La presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere: l’eccezione alla regola del “minor sacrificio necessario”

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I provvedimenti cautelari: definizione e caratteristiche

Le misure cautelari consistono in provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria aventi forza limitativa della libertà personale di un soggetto, determinando restrizioni finalizzate alla prevenzione di taluni pericoli che possano insorgere durante un procedimento penale.

Si suddividono in misure personali (differenziandosi a loro volta in coercitive ed interdittive) e reali (sequestro preventivo e conservativo), a seconda che comportino una limitazione nella sfera soggettiva fisica ovvero nella sfera patrimoniale di un determinato soggetto. Tali provvedimenti risultano provvisori, in quanto possono essere oggetto di modifica e/o revoca, ed immediatamente esecutivi, incidendo sullo status libertatis subito dopo la pronuncia proveniente dal giudice. In ossequio al primo comma dell’art. 13 della Carta Costituzionale, se da un lato l’applicabilità delle suddette misure sembri contrastare con  il principio di inviolabilità della libertà personale, dall’altro gli stessi Padri Costituenti, attraverso l’introduzione del secondo comma, hanno posto una vera e propria deroga, autorizzando forme di restrizione, ma solo attraverso un atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Da ciò deriva la sussistenza di una duplice garanzia, estrinsecandosi di fatto nella “riserva (assoluta) di legge” e nella “riserva di giurisdizione” 

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I presupposti applicativi ai sensi degli articoli 273 c.p.p. e 274 c.p.p.

Il magistrato inquirente/requirente, prima di avanzare al Giudice una richiesta di disposizione di una misura cautelare, deve verificare se sussistono le condizioni nonché i presupposti legittimanti l’emissione del provvedimento restrittivo. Premesso che tali misure possono disporsi laddove sussista la punibilità in concreto e si proceda per un delitto per il quale la legge stabilisce una pena di reclusione superiore nel massimo ai tre anni (non inferiore nel massimo ai cinque anni, nel caso di misura carceraria), l’ufficio della Procura è obbligato ad eseguire una prognosi circa la sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p. e delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p.

Per ciò che concerne il primo presupposto, gli indizi possono definirsi gravi allorché siano acquisiti elementi probatori dai quali si possa ritenere, con alto grado di probabilità, che il reo risulti responsabile penalmente per il fatto criminoso addebitatogli. A tale proposito, rappresentano senz’altro validi spunti investigativi prodromici all’emissione di una misura restrittiva, le dichiarazioni rese dall’indagato in sede di interrogatorio, le informazioni acquisite da potenziali testimoni, il rinvenimento del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato (in sede di sopralluogo, ma anche a seguito di una perquisizione), la chiamata in reità o correità (ampliandone la credibilità con i dovuti riscontri), le dichiarazioni rese dagli informatori di polizia giudiziaria, nonché i risultati delle intercettazioni espletate nei modi e casi stabiliti dalla legge. Inoltre, nulla quaestio in ordine alla valutazione della sola gravità degli indizi, e non della loro precisione e concordanza, non richiamando la normativa il disposto di cui all’art. 192, co. 2.

Oltre all’articolo 273 c.p.p. testé analizzato, anche il disposto ex art. 274 c.p.p. funge da parametro applicativo di una misura cautelare. La normativa de qua fonda la sua ratio ispiratrice nella garanzia circa il corretto svolgimento del procedimento penale, impedendo l’insorgenza di taluni pericoli che possano, appunto, minare il flusso procedurale. Al riguardo, le misure cautelari possono disporsi laddove emergano delle esigenze da soddisfare in concreto, quali la prevenzione di un pericolo attuale e concreto di “inquinamento probatorio”, la prevenzione di un pericolo attuale e concreto di fuga da parte dell’indagato/imputato,  la prevenzione circa il pericolo attuale e concreto di reiterazione dello stesso delitto per cui si procede nonché il pericolo di commissione di delitti di criminalità organizzata o con uso delle armi o di altri mezzi di violenza personale. E’ utile precisare che è sufficiente che sussista anche una sola di suddette esigenze al fine di giustificare l’applicabilità di una misura limitativa della libertà personale.

I criteri di scelta e le “presunzioni”. In particolare, la custodia cautelare in carcere

La scelta di disporre una qualsivoglia misura cautelare non avviene secondo una linea discrezionale, ma essa deve rispondere a rigorosi criteri che l’autorità giudiziaria è tenuta a seguire. La prognosi del giudice deve orientarsi necessariamente verso il rispetto tassativo dei criteri di proporzionalità ed adeguatezza. Nel primo caso, l’entità del fatto e la sanzione che sia stata o si considera possa essere irrogata, rappresentano gli elementi indefettibili che il giudice deve sottoporre al suo vaglio al fine di decidere quale sia la misura più ragionevole da poter disporre.

La disamina avente ad oggetto l’entità del fatto, è essenziale nello stabilire se il fatto illecito sia connotato da una certa gravità tale da richiedere l’applicabilità di qualsivoglia misura restrittiva ai danni del soggetto che lo abbia commesso. Risulta ovvio che se il fatto criminoso contestato non desti particolare allarmismo sociale, nulla esclude che il giudice ad esempio decida di non accogliere la richiesta del Pubblico Ministero; ciò anche laddove ovviamente la pena prevista per quel delitto addebitato non sia superiore ai tre anni, con la necessaria precisazione che se la richiesta venga presentata in sede di udienza di convalida di arresto o fermo, il

giudice sarà legittimato, previa verifica di altri presupposti, nel pronunciare un provvedimento restrittivo, a prescindere dal rispetto dei limiti edittali. Ciò in quanto l’articolo 280 c.p.p. contiene una clausola che fa salva la normativa ex art. 391 c.p.p. Il criterio di proporzionalità è strettamente correlato a quello di adeguatezza, estrinsecandosi nella verifica sostanziale circa la specifica idoneità di ciascuna misura in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto.

Il rispetto del canone di adeguatezza emerge chiaramente alla stregua della disposizione normativa di cui all’art. 275, comma 1, la quale, d’altra parte, deve essere letta in combinato disposto di cui ai commi 3, primo periodo, e 3-bis dello stesso articolo. La fusione delle suddette disposizioni genera inevitabilmente il baluardo cautelare della cosiddetta “extrema ratio”, accezione latina che esprime in ottica gradualistica e deflattiva un riconoscimento preferenziale per le misure restrittive meno invasive a discapito di quelle maggiormente afflittive, alla luce della regola del “minor sacrificio necessario.” In altre parole, la misura carceraria può essere disposta solo laddove le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate, con la ineludibile precisazione che se il giudice ritenga di applicare la custodia in carcere è obbligato ad indicare le specifiche ragioni per cui consideri inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari. Pertanto, abbracciando i criteri di adeguatezza nonché gradualità, è evidente che la custodia cautelare in carcere risulta qualificata quale misura avente natura eccezionale, da applicare in extrema ratio.

L’eccezionalità applicativa della custodia carceraria, però, non sempre risulta rilevabile. Su tale scia, il legislatore ha enucleato ipotesi le quali lasciano prevedere come la regola del minor sacrificio necessario venga superata dalla presunzione assoluta di adeguatezza della misura cautelare in carcere. Invero, come delineato dal comma 3, secondo periodo, di cui all’art. 275, allorché sussistano gravi indizi di colpevolezza in relazione ai delitti di associazioni sovversive, associazioni con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico nonché ai delitti di associazioni di tipo mafioso anche straniero, il giudice è obbligato ad emettere un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, stante una presunzione relativa in merito al profilo del  “periculum libertatis”; in tale ultimo caso, deve sussistere almeno un’esigenza cautelare da soddisfare, la cui mancanza determina la revoca del provvedimento restrittivo in oggetto. Di converso, in caso di solo affievolimento delle esigenze suindicate, al giudice sarà negata la possibilità di poter addivenire alla sostituzione della misura con un’altra meno invasiva. Ciò in quanto laddove si proceda per i reati testé elencati, lo spazio del “cautelare” risulta governato dall’automaticità applicativa della custodia carceraria, secondo una logica di presunzione assoluta di adeguatezza che non lascia margini di superabilità, non ammettendosi la prova contraria.

Duole ripetere che l’unico modo che possa orientare il giudice verso la potenziale decisione di rimettere in libertà l’autore del presunto reato, è rappresentato dal venir meno (non dall’affievolimento, si badi) del presupposto delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto; in sostanza, è necessario fornire una concreta dimostrazione probatoria circa la totale rescissione da parte dell’indagato/imputato del vincolo che lo lega(va) alla criminalità organizzata ovvero a qualsivoglia associazione di stampo criminal-mafioso. Sulla scia di quanto sostenuto, non si può fare a meno, inoltre, di rammentare una pronuncia proveniente dalla Corte Costituzionale, in merito all’applicabilità o meno della normativa in esame anche alle fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa. A tale proposito, la Consulta, con sentenza n. 48/2015, ha sostenuto che risulta “parzialmente illegittimo l’art. 275, co. 3, secondo periodo, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenza cautelari – non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno al suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

In ultima analisi, giova osservare che l’ultimo periodo del disposto ex art. 275 co. 3 c.p.p., elenca taluni delitti per i quali non regna la logica improntata sull’automatismo, bensì prevale la presunzione relativa, con annessa legittimità della prova contraria, sia per ciò che concerne il profilo dei gravi indizi di colpevolezza, sia riguardo il profilo del periculum libertatis, Ciò significa che, sebbene la normativa consideri la custodia cautelare in carcere la misura primaria da valutare ai fini di una sua potenziale applicabilità nel caso specifico, non è da escludere che siano acquisiti elementi dai quali risulti la mancata sussistenza delle esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, tali esigenze possono essere soddisfatte con altre misure. 

Tale presunzione relativa è prevista in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater cod. proc. pen., nonché in relazione ai delitti di omicidio (art. 575 c.p.), prostituzione minorile (art. 600-bis c.p.), pornografia minorile (art. 600-ter c.p.), iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-quinquies c.p.), violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.) e violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.). 

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Dott. Raffaele Pellino

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