettivi. L’elemento soggettivo consiste nella colpevolezza che si manifesta nelle forme del dolo e della colpa, quello oggettivo da elementi positivi che devono essere tutti presenti e che non devono mancare ai fini della configurazione del fatto; e da elementi negativi che invece non devono essere presenti e che concernono appunto l’assenza delle cause di giustificazione.

2.2 L’elemento soggettivo e il reato putativo

Considerate quindi le scriminanti come dotate di autonomia all’interno della struttura reato, si è posto il problema se nel processo rappresentativo e volitivo dell’agente, ai fini dell’integrazione del reato debba esigersi altresì la conoscenza della mancanza di scriminanti.

La risposta data è in senso negativo in quanto all’interno del dolo non si contempla anche la rappresentazione dell’assenza di cause di giustificazione. Non si esige infatti da parte dell’agente al fine dell’integrazione del dolo, la consapevolezza della mancanza di tutte le scriminanti, e sarà valutato positivamente anche il soggetto che versi nella convinzione di commettere un illecito penale.

Quest’ultime considerazioni suesposte in ordine all’elemento soggettivo, sono avallate sia dell’art. 5 c.p. che disciplina l’ignoranza della legge penale, che dell’art. 49, comma 1, c.p. che ha ad oggetto il c.d. reato putativo ovvero quel reato che esiste solo nella mente dell’agente ma non nella realtà e che, sulla base del principio di legalità non è considerato illecito penale.

Il nostro ordinamento in questo caso quindi, non considera rilevante la percezione del valore giuridico del fatto da parte dell’agente, attribuendo al contrario rilevanza al fatto oggettivamente realizzato ed alla rappresentazione dell’agente.

Ai fini di una più completa disamina della putatività giova a tal proposito distinguere all’interno del genus del reato putativo summenzionato e disciplinato ai sensi dell’art. 49, comma 1, c.p., fra errore putativo per errore di diritto, per errore di fatto e per errore sulle scriminanti.

  • Nel caso del reato putativo per errore di diritto, l’errore ha ad oggetto la rappresentazione della norma, come nel caso in cui il soggetto è convinto di aver commesso un reato ma la disposizione penale che lo prevedeva è stata abrogata;
  • nel caso del reato putativo per errore di fatto, l’errore riguarda un elemento materiale necessario per integrare la fattispecie incriminatrice, ad esempio quando un soggetto pensa di aver sottratto una cosa altrui che invece nella realtà è di sua proprietà;
  • ed infine il reato putativo per errore sulle scriminanti, dove al contrario dell’art. 59, comma 4, c.p. sopra esplicitato, è presente una causa di giustificazione ma il soggetto non se la rappresenta come esistente.

In tutti questi casi quindi per l’ordinamento giuridico è la realtà che prevale sulla erronea percezione dell’agente ed il reato non è considerato fin dall’origine come esistente.

3 La scriminante putativa nella struttura del reato e la c.d. legittima difesa putativa

Soffermandosi più specificamente sulla rilevanza del putativo nelle cause di giustificazione di cui all’art. 59, comma 4, c.p. e sulle sue implicazioni all’interno della struttura del reato ed accogliendo la teoria delle scriminanti come elementi negativi del fatto di reato (e non del fatto tipico), è possibile comprendere perché la legge attribuisca rilevanza alla erronea presenza di una causa di giustificazione tale da elidere la responsabilità a titolo di dolo.

L’oggetto del dolo infatti è costituito dall’intera rappresentazione e volizione del fatto costitutivo del reato, pertanto nel momento in cui l’agente si configura l’erronea presenza della causa di giustificazione la sua volontà è volta sì al risultato della sua azione ma non se la rappresenta come offesa.

Per meglio comprendere la dinamica da ultimo indicata è possibile fare riferimento al classico esempio della c.d. legittima difesa putativa, ovvero al caso di scuola in cui l’agente abbia voluto uccidere colui che ha considerato erroneamente come un aggressore alla sua vita.

A tal riguardo infatti, affinché possa essere applicata la scriminante in esame è necessario che sussistano tutti gli elementi della legittima difesa reale ex art. 52 c.p. ad eccezione dello stato di pericolo attuale di un’offesa ingiusta, che anziché essere reale è erroneamente ritenuta tale per l’agente sulla base di una valutazione errata ma che avrebbe potuto ragionevolmente trarre in inganno l’uomo di comune esperienza sulla base di un giudizio obiettivo.

Inoltre, con particolare riferimento al convincimento nella legittima difesa putativa, di cui all’ultimo comma ex art. 59, comma 4, c.p., la più recente Corte Suprema penale n. 40414 del 2019 ha ribadito che ai fini della sussistenza della stessa, è necessario che ricorrano le stesse condizioni stabilite per la legittima difesa relativa. Pertanto, non è sufficiente il generico convincimento da parte dell’agente di trovarsi esposto al pericolo di un’ingiusta offesa altrui, ma è necessario che tale convincimento sia esteso alla attualità del pericolo ed alla necessità di agire contra ius pur di salvaguardare la propria incolumità.

A tal proposito occorre soffermarsi sul fatto che la scriminante da ultimo indicata a differenza dell’art. 47, comma 1, c.p., che disciplina l’errore sul fatto che costituisce reato e che parimenti esclude la punibilità dell’agente, non contempla la possibilità che l’agente sia punito per un reato diverso. La causa di giustificazione putativa quindi opererà solo laddove l’agente si sia rappresentato erroneamente, non qualsivoglia reato, ma quel reato riconducibile a quel fatto.

3.1 La scriminante putativa nei delitti colposi e valenza processuale

Infine occorre considerare che l’ultima parte della scriminante di cui all’art. 59, comma 4, c.p., lascia aperta la possibilità della punibilità ai fini della colpa se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

A tal riguardo il giudizio sulla responsabilità dell’agente per errore determinato da colpa si fonderà sulla prevedibilità dell’evento e l’accertamento sarà da effettuarsi su una prognosi da effettuarsi ex ante. Si dovrà quindi considerare se nel caso in cui l’agente non avesse tenuto una condotta negligente, imprudente o imperita ovvero inosservante di leggi, regolamenti, ordini e discipline, l’errore sarebbe stato comunque commesso dall’uomo comune che si fosse trovato nella medesima situazione.

La Corte Suprema di Cassazione penale con sentenza n. 40414 del 2019, summenzionata, ha ribadito che la valutazione pur basata su una prognosi ex ante dovrà comunque essere valutata in concreto in riferimento alle peculiarità che di volta in volta appurate e non in termini astratti ed assoluti.

Occorre inoltre, così come evidenziato dalla più recente Corte di legittimità con sentenza n. 4457 del 2018, specificare che l’errore rilevante ai fini della fattispecie di cui all’art. 59, comma 4, c.p. è quello di fatto e non l’errore di diritto, ed in base alle differenziazioni sopra esplicitate, deve cioè avere ad oggetto elementi oggettivi della fattispecie incriminatrice siano essi di natura giuridica o naturalistica e non quindi l’erronea rappresentazione della norma.

Infine per quanto concerne la dimensione processuale, le cause di giustificazione siano esse reali e putative, hanno ad oggetto la punibilità dell’agente e devono essere pienamente provate.

Infatti mentre laddove una prova insufficiente e contraddittoria su un elemento positivo del fatto porterà inevitabilmente, secondo i capisaldi del diritto penale, ad una sentenza assolutoria  in base al brocardo “in dubio pro reo” e dall’imposizione di una condanna quando il soggetto risulti colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio” anche sulla base del primario principio di legalità; nel caso della scriminante putativa al fine di addivenire ad una sentenza assolutoria è necessario che la prova dell’esistenza della causa di giustificazione sia stata pienamente raggiunta.

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