La figura del “piccolo imprenditore” nella Riforma del Diritto Fallimentare

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Con la pubblicazione del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n.5, avvenuta in G.U. n.12, del 16 gennaio 2006, è giunta a compimento la controversa “riforma” della disciplina delle procedure concorsuali contenuta nel regio decreto 16 marzo 1942, n.267[1].
Il suddetto Decreto Legislativo è stato emanato in virtù della delega contenuta nella legge 14 maggio 2005, n.80, di conversione con modificazioni del decreto legge 14 marzo 2005, n.35 (c.d. “decreto competitività”).
La nuova disciplina entrerà completamente in vigore il 16 luglio 2006 (anche se talune disposizioni non sono soggette a tale efficacia “differita” ma, diversamente, risultano essere immediatamente vigenti) e si applicherà alle procedure avviate con ricorso per dichiarazione di fallimento depositato a decorrere da tale data.
Le innovazioni introdotte dal D.Lgs. n.5/06 appaiono, ad una prima lettura, di rilevante portata negli obbiettivi, in quanto, recependo una parte delle conclusioni cui è giunta, negli oltre sessanta anni di applicazione della Legge Fallimentare, la dottrina e la giurisprudenza, e, contemperando la rigorosa applicazione del diritto con le cogenti ragioni di contenimento della spesa pubblica e di economicità dell’azione dei poteri statali, il legislatore ha ridisegnato profondamente gli istituti concorsuali.
Tuttavia, l’intervento del legislatore delegato non ha, certamente, brillato per chiarezza terminologica, creando una situazione di incertezza che, con grande probabilità, darà adito ad interpretazioni potenzialmente difformi innanzi alle Corti territoriali che dovranno occuparsi del contenzioso pre-fallimentare.
Al fine di non dilungarci in aspetti della riforma che, pur incidenti sui profili specifici cui verte il presente intervento, possono essere, in una prospettiva di estrema sintesi, temporaneamente tralasciati, introdurremo immediatamente l’argomento che ci accingiamo a trattare, evidenziando che, con particolare riferimento alla ridefinizione della figura del “piccolo imprenditore”, gli obbiettivi di contenimento della spesa pubblica e dell’economicità dell’azione dei poteri statali appaiono aver fortemente condizionato l’operato del legislatore.
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Per poter adeguatamente comprendere le significative innovazioni introdotte dal D.Lgs. n.5/06 in tema di “piccolo imprenditore” occorre riassumere, sia pur brevemente, il dettato normativo ante riforma e le espressioni dottrinarie e giurisprudenziali che sulla base dello stesso si sono formate
L’articolo 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n.267, esclude espressamente dal novero di coloro che sono soggetti alle disposizioni sul fallimento i “piccoli imprenditori”; è bene, quindi, definire quale sia, agli effetti della legge fallimentare, l’estensione della nozione di “piccolo imprenditore”.
A seguito dell’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità del 2° comma dell’articolo 1 l.f., contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale n.570 del 22 dicembre 1989 (edita in Dir. Fall., 1990, II, 91), che istituiva un parametro “quantitativo” volto ad distinguere il “piccolo” dal “medio-grande” operatore economico, la giurisprudenza ha affermato che per definire la figura del “piccolo imprenditore” è necessario ricorrere alle ordinarie norme civilistiche (in tal senso Trib. Firenze, 31 luglio 1990, in Dir. Fall., 1990, II, 1477; nonché Trib. Milano, 21 gennaio 1991, in Fall., 1991, 747; nonché App. Firenze, 29 gennaio 1992, in Nuovo Dir., 1992, 435).
Pertanto, la qualità di piccolo imprenditore, in conformità col disposto dell’articolo 2083 cod. civ., deve essere accertata in relazione al genere di attività svolta, all’organizzazione dell’impresa ed alla prevalenza del lavoro proprio e dei componenti il nucleo familiare rispetto agli altri elementi valutati.
La categoria dei “piccoli imprenditori” non soggetta all’applicazione delle norme contenute nella legge fallimentare appare, pertanto, essere composta esclusivamente da: a) i coltivatori diretti del fondo; b) gli artigiani; c) i piccoli commercianti; d) coloro che esercitano un’attività professionale prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia.
L’art.1, 2° comma, della Legge Fallimentare, nella sua formulazione vigente sino al 15 luglio 2006 esclude che possano essere definiti “piccoli imprenditori” le società commerciali.
Le categorie dei “piccoli commercianti” e degli “artigiani” sono quelle in relazione alle quali si è riscontrato il più vivace dibattito dottrinario e giurisprudenziale, le cui conclusioni si sono, ancorché non completamente, consolidate nel corso degli anni.
Analizzeremo, pertanto, con un maggior approfondimento tali figure (le quali costituiscono, peraltro, la più vasta parte della categoria dei “piccoli imprenditori”).
I. Il “piccolo commerciante”.
Sul punto, una giurisprudenza molto attenta ha osservato che per la individuazione del piccolo imprenditore commerciale il giudice non deve fare ricorso ad un criterio quantitativamente rigido sostitutivo e dimensionalmente più adeguato a quello soppresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.570/89, ma deve porre l’accento sul grado di allarme sociale che l’insolvenza può determinare nel mondo economico e tener conto dell’ammontare del capitale investito, della struttura organizzativa dell’impresa e della rilevanza assunta dall’entità del volume d’affari e dei debiti accumulati (così Trib. Milano, 29 aprile 1993, in Fall., 1993, 1268, con nota di RIELLO; nonché App. Lecce, 27 settembre 1990, Soc. China trading corp. — Florart Sagace, in Rass. dir. civ., 1992, 851, con nota di ROSS; nonché Trib. Roma, 26 marzo 1992, De Dominicis — Fall. soc. ditta sanitaria California, in Giur. merito, 1993, 636, con nota di MUZZIOLI, nonché in Dir. Fall., 1993, II, 207, con nota di MUZZIOLI).
La giurisprudenza è, quindi, giunta ad affermare che “a seguito dell’intervento della corte cost. di cui alla sentenza 22 dicembre 1989 n. 570, ai fini dell’individuazione della categoria dei piccoli imprenditori, a mente dell’art. 1 l. f. non soggetta alle disposizioni sul fallimento, il criterio ermeneutico fondamentale è rappresentato dalla nozione fornita dall’art. 2083 c.c., secondo la quale sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della loro famiglia” (App. Firenze, 29 gennaio 1992, Cassa risp. Pistoia e Pescia — Soc. ditta Ignis System, in Nuovo Dir., 1992, 435, con nota di MELIADO’).
Ricordiamo, infatti, che “la qualità di piccolo commerciante, come tale non assoggettabile a fallimento, può essere desunta dalla modesta organizzazione d’impresa, dalla rilevanza del capitale impiegato, dal contenuto volume degli affari e dagli importi dei debiti, qualora questi ultimi non siano sproporzionati rispetto alla modesta entità dell’impresa” (Trib. Belluno, 1 ottobre 1991, Inps — Di Bona, in Fall., 1992, 824, con nota di MASSARO).
Tali elaborazioni della giurisprudenza di “merito” hanno trovato pieno accoglimento in sede di legittimità; secondo la Suprema Corte, infatti “in tema di fallimento, ai fini della distinzione tra piccolo, medio e grande imprenditore – dopo la sentenza della corte costituzionale n. 570 del 22 dicembre 1989, che ha dichiarato illegittimo, per violazione dell’art. 3 cost., l’art. 1, 2º comma, legge fallimentare, come modificato dall’art. 1 l. 20 ottobre 1952 n. 1375, nella parte in cui prevedeva che «quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di r.m., sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta un capitale non superiore a lire novecentomila» – bisogna tener conto dell’attività svolta, dell’organizzazione dei mezzi impiegati, dell’entità dell’impresa e delle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale; in particolare, l’artigiano diventa un normale imprenditore commerciale e, conseguentemente deve essere assoggettato al fallimento, solo quando organizzi la sua attività in modo da costituire una base di intermediazione speculativa e da far assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto, realizzando così una vera e propria organizzazione industriale, avente autonoma capacità produttiva, in cui l’opera del titolare non è più essenziale, né principale” (così Cass., 22 dicembre 1994, n.11039, in Fall., 1995, 649; conforme Cass., 28 marzo 2000, n.3690, in Dir. e Pratica delle Società, 28 agosto 2000, n.14/15, 101).
Per quanto riguarda il criterio della prevalenza del “lavoro proprio” rispetto al “capitale investito”, segnaliamo anche un interessante orientamento giurisprudenziale secondo il quale “a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 570 del 22 dicembre 1989 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, 2º comma, l. fall., nella parte in cui definiva la nozione di piccolo imprenditore in relazione all’ammontare del capitale investito, è da ritenere operante esclusivamente l’art. 2083 c.c. secondo il quale è da ravvisare il piccolo imprenditore quando il lavoro personale e familiare è prevalente rispetto ai beni ed al lavoro altrui organizzato nell’impresa” (così Trib. Benevento, 18 giugno 1992, Ragozzino — Cusano, in Dir. Fall., 1994, II, 150, con nota di DI GRAVIO).
Nel corso del tempo, pertanto, la giurisprudenza ha elaborato un criterio distintivo di tipo “qualitativo” tra il “piccolo” imprenditore commerciale e l’imprenditore tout court (medio o grande che sia), caratterizzato dalla ponderazione degli elementi che caratterizzano il soggetto esaminato, sia in termini di impegno personale nell’attività esercitata (con particolare riferimento alla prevalenza dell’elemento “lavorativo” rispetto all’investimento in capitale) sia in relazione alla esteriorizzazione dell’attività ed all’eventuale allarme sociale che potrebbe derivare dalla crisi dell’operatore economico.
Tale criterio “qualitativo”, pur essendo maggiormente flessibile rispetto al criterio “quantitativo” originariamente posto dall’art.1, 2° comma, della Legge Fallimentare (dichiarato costituzionalmente illegittimo in quanto totalmente avulso dal mutato scenario economico-sociale sviluppatosi a partire dal periodo post bellico), si è, tuttavia, prestato ad interpretazioni ed applicazioni difformi tra i vari Tribunali Fallimentari dislocati nel territorio nazionale, in quanto i giudici di merito hanno, talvolta, valutato in modo completamente diverso situazioni analoghe; ciò ha reso sostanzialmente aleatori ed indefiniti i “confini” della categoria dei “piccoli commercianti”, con conseguente incertezza delle situazioni giuridiche soggettive dei soggetti la cui “fallibilità” non appare con evidenza esclusa e di coloro che intrattengono con loro rapporti economici.
Tali “incertezze” rendevano, pertanto, necessario un intervento normativo che potesse contribuire ad evidenziare in modo più chiaro e netto una linea di demarcazione tra “piccoli” e “medio-grandi” operatori commerciali; siffatta esigenza è stata tenuta in adeguata considerazione dal legislatore della riforma, ancorché lo stesso, nel predisporre il testo del decreto delegato risulta essere incorso in molteplici errori tecnico-definitori (di ciò tratteremo ne prosieguo).
II. Gli “artigiani”.
Altra categoria che rientra, ai sensi dell’art.2083 c.c., nel novero dei “piccoli imprenditori” è quella degli artigiani, anch’essa oggetto di un approfondito dibattito dottrinario e giurisprudenziale.
Gli aspetti maggiormente problematici che hanno animato tale dibattito discendono dall’esistenza, oltre alla suddetta disposizione codicistica, di una normativa contenuta nella legislazione speciale che definisce, anche se con un particolare ambito di applicazione, la figura dell’artigiano.
La diversità di contenuti delle due discipline ha creato dubbi circa la prevalenza dell’una o dell’altra, ai fini della scelta dei criteri qualificatori dell’impresa artigiana quale soggetto escluso dall’ambito di applicazione della Legge Fallimentare.
Se, infatti, ai sensi dell’art.2083 c.c. può essere considerato piccolo imprenditore “artigiano” il soggetto che rientra nei canoni “qualitativi” enucleati dalla giurisprudenza con riferimento alla categoria del piccolo “commerciante”, ai fini della legislazione speciale può rivestire tale status anche un operatore economico che non rientra in tali parametri.
Il criterio seguito dalla normativa speciale nel definire i confini dell’impresa artigiana si incentra sulla tipologia di attività svolta dall’operatore economico e riconosce ampia rilevanza ad un parametro “quantitativo” incentrato sul numero del personale impiegato e su altri elementi estrinseci; le imprese rientranti nella tipologia prevista dalla normativa speciale sono, pertanto, legittimate ad iscriversi nell’albo delle imprese artigiane tenuto dalla C.C.I.A.A..
La giurisprudenza fallimentaristica non ha, tuttavia, riconosciuto all’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane la valenza certificativa dell’omonimo status, in quanto le Corti territoriali, con l’avallo della Cassazione(Cass., 29 agosto 2003, n.12702; Cass., 21 dicembre 2002, n.18235; Cass., 28 marzo 2001, n.4555; Cass., 22 settembre 2000, n.12548; Cass., 29 maggio 2000, n.7065), si sono costantemente riservate la facoltà di valutare la sussistenza, in concreto, dei requisiti qualitativi di “prevalenza del lavoro” rispetto al “capitale investito”, ritenuti essenziali ai fini del riconoscimento, anche all’artigiano, dello status di “piccolo imprenditore” ai sensi della Legge Fallimentare (in tal senso Cass., 22 ottobre 2004, n.20640; Cass., 28 marzo 2001, n.4455; Cass., 22 dicembre 2000, n.16157).
Il problema del coordinamento tra i diversi testi normativi si è posto, inoltre, con riferimento al contenuto dell’art.1, 2° comma, della Legge Fallimentare, che esclude che possano essere considerati “piccoli imprenditori” le società commerciali, mentre la legislazione speciale riconosce lo status di artigiano non solo agli imprenditori individuali ma anche a coloro che esercitano l’impresa in forma “collettiva[2].
I punti salienti della problematica risultano essere i seguenti: a) la Legge Fallimentare esclude il fallimento del “piccolo imprenditore” ma non ne definisce i tratti caratterizzanti, con conseguente necessità di individuare nella legislazione codicistica, ed in particolare nell’art.2083 c.c., i criteri definitori; b) l’art.2083 c.c. definisce la figura del “piccolo imprenditore” in relazione al criterio della “prevalenza del lavoro” rispetto al “capitale investito” e stabilisce che gli artigiani debbano essere considerati tali; c) la Legge Fallimentare esclude che possano essere considerati “piccoli imprenditori” le società commerciali[3]; d) la legislazione speciale riconosce lo status di artigiano non solo alle ditte individuali, bensì anche alle forme di esercizio “collettivo” dell’attività di impresa.
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha tentato di risolvere il contrasto esistente tra le diverse disposizioni normative, riconoscendo che lo status di “piccolo imprenditore” può essere attribuito alle imprese “collettive” artigiane costituite in forma di società di persone semplice o in nome collettivo, in quanto tali figure possono essere assimilate all’artigiano-imprenditore individuale (Cass., 22 ottobre 2004, n.20640).
Negli ultimi anni, tuttavia, gli escamotages interpretativi seguiti per escludere dal novero dei soggetti fallibili le imprese collettive artigiane sono apparsi sempre in maggior contrasto con il dettato normativo dell’art.1, 2° comma, della Legge Fallimentare; tale circostanza ha determinato molteplici questioni di costituzionalità della menzionata disposizione fallimentare, con conseguenti pronunce, per lo più “interpretative di rigetto”, della Corte Costituzionale.
La Consulta, investita della problematica, ha statuito che le società artigiane di “modeste” dimensioni non sono soggette a fallimento (Corte Cost., 6 febbraio 1991, n.54), in quanto le piccole società artigiane possono considerarsi “piccoli imprenditori” (Corte Cost., 23 luglio 1991, n.368), a patto che le stesse non fossero costituite in forma di società a responsabilità limitata (Corte Cost., 31 ottobre 1991, n.395).
Nonostante gli autorevoli interventi della Corte Costituzionale, tuttavia, gli aspetti problematici inerenti al fallibilità delle società artigiane risultavano tutt’altro che risolti, in quanto non sussistevano, in concreto, parametri “certi” per stabilire il confine tra la “piccola” (non fallibile) e la “medio-grande” (fallibile) società artigiana; ciò determinava, innanzi alle Corti territoriali, una disparità di trattamento tra situazioni analoghe, dovuta ai differenti orientamenti prevalenti nei singoli fori fallimentari.
L’intervento innovativo posto dalla Riforma è intervenuto anche in relazione a tale problematica (anch’esso, tuttavia, appare caratterizzato dall’approssimazione tecnica che investe l’intero decreto delegato).
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Dopo aver sinteticamente delineato lo scenario normativo e giurisprudenziale vigente sino al 15 luglio 2006, è possibile analizzare le innovazioni introdotte dalla Riforma del Diritto Fallimentare contenuta nel D.Lgs. n.5/06, evidenziando se ed in che misura le stesse hanno risolto le problematiche riscontrate nella vigenza della “vecchia” disciplina.
Partiamo dal dato normativo; il testo dell’art.1 della Legge Fallimentare in vigore dal 16 luglio 2006 dispone che “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori.
Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente:
a)     hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila;
b)     hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.
I limiti di cui alle lettere a) e b) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento”.
Dalla lettura della disposizione “riformulata” dal D.Lgs. n.5/06 emerge immediatamente un primo elemento: l’introduzione di soglie “quantitative” oltrepassate le quali nessun operatore commerciale (ivi compreso l’artigiano) può essere qualificato come “piccolo imprenditore”.
Tale circostanza merita una breve riflessione.
In primo luogo, infatti, la nuova formulazione dell’art.1, 2° comma, della Legge Fallimentare non dispone in alcuna sua parte che i soggetti che non oltrepassano alcuna delle due soglie dimensionali indicate devono considerarsi “piccoli imprenditori”, in quanto si limita ad affermare che il superamento di una di esse preclude la possibilità di riconduzione a tale categoria.
Ciò genera un significativo dubbio interpretativo e consente di poter dare alla suddetta norma due contenuti diversi ed opposti fra loro ma altrettanto coerenti con il dato normativo.
Una prima interpretazione consentirebbe di ritenere che la figura del “piccolo imprenditore” debba essere, anche dal 16 luglio 2006, individuata in base ai criteri elaborati dalla giurisprudenza nel vigore della “vecchia” disciplina (parametro della “prevalenza del lavoro” rispetto al “capitale investito”, con l’avvertenza che, superata almeno una delle due soglie dimensionali, il soggetto esaminato non potrà essere in alcun caso esentato dall’applicazione della normativa fallimentare.
Una seconda interpretazione, altrettanto giustificata, porterebbe a ritenere che tutti coloro che non superino almeno una delle due soglie indicate nell’art.1, 2° comma, della Legge Fallimentare dovranno ipso facto essere considerati “piccoli imprenditori” e, come tali, non fallibili.
Certamente, nel dare attuazione alla delega legislativa contenuta nell’art.1, punto 6, della legge 80/05, il legislatore delegato non ha eccelso per chiarezza espositiva; i dubbi interpretativi che emergono dalla lettura dell’art.1, 2° comma, nuova formulazione, della Legge Fallimentare devono, pertanto, essere risolti attingendo dall’ordinamento gli elementi necessari a fornire una chiave di lettura della suddetta disposizione coerente con la sua ratiosistemica”.
All’interno dell’art.1, punto 6, della legge n.80/05, tra i principi ispiratori che vincolavano il legislatore delegato risulta essere menzionato il restringimento dell’area dei soggetti potenzialmente “fallibili”, mediante l’introduzione di soglie economiche al di sotto delle quali escludere la fallibilità; ciò consente di individuare un primo elemento a favore della seconda soluzione interpretativa.
Ulteriori argomentazioni a sostegno di tale interpretazione possono essere tratti dalla “Proposta di parere del relatore approvata calla Commissione”, agli atti della II Commissione (Giustizia) della Camera dei Deputati, seduta del 16 novembre 2005, resa sullo schema di decreto legislativo che successivamente diverrà il D.Lgs. n.5/06[4], in cui si da atto dell’intento del legislatore delegato di definire, all’art.1 della Legge Fallimentare, le caratteristiche dimensionali dei soggetti ipso iure esclusi dall’area della fallibilità[5].
L’interpretazione che porta ad estendere l’area dei soggetti “non fallibili” (secondo cui devono, ai sensi della Legge Fallimentare, considerarsi “piccoli imprenditori” coloro che non superino alcuna delle soglie dimensionali di cui all’art.1, 2° comma, l.f.) appare, inoltre, essere coerente con i principi di contenimento della spese pubblica e di economicità dell’azione dei poteri statali che hanno permeato la Riforma, in quanto l’apertura di una procedura concorsuale genera per il sistema giudiziario costi ingenti, i quali non trovano effettiva giustificazione economica in presenza di Fallimenti in cui sussista un attivo presumibilmente “modesto” (nella maggior parte dei casi neppure sufficiente alla mera copertura dei costi processuali) o di soggetti con un ridotto volume d’affari.
La stessa dottrina ha espressamente preso posizione a favore dell’interpretazione secondo cui devono considerarsi, ai sensi della Legge Fallimentare, “piccoli imprenditori” tutti coloro che non oltrepassano nessuna delle due soglie dimensionali previste dall’art.1, 2° comma, l.f.[6].
Unitamente considerati, tali elementi ci fanno ritenere preferibile l’interpretazione che amplia il novero dei soggetti esonerati dall’applicazione della legge fallimentare rispetto a quella che, pur essendo parimenti ricavabile dal testo della norma, nulla aggiungerebbe al panorama giuridico vigente sino al 15 luglio 2006 e porrebbe esclusivamente un limite all’operato delle Corti territoriali (le quali dovrebbero, in ogni caso, applicare il criterio della “prevalenza del lavoro” sul “capitale investito” per individuare la figura del “piccolo imprenditore”, ma si troverebbero costrette ad escludere la sussistenza di tale status in caso di superamento di una delle due soglie “quantitative”).
Occorrerà, tuttavia, attendere che sia la giurisprudenza, con le applicazioni concrete dell’art.1, 2° comma, l.f., a rendere “diritto vivente” quella che allo stato è solo una delle interpretazioni possibili (ancorché sia la preferibile tra tutte).
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Ulteriori dubbi interpretativi derivano dalla stessa definizione normativa delle soglie quantitative indicate nell’art.1, 2° comma, Legge Fallimentare.
La prima soglia si riferisce, infatti, all’effettuazione di “investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila”, senza, tuttavia, specificare quali siano gli elementi da prendere in considerazione ai fini dell’identificazione del “capitale” ed in cosa debbano consistere gli “investimenti” rilevanti.
In relazione al “capitale” possiamo ritenere che il legislatore delegato ha utilizzato un’espressione poco “felice”, in quanto la stessa si presta a diverse interpretazioni (per quanto concerne le società si dovrà aver riguardo al capitale nominale o, diversamente, al patrimonio netto o, ancora, all’attivo risultante dal bilancio?; per ciò che riguarda le ditte individuali quale parametro dovrà essere utilizzato?); i dubbi che l’utilizzo di tale locuzione genera sono di tutta evidenza e potranno essere risolti o da un intervento legislativo “correttivo” o, ipotesi più probabile, dalle interpretazioni che le Corti territoriali dovranno esternare in occasione dei futuri procedimenti pre-fallimentari che si troveranno a decidere.
Altre incertezze derivano dall’individuazione degli “investimenti” che devono essere presi in considerazione ai fini della determinazione del “capitale-soglia” rilevante; potranno essere qualificati come tali solo gli acquisti di beni strumentali durevoli o vi rientreranno anche le spese per ricerca e sviluppo, gli emolumenti retributivi e contributivi, gli acquisti di beni immateriali, di partecipazioni sociali, di strumenti finanziari, di materiali di consumo, di servizi, di materie prime e semilavorati, di merci? Il dubbio interpretativo non è privo di implicazioni pratiche, in quanto non sussistendo all’interno di tale norma (diversamente da quanto previsto nell’art.1, 2° comma, lett.b, l.f.) parametri temporali in relazione ai quali valutare l’eventuale superamento della soglia di fallibilità, ove dovessero ritenersi qualificabili come “investimenti” tutti gli “acquisti di beni e servizi” o le “spese in genere” effettuate dall’operatore commerciale l’esenzione dall’ambio di applicazione della Legge Fallimentare cesserebbe dopo alcuni anni di attività, stante il fisiologico superamento del limite quantitativo di trecentomila euro, dovuto alle ordinarie vicende della vita dell’impresa.
Anche il tenore letterale dell’art.1, 2° comma, lett.b, Legge Fallimentare, suscita perplessità per la scarsa chiarezza che lo stesso denota, nella parte in cui non specifica quali componenti finanziarie debbano essere prese in considerazione nella determinazione dei “ricavi lordi” (rientrano in tale categoria anche le “sopravvenienze attive”, le somme ottenute a titolo “risarcitorio”, le “caparre confirmatorie”?) e non consente di stabilire se gli stessi debbano determinarsi in ragione del criterio di competenza o di quello di cassa né se le eventuali “perdite su crediti” possano essere computate a deconto dei “ricavi” relativi all’anno di competenza del credito inesigibile e/o non incassato.
Appare, inoltre, decisamente “inusuale” la previsione, contenuta nella medesima disposizione, della facoltà di reperire elementi idonei a determinare i ricavi dell’impresa “in qualunque modo risulti”; se, infatti, è vero che, anche dopo la riforma, il procedimento pre-fallimentare risulta essere caratterizzato da un impianto “inquisitorio”, è nondimeno vero che la costituzionalizzazione del principio del c.d. “giusto processo” contenuta nell’art.111 della Costituzione Italiana suscita perplessità in merito all’utilizzabilità processuale di elementi di prova che siano stati acquisiti agli atti senza un adeguato contraddittorio.
I dubbi che tale disposizione ingenera dovranno, pertanto, essere risolti da un auspicato intervento normativo “correttivo” o, comunque, dalle interpretazioni giurisprudenziali che le Corti territoriali saranno tenute a manifestare nei propri provvedimenti.
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Suscita, parimenti, dubbi interpretativi la riformulazione dell’art.1, 2° comma, l.f. nella parte in cui lo stesso consente (mediante una argomentazione analogica a contrario) di ritenere “piccoli imprenditori” e, come tali, esonerati dalla disciplina fallimentare le società che non oltrepassino le soglie indicate nella menzionata norma.
Anche in relazione a tale profilo una maggiore chiarezza semantica sarebbe stata senz’altro opportuna.
E’ possibile, infatti, giungere a tale conclusione interpretativa esclusivamente a seguito dell’intervenuta abrogazione della disposizione contenuta nel testo dell’art.1, 2° comma, Legge Fallimentare vigente sino al 15 luglio 2006, che precludeva alle società commerciali la facoltà di essere ricondotte alla categoria dei “piccoli imprenditori”.
L’eliminazione di tale preesistente divieto consente, di fatto, una parificazione tra la posizione della società artigiana (che la giurisprudenza già esonerava dal fallimento, ove possedesse caratteristiche “qualitative” tali da farla rientrare nella categoria dei “piccoli imprenditori”) e della società commerciale non artigiana di “modeste” dimensioni, ponendo termine, in relazione a tale limitato profilo, al dibattito in essere circa la diversità di trattamento cui risultavano essere sottoposte due realtà economiche sostanzialmente analoghe.
A decorrere dal 16 luglio 2006, pertanto, stante l’introduzione delle soglie di esenzione e la sostanziale parificazione delle società artigiane alle “altre” società, ai fini della potenziale fallibilità, la disparità di trattamento riscontrata nella vigenza della pregressa disciplina dovrà ritenersi superata, per cui la società artigiana, al pari degli altri operatori economici, potrà essere dichiarata fallita ove siano stati superati i parametri “quantitativi” posti dall’art.1, 2° comma, l.f..
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Un ulteriore intervento normativo che, pur non concernendo direttamente la figura del “piccolo imprenditore”, avrà certamente in impatto significativo nei procedimenti pre-fallimentari e, pertanto, dovrà essere tenuto in adeguata considerazione dagli operatori del diritto che, a vario titolo, assistono gli operatori economici, consiste nella previsione contenuta nell’art.15, ultimo comma, Legge Fallimentare in vigore dal 16 luglio 2006, secondo il quale “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro venticinquemila. Tale importo è periodicamente aggiornato con le modalità di cui al terzo comma dell’art.1”.
Tale disposizione normativa è tesa ad evitare l’apertura di una procedura concorsuale nei casi in cui la presumibile consistenza del passivo appaia prima facie di modesta entità, ed è ragionevole prevedere che la stessa avrà un ruolo molto importante nel gestire le eventuali fasi di “crisi” attraversate dai “piccoli imprenditori”.
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In conclusione, possiamo affermare che le innovazioni normative contenute nella Riforma del Diritto Fallimentare appaiono finalizzate al raggiungimento di obbiettivi meritori ed al consolidamento delle conclusioni cui è giunto, nel corso degli anni, il dibattito dottrinario e giurisprudenziale; tuttavia, a causa degli evidenti errori tecnici commessi dal legislatore delegato, la Riforma sembra aver risolto solo in parte i contrasti giurisprudenziali sorti in relazione alla figura del “piccolo imprenditore” (e ciò esclusivamente con riferimento all’eliminazione del divieto di ricondurre a tale categoria le società diverse da quelle, personali, artigiane).
Ove non intervenga un opportuna riformulazione chiarificatrice delle disposizioni precedentemente analizzate, le stesse saranno, presumibilmente, fonte di diffuso contenzioso innanzi alle Corti fallimentari dislocate sul territorio nazionale, sulle quali graverà il compito di rendere “diritto vivente” il nuovo impianto legislativo, colmando le lacune che abbiamo avuto modo di evidenziare nel presente intervento.
 
(Avv. Pasquale Lo Cane)
 


[1] Per un maggiore approfondimento in merito alla genesi della Riforma rinviamo il lettore alla pubblicazione del Centro Studi di Confindustria “La disciplina della crisi d’impresa”, di Marcella PANUCCI e Margherita BIANCHINI, Progetto Concorrenza di Confindustria, coordinato da Innocenzo Cipolletta, Stefano Micossi e Giangiacomo Nardozzi.
[2] La legislazione “speciale” cui si fa riferimento era, precedentemente, la legge 25 luglio 1956, n.860, successivamente sostituita dalla legge-quadro per l’artigianato 8 agosto 1985, n.443, il cui articolo 3 riconosce la qualifica di impresa artigiana anche alle società, escluse le S.P.A. e le S.A.P.A., in cui la maggioranza dei soci (o uno di essi, in caso di due soli soci) svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e sempre che nell’impresa l’elemento lavoro sia preminente rispetto al capitale.
[3] Una giurisprudenza di merito recente (Tribunale di Milano, 21 marzo 2003, Pres. Grossi, Est. Galioto, Il Meridione s.a.s. c. fall. Il Meridione s.a.s.), in controtendenza rispetto agli orientamenti prevalenti, traendo spunto dal contrasto normativo inerente le società artigiane, è giunta ad affermare che “le piccole società commerciali, in assenza di valide ragioni che possano giustificare una disparità di trattamento rispetto alle società artigiane non sono assoggettabili al fallimento”.
[4] Scaricabile dal sito web www.unisi.it/ricerca/dip/dir_eco/camerafavorevole.htm.
[5] In particolare, nel testo si legge che “all’articolo 1, volto a modificare l’articolo 1 della legge fallimentare, la definizione della nozione di piccolo imprenditore si incentra su parametri inerenti alle dimensioni economiche dell’impresa”.
[6] In particolare, ci riferiamo a: “La riforma del diritto fallimentare: un primo panorama delle principali novità” (DIPSIT, Dipartimento di Studi per l’Impresa e il Territorio, Working paper n.9, gennaio 2006, di Maurizio IRRERA, Professore Associato di Diritto Commerciale presso la Facoltà di Economia di Novara dell’Università del Piemonte Orientale, Componente della Commissione Ministeriale di riforma delle Procedure Concorsuali); “Prime note critiche in tema di Riforma Fallimentare” (Consulta Giuridica Nazionale C.G.I.L., febbraio 2006, Francesco ALLEVA, docente di diritto commerciale presso l’Università di Bologna, edito anche in Rivista Giuridica del Lavoro, n.1/2006); “Diritto Fallimentare” (Aldo FIALE, Esselibri, Napoli, 2006).

Lo Cane Pasquale

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