La piattaforma di condivisione di contenuti è responsabile delle violazioni dei suoi utenti

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Il 14 giugno c.a., la Corte di Giustizia Europea, nella causa C-610/15, ha deciso una controversia tra la Stichting Brein, una fondazione che protegge gli interessi dei titolari del diritto d’autore e la Ziggo BV nonché la XS4ALL Internet BV, fornitori di accesso a Internet, relativamente ad alcune domande presentate dalla Stichting Brein e dirette a far ingiungere alle due società di bloccare i nomi di dominio e gli indirizzi IP della piattaforma di condivisione online «The Pirate Bay» (in prosieguo: la «piattaforma di condivisione online TPB»).

La Corte Suprema olandese aveva sottoposto il caso alla CJEU ponendo la seguente questione: “se si configuri una comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva [2001/29], ad opera del gestore di un sito Internet ove sul sito in parola non si trovano opere protette, ma esiste un sistema (…) con il quale vengono indicizzati e categorizzati per gli utenti metadati relativi ad opere protette disponibili sui loro computer, consentendo loro in tal modo di reperire e caricare e scaricare le opere protette“.

La decisione è di particolare rilievo per diversi motivi ma soprattutto perché, in prospettiva comparatistica, alcuni principi fissati dal Giudice Europeo risultano essere in piena sintonia con la più recente giurisprudenza italiana e in particolare, con la recentissima sentenza n. 2833/2017 del 28.4.2017 della Corte d’Appello di Roma sul caso RTI c. Break Media (già commentata qui).

 

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La CJUE, come i giudici di Roma, nel valutare il grado di coinvolgimento della piattaforma di condivisione di contenuti TPB nell’attività di comunicazione al pubblico degli stessi, hanno anzitutto rilevato che “nel caso di specie occorre constatare anzitutto […] che è pacifico che opere protette dal diritto d’autore sono messe, mediante la piattaforma di condivisione online TPB, a disposizione degli utenti di tale piattaforma, di modo che questi possono accedervi dal luogo e nel momento che scelgono individualmente” (punto 35).

E’ pacifico quindi che senza l’esistenza della piattaforma online, quindi e anzitutto, gli utenti non potrebbero accedere, fisicamente, alle opere di terzi.

Rilevante è, ai fini della responsabilità dei gestori della piattaforma in questione, anche l’elemento soggettivo della consapevolezza –da parte degli stessi- dell’apporto causale da essi fornito (attraverso la piattaforma) per consentire l’accesso abusivo alle opere predette (“Tuttavia detti amministratori, mediante la messa a disposizione e la gestione di una piattaforma di condivisione online, come quella di cui al procedimento principale, intervengono con piena cognizione delle conseguenze del proprio comportamento, al fine di dare accesso alle opere protette,punto 36).

Nel valutare se, nella fattispecie, sussistessero le condizioni per poter affermare l’esistenza di un atto giuridicamente rilevante di “comunicazione” e di un “pubblico nuovo”- lesivo dei diritti esclusivi di cui all’articolo 3 della Direttiva 2001/29- la CJUE ha rilevato che nel caso in esame i gestori della piattaforma online in oggetto non si limitavano a una mera attività tecnica, e dunque neutra, di gestione dei dati immessi dagli utenti. Infatti, è stato correttamente evidenziato come i gestori della piattaforma provvedessero a indicizzare i file torrent, di modo che le opere a cui tali file torrent rinviano possono essere facilmente localizzate e scaricate dagli utenti della suddetta piattaforma di condivisione (“indicizzando ed elencando su tale piattaforma i file torrent che consentono agli utenti della medesima di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una rete tra utenti”, punto 36 etale piattaforma provvede a indicizzare i file torrent, di modo che le opere a cui tali file torrent rinviano possono essere facilmente localizzate e scaricate dagli utenti”, punto 38).

Inoltre, i giudici europei hanno altresì dato peso al fatto che la piattaforma di condivisione online TPB proponesse, ai medesimi fini di rintracciamento delle opere contraffatte da parte degli utenti, un motore di ricerca e fornisse un’attività di classificazione delle opere stesse in diverse categorie, “a seconda della natura delle opere, del loro genere o della loro popolarità (punto 38), unitamente al fatto che gli amministratori verificasseron che un’opera sia inserita nella categoria adatta. Inoltre detti amministratori provvedono ad eliminare i file torrent obsoleti o errati e filtrano in maniera attiva determinati contenuti (punti 38 e 39 della decisione).

Un’attività, insomma, che in altra nota sentenza della Corte europea era stata più semplicemente qualificata come di “ottimizzazione” e di “promozione” dei materiali illeciti, tale da rendere il gestore della piattaforma online come operatore “attivo”, sottratto pertanto al regime di limitazione della responsabilità di cui all’art. 14 della Direttiva 2000/31/UE (“Laddove, per contro, detto gestore abbia prestato un’assistenza consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva 2000/31”, C‑324/09, L’Oréal c. eBay, punto 116 della sentenza).

Peraltro, specifica la Corte, “non si può contestare che la messa a disposizione e la gestione di una piattaforma di condivisione online, come quella di cui al procedimento principale, sono realizzate allo scopo di trarne profitto, dal momento che tale piattaforma genera, come risulta dalle osservazioni presentate alla Corte, considerevoli introiti pubblicitari(punto 46).

Tale attività, continua il Giudice europeo, non realizza una “mera fornitura” di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione, ai sensi del considerando 27 della direttiva 2001/29. Bensì, costituisce una chiara condotta attiva del provider (il quale “filtra in maniera attiva determinati contenuti”, punto 38 sentenza C-610/15) costituente atto di comunicazione, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29.

Tale reasoning si pone perfettamente in sintonia con quello fornito dal giudice d’appello di Roma nel già richiamato caso RTI c. Break Media. Infatti, anche in quell’occasione il giudice italiano aveva ritenuto che l’attività svolta dal provider Break Media non poteva ritenersi limitata alla sola fornitura di un supporto tecnico per consentire agli utenti di accedere alla piattaforma digitale; ma tale attività era “risultata ben più complessa ed articolata di una attività di tipo neutro, automatico e meramente tecnico , tenuto conto delle pluriarticolate attività svolte dal provider nella gestione dei contenuti immessi sulla propria piattaforma digitale”.

Anche il primo giudicante aveva chiarito che tale attività di gestione del portale online Break Media si concretizzasse proprio nell’attività di indicizzazione e catalogazione dei contenuti, oltre che allo sfruttamento degli stessi a fini economici.

Negli stessi termini si è già espresso lo stesso Tribunale delle Imprese di Roma con sentenza 14279/2016 del 15 luglio 2016 sul caso RTI c. Megavideo (già commentata qui): anche in tale occasione i giudici romani avevano rilevato che detta piattaforma di condivisione non avesse un comportamento agnostico rispetto ai contenuti caricati dagli utenti sulla base di attività di ottimizzazione e catalogazione dei contenuti effettuata direttamente dai gestori della stessa.

Perfettamente allineato a tale reasoning è anche il Tribunale delle Imprese di Milano, con le due note sentenze RTI c. Italiaonline ed RTI c. Yahoo!: in entrambi i casi i giudici milanesi avevano rilevato la presenza di un coinvolgimento diretto delle piattaforme di condivisone dei contenuti nella violazione dei diritti autorali di RTI, tra l’altro, sulla base di attività di catalogazione ed indicizzazione dei video di RTI abusivamente pubblicati nonché per l’esistenza di uno sfruttamento economico degli stessi su base pubblicitaria.

In conclusione, non si potrà negare come la giurisprudenza nazionale e comunitaria stia prendendo sempre più coscienza della portata del fenomeno della pirateria digitale che negli ultimi anni si è diffusa senza limiti tra il pubblico con grossi effetti negativi sull’economia del mercato audiovisivo (cfr. studio FAPAV del 5 giugno 2017).

Sentenza collegata

51069-1.pdf 221kB

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Alessandro La Rosa

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