La presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio nelle società a ristretta base proprietaria

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1. La giurisprudenza di legittimità supera il divieto della doppia presunzione

Le verifiche tributarie condotte nei confronti di società di capitali a ristretta base proprietaria, ove si concludano con l’accertamento di una ricchezza imponibile maggiore di quella dichiarata, comportano, normalmente, l’adozione di plurimi atti impositivi.

In particolare, l’Amministrazione finanziaria notifica l’avviso di accertamento sia all’ente collettivo, recuperando a tassazione l’utile extracontabile emerso al termine dell’attività istruttoria, che ai soci, in tal caso relativamente alla parte di reddito loro imputabile in ragione della quota di partecipazione al capitale sociale da ciascuno detenuta.

E’ stato acutamente osservato che “ In occasione di accertamenti che si concludono con la rettifica di maggiori ricavi o con il disconoscimento di costi ritenuti fittizi, l’Amministrazione è solita contestare anche ai soci della società ( come se ci fosse una società personale) i ricavi sottratti all’imposizione o i costi ritenuti fittizi, in proporzione alla quota di partecipazione1.

L’accertamento del reddito d’impresa in capo al soggetto giuridico, produce, così, evidenti effetti riflessi anche nei confronti dei soci.

La notifica degli avvisi di accertamento a questi ultimi, esige, però, de iure condito, una preliminare, completa e corretta acquisizione di elementi di prova dai quali sia agevole ricavare che l’utile extrabilancio, ove realmente conseguito, sia stato di fatto distribuito ai soci.

E’ necessario, nonché doveroso per l’Amministrazione, anche in ossequio alle disposizioni costituzionali, accertare in capo al socio tutti gli elementi caratterizzanti la fattispecie impositiva, ricchezza imponibile in primis.

Quest’ultima, dunque, dovrà essere imputata al socio non sulla scorta di semplici automatismi accertativi ma attraverso fondate ragioni probanti il trasferimento della ricchezza non dichiarata, dall’impresa collettiva al socio medesimo.

Ne consegue che la fase istruttoria del procedimento tributario, non dovrà solo richiedere la ricostruzione del maggior reddito d’impresa nei riguardi dell’ente collettivo, ma esigerà la doverosa ricostruzione del “tragitto” che la ricchezza ha realmente percorso.

Un socio, ad esempio, ben potrebbe aver posto in essere operazioni commerciali “non fatturate “ all’insaputa degli altri componenti la compagine sociale.

Oppure, potrebbe aver sottratto dalla disponibilità della società materie prime, prodotti finiti o, ancora, beni destinati alla rivendita, in danno della società e dei soci.

La stessa impresa, inoltre, ben potrebbe aver utilizzato il reddito sottratto a imposizione per incrementare il c.d. “ Magazzino “, depositando i beni economici acquistati con ricchezza non dichiarata, in locali diversi da quelli formalmente utilizzati per l’esercizio dell’attività economica.

Altra ipotesi, non affatto da escludere, potrebbe riguardare la condotta contra legem dell’amministratore unico che, violando gli ordinari criteri di diligenza e correttezza, sia incorso in mala gestio ponendo in essere numerosi atti dispositivi “ a nero “, trattenendo per sé, in danno degli altri soci ignari, le somme ricavate.

In tutte queste ipotesi, meramente esemplificative, è evidente che il socio in buona fede o quello che, di fatto, è rimasto estraneo alle condotte antigiuridiche, non ha incrementato il proprio patrimonio personale per difetto di percezione degli utili occulti; non può, quindi, certamente considerarsi titolare di capacità contributiva.

Sarebbe insufficiente, peraltro, ad avviso di chi scrive, la premessa motivazionale secondo cui non risultando costituita una riserva ad hoc, gli utili sarebbero stati tutti distribuiti.

E’ evidente, nonché scontato, che l’imprenditore che ha sottratto ad imposizione materia imponibile non è così ingenuo da costituire un fondo “riserva utili occulti”.

Il principio di cui all’art. 53 della costituzione, caposaldo del sistema tributario, impone che sia verificata e accertata una capacità contributiva che, come osservato da autorevole dottrina2, deve essere concreta ed effettiva: attribuire, sic et simpliciter, un reddito extrabilancio in virtù del solo fatto di appartenere ad una “ristretta” compagine sociale, significa correre il rischio di tassare un reddito che forse non è mai entrato nella sfera giuridico-patrimoniale del contribuente.

La dottrina, in tema di capacità contributiva, ha acutamente ribadito la “ … necessità che ogni imposta, qualsiasi “ contribuzione”, abbia a suo “ fattogeneratore”, a sua “situazione base” un indice di forza economica costituito o da denaro o da ricchezze non monetarie ma agevolmente traducibili, dal dispositore, in denaro attraverso appropriati atti di scambio sul mercato “.3

Il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, esige, tra l’altro, che nel corso della fase istruttoria, prodromica all’eventuale adozione del provvedimento impositivo, l’ente impositore valuti ogni aspetto attinente alla fattispecie impositiva concreta, potendo emettere l’atto tributario solo quando sarà stata raggiunta la prova piena del passaggio della ricchezza ( dalla società al socio) o dopo che saranno stati acquisiti elementi indiziari che, in ogni caso, dovranno adeguatamente superare il vaglio della precisione, concordanza e gravità, secondo quanto prescritto dal combinato disposto di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c..

Il Giudice di legittimità, invero, superando un orientamento giurisprudenziale minoritario che aveva affermato l’invalidità dell’atto impositivo notificato ai soci poiché fondato sulla doppia presunzione ( di primo e secondo grado), ha statuito che “ In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo a quelli di capitale, nel caso di società a ristretta base sociale è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, la quale non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale. Affinchè, però, tale presunzione possa operare occorre, pur sempre, sia che la ristretta base sociale e/o familiare – cioè il fatto noto alla base della presunzione – abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio, sia che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi “.4

Nonostante, secondo la predetta decisione, la ristretta base proprietaria costituisca il fatto noto sul quale si fonda l’accertamento fiscale nei riguardi dei soci, non è mancato un orientamento, seppure minoritario, che ha censurato l’operato dell’ufficio per violazione del divieto della doppia presunzione.

E’ stato, al riguardo, affermato che “ Il principio giuridico secondo il quale, una volta determinata l’esistenza di maggiori utili in capo ad una società, può presumersi, sul presupposto della ristretta base azionaria, che gli stessi utili siano stati distribuiti ai soci, può essere applicato nelle ipotesi in cui i maggiori utili in capo alla società derivino da maggiori ricavi documentati, mentre è inapplicabile, in forza del divieto della doppia presunzione, allorchè già la percezione di maggiori ricavi da parte della società si fondi su presunzioni “.5

 

2. La sospensione del processo tributario

Costituisce, oggi, principio consolidato in giurisprudenza, quello secondo cui il socio destinatario di un avviso di accertamento, fondato sulla distribuzione pro quota del presunto maggior reddito accertato in capo all’ente collettivo, può, legittimamente, chiedere la sospensione del processo tributario ai sensi e per gli effetti dell’art. 295 del c.p.c.6 sino a quando il giudizio incardinato dalla società contribuente non si sia concluso con sentenza passata in giudicato7.

La Suprema Corte di Cassazione, al riguardo, nell’esercizio della sua funzione di nomofilachia, ha statuito, in tema di sospensione del giudizio tributario, che “l’accertamento tributario nei confronti di una società di capitali a base ristretta, nella specie riferito ad utili extracontabili, costituisce un indispensabile antecedente logico giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, con la conseguenza che, non ricorrendo, com’è per le società di persone, un’ipotesi di litisconsorzio necessario, in ordine ai rapporti tra i rispettivi processi, quello relativo al maggior reddito accertato in capo al socio deve essere sospeso ai sensi dell’art. 295 cod. proc. Civ., applicabile nel giudizio tributario in forza del generale richiamo dell’art. 1 del D. Lgs. n. 546 del 19928.

Detta impostazione risponde all’esigenza di stabilire prima, in via definitiva, la fattispecie impositiva base nei riguardi della società, per poi valutare la posizione fiscale dei soci; ciò, sul piano logico-giuridico, al fine di impedire che il socio sia chiamato ad adempiere un’obbligazione tributaria per fatti e circostanze ancora oggetto di accertamento giudiziale, in quanto riferibili ad un’impresa societaria.

Autorevole dottrina, osserva, in tema di sospensione del processo, che “ …. La connessione di cause presupposta nell’art. 295 sia rappresentata dalla pregiudizialità dipendenza di natura sostanziale; ossia da quella peculiare relazione fra rapporti giuridici caratterizzata da ciò che l’esistenza o l’inesistenza ( originaria o sopravvenuta) di un diritto o di uno status dipende, per l’appunto, dall’esistenza o dall’inesistenza ( nonché, se del caso, dall’avvenuto esercizio) di un diverso diritto o status che si profila, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio, quale fatto costitutivo oppure, all’inverso, quale fatto impeditivo, modificativo o estintivo del primo9.

Soprattutto a seguito della citata decisione della Suprema Corte, le richieste di sospensione dei processi tributari presentate dai soci destinatari di avvisi di accertamento, sono notevolmente aumentate.

Ove l’istanza di sospensione sia accolta e il giudizio incardinato dalla società si concluda con decisione favorevole all’Amministrazione finanziaria, il socio ricorrente dovrà rigorosamente osservare i termini perentori entro cui proseguire il processo sospeso, che inizieranno a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il ricorso proposto dalla società.

L’omessa prosecuzione, infatti, comporterebbe l’estinzione del processo sospeso rendendo definitiva la pretesa impositiva contestata al socio.

 

3. La presunzione di distribuzione secondo la giurisprudenza

La giurisprudenza di merito ha più volte affermato che la presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito accertato in capo alla società a ristretta base proprietaria, deve necessariamente essere sorretta da ulteriori elementi quali l’acquisto, da parte del socio, di beni di significativo valore o il possesso di beni che costituiscano indici di un reddito superiore a quello dichiarato10.

Quand’anche l’Amministrazione agisse sulla scorta di elementi presuntivi, rispettosi delle disposizioni dettate in materia, nulla vieta che il contribuente possa dimostrare che i beni de quibus sono stati acquistati con redditi debitamente dichiarati o con redditi legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.

Secondo un interessante filone giurisprudenziale, “ Affinchè i redditi extrabilancio, sul cui conseguimento da parte della società vi sia assoluta certezza, possano essere legittimamente tassati in capo ai soci, è necessario che sussista la prova che tali disponibilità siano state effettivamente distribuite11.

La giurisprudenza di merito ha inoltre ribadito che “ L’agenzia delle entrate deve motivare con elementi di fatto certi il rapporto sinallagmatico esistente fra il maggior reddito accertato in capo alla società e da questa successivamente distribuito ai soci. La ristretta base societaria non è di per sé presunzione legale o relativa affinché il maggior reddito imputabile alla società si consideri automaticamente distribuito ai soci solo perché a ristretta base azionaria. L’iter logico posto alla base di simile ragionamento conduce irragionevolmente in una situazione di colpa il socio che appartiene ad una società a ristretta base azionaria rispetto ad un altro socio di una società la cui compagine sia più numerosa12.

Ne consegue che “Il principio della automatica traslazione di ricavi non contabilizzati dalla società di capitali, a ristretta base sociale, ai soci come reddito imponibile ai fini Irpef, non può trovare automatica ed acritica applicazione. La ristretta base sociale, infatti, costituisce soltanto il fatto noto alla base della presunzione di distribuzione che però deve essere avvalorata da altri elementi indiziari che consentano di risalire al fatto ignoto che è l’effettiva distribuzione dei maggiori utili accertati13.

Il percorso argomentativo riscontrabile in alcune decisioni, induce, con ampia condivisione da parte di chi scrive, a ritenere che anche dopo la pronuncia di una sentenza passata in giudicato, che accerti definitivamente l’utile extracontabile in capo alla società, sia possibile contestare la pretesa creditoria formulata nei confronti dei soci ove esistano elementi di prova attraverso i quali dimostrare che la ricchezza evasa è stata reinvestita nell’attività sociale e mai, dunque, distribuita.

Al riguardo, la giurisprudenza tributaria ha statuito che “ In tema di accertamento di imposta sul reddito di società di capitali a ristretta base azionaria, nell’ipotesi di accertamento di utili non contabilizzati resisi definitivi con sentenza inappellabile opera la presunzione di attribuzione “ pro quota “ in capo ai soci degli utili stessi, salvo la prova contraria che i maggiori ricavi siano stati accantonati oppure reinvestiti “.14

La giurisprudenza di merito, peraltro, in non poche circostanze, ha chiarito che l’estraneità del socio all’esercizio dell’attività d’impresa, costituisce un valido elemento indiziario che ben può condurre a superare la presunzione di distribuzione degli utili occulti.

Soprattutto allorquando il socio accertato dimostri che durante il periodo d’imposta cui si riferisce la pretesa impositiva, prestava attività lavorativa al di fuori dei confini nazionali.

In tale circostanza, secondo i giudici di merito, le argomentazioni addotte dal socio ricorrente, quand’anche munite di portata indiziaria, hanno consentito di stabilire che sua partecipazione al raggiungimento dell’oggetto sociale “ non può che essere stata, se non completamente nulla, del tutto marginale e priva di qualunque ritorno economico in termini di utili societari15.

Anche in altri casi, i giudici tributari hanno accolto il ricorso proposto dal socio che in sede contenziosa è riuscito a dimostrare di non aver mai partecipato alla gestione sociale e, quindi, di essere estraneo alle violazioni contestate all’impresa societaria.16

Il ruolo marginale ricoperto dal socio all’interno della struttura commerciale e produttiva della società, unitamente ad una sua condotta incolpevole, costituiscono, dunque, in sede contenziosa, valide ragioni utilizzabili per escludere la distribuzione del reddito sociale occulto.

Secondo la giurisprudenza, infatti, “La presunzione di distribuzione di utili derivante dall’accertamento in capo alla società e’ legittima solo se l’Ufficio comprova che la ristretta base azionaria e’ accompagnata da una organizzazione aziendale tale che ciascuno dei soci abbia un controllo sufficiente sull’effettivo andamento aziendale e che comunque sussista una sostanziale lealtà di fondo – e non complicità – nell’interesse comune all’interno del gruppo ristretto “ 17.

 

1 F. FALCONE – A. IORIO, Rettifica Srl in corso, soci indenni, in Il Sole 24 Ore 22/08/2011, Norme e Tributi, p. 1

2 N. D’AMATI – A. URICCHIO, Corso di Diritto Tributario, Padova, 2008, p. 37, secondo cui “ La capacità contributiva dev’essere, altresì, reale, nel senso che essa deve fare riferimento a situazioni giuridiche attuali, anche nell’ipotesi in cui la fattispecie si sia verificata in u periodo d’imposta precedente, sempreché la capacità contributiva risulti ancora presente; inoltre occorre che l’imposizione si fondi su circostanze effettive e non già astratte o meramente ipotetiche “.

3 G. FALSITTA, Corso istituzionale di Diritto Tributario, Padova, 2012, p. 80

4 Cassazione sentenza n. 9519/09, in G. CIAN – A. TRABUCCHI, Commentario breve al Codice Civile, Padova, 2011, p.3676

5 Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi, Sez. II, sentenza n. 171 del 12/10/2010, in Massimario delle Commissioni Tributarie della Puglia, anno 2011, p. 128

6 La disposizione processualcivilistica di cui all’art. 295 c.p.c., stabilisce che “ Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa “.

7 F. FALCONE – A. IORIO, Op. cit., i quali osservano che “ In queste ipotesi, dato che non c’è litisconsorzio necessario, al socio che ha intrapreso il contenzioso converrà chiedere la sospensione del procedimento in base all’art. 295 del Codice di procedura civile (….)Nel caso specifico, si chiederà di attendere la definitività dell’accertamento nei confronti della società “.

8 Sentenza n. 2214 del 31/01/2011, in M. IACOBELLIS, A. PANICO, R. PELLECCHIA, G. SENSALE, ( a cura di ), Codice di procedura civile annotato con la Giurisprudenza, XVII Edizione, Napoli, 2011, p. 953

9 G. BALENA, Elementi di Diritto Processuale Civile, Volume secondo, Tomo I, Terza Edizione, Il processo ordinario di primo grado, Bari, 2006, p. 252

10 In tal senso, Commissione Tributaria Regionale Puglia, Sez. XXIII, sentenza n. 66 del 13/04/2007, in Ipsoa-GT- Rivista di Giurisprudenza tributaria, n. 10/2007

11 Commissione Tributaria Regionale Puglia, Sez. XXIV, sentenza n. 439 del 28/01/2008, in Massimario delle Commissioni Tributarie della Puglia, anno 2009, p. 99

12 Commissione Tributaria Regionale Ancona, Sez. II, sentenza n. 6/2/9 dell’11/01/2009, in Massimario della Commissione Tributaria Regionale Marche, anno 2009, p. 2

13 Commissione Tributaria Regionale Toscana, Sez. I, sentenza n. 128 del 8/09/2010, in Banca dati def.finanze.it, Documentazione economica e finanziaria; in tal senso, anche Cassazione sentt. n. 14046 del 17/06/2009 e n. 9519 del 24/04/2009.

14 Commissione Tributaria Regionale di Bologna, Sez. XI, sentenza n. 64/11/07 del 19/09/2007, in Massimario delle Commissioni Tributarie dell’Emilia Romagna, anno 2008, p. 25

15 Commissione Tributaria Regionale Puglia, sentenza n. 40/6/11, autorevolmente commentata in Il Sole 24 Ore del 5/09/2011, Norme e Tributi, D. CARNIMEO, L’estraneità alla gestione evita la presunzione sugli utili occulti.

16 Commissione Tributaria Regionale Toscana, Sez. 1, sentenza n. 396 del 18/10/2011, in Banca dati def.finanze.it, Documentazione economica e finanziaria; con la decisione de qua, è stato affermato che “ Nel caso di società di capitali a ristretta base sociale è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili. Poiché si tratta di presunzione semplice è consentita la prova contraria. Pertanto, un socio che dimostra di non aver avuto parte nella gestione sociale, in quanto mero intestatario delle quote che in realtà spettavano ad altri, dimostrando altresì la mancata percezione degli utili occulti, non può essere oggetto dell’accertamento a suo carico di detti utili “.

17 Commissione Tributaria Regionale Toscana, n. 62/31/09 del 7/05/2009, in Massimario della Commissione Tributaria Regionale Toscana, anno 2009.

Gennaro Di Gennaro

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