La concezione “debole” dell’onerosità negli appalti pubblici

Redazione 29/11/17
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di Alessandro Massari

La recente sentenza 3 ottobre 2017 n. 4614 della V sezione del Consiglio di Stato riapre la fondamentale questione sulla nozione di “onerosità” nel sistema dei contratti pubblici. La pronuncia, seppur resa con riguardo al settore degli incarichi tecnici, è destinata a spiegare i suoi effetti in tutta la materia degli appalti pubblici.
La vicenda: un Comune aveva indetto una “procedura aperta per l’affidamento dell’incarico per la redazione del piano strutturale del Comune […] e relativo regolamento urbanistico”; rilevata tuttavia l’assenza di copertura finanziaria, previo parere favorevole della sezione regionale della Corte dei conti, veniva pubblicato un bando contemplante incarichi professionali a titolo gratuito (o, più precisamente, “nummo uno”, cioè con un compenso pari ad 1 euro), con mero rimborso delle spese documentate.
A fronte di tale previsione, gli Ordini Professionali provinciali dei professionisti tecnici impugnavano al TAR Catanzaro il bando, sostenendo l’illegittimità sia per violazione del divieto di non onerosità degli appalti pubblici sancito dall’art. 3 comma 1 lett. ii) del Codice, che espressamente qualifica come oneroso il contratto di appalto pubblico, sia perché la gratuità stessa sarebbe inidonea a garantire la qualità della prestazione e, ancora prima, a consentire una sua effettiva valutazione.

Il giudice calabrese (con la sentenza, sez. I, 13 dicembre 2016, n. 2435) aveva accolto il ricorso, sostenendo che “La necessaria predeterminazione del prezzo del servizio oggetto di appalto, anche quando tale componente quantitativa sia valutata unitamente a quella qualitativa, nell’ottica del legislatore sia nazionale che europeo, è funzionale a garantire il principio di qualità della prestazione e della connessa affidabilità dell’operatore economico, rispetto al quale va contemperato e per certi versi anche “misurato” il principio generale di economicità, cui solo apparentemente sembra essere coerente il risparmio di spesa indotto dalla natura gratuita del contratto di appalto “atipico””.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 4614/2017 ribalta invece la sentenza di primo grado con una motivazione decisamente articolata e approfondita, che sostanzialmente si fonda sulla innovativa distinzione tra “utilità economica”, che non può mai difettare nel sistema dei contratti pubblici, da un lato, e “utilità finanziaria”, ovvero la percezione dell’utile in senso stretto, che non costituisce invece un elemento costitutivo degli appalti pubblici, dall’altro.

Palazzo Spada ricorda anzitutto che la giurisprudenza da tempo ammette l’abilitazione a partecipare alle gare pubbliche in capo a figure del c.d. “terzo settore”, per loro natura prive di finalità lucrative, vale a dire di soggetti che perseguano scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici; a loro è stato ritenuto non estensibile il principio del c.d. “utile necessario” fondato sull’innaturalità ed inaffidabilità, per un operatore del mercato, di un’offerta in pareggio, perché contro il naturale scopo di lucro: orbene, il fatto stesso della presenza di questa consolidata giurisprudenza dimostra che l’utile finanziario in realtà non è considerato elemento indispensabile dal diritto vivente dei contratti pubblici. In altri termini, “la circostanza che l’offerta senza prefissione di utile presentata da un siffatto tipo di soggetto non sia presunta, solo per questo, anomala o inaffidabile, e non impedisca il perseguimento efficiente di finalità istituzionali che prescindono da tale vantaggio stricto sensu economico, dimostra che le finalità ultime per cui un soggetto può essere ammesso a essere parte di un contratto pubblico possono prescindere da una stretta utilità economica. È proprio per questo riguardo che è stato rilevato come non contrasti con la definizione di operatore economico contenuta nelle direttive europee la detta connotazione propria delle associazioni di volontariato”.
A maggiore ragione dunque, osserva il giudice d’appello, “può esservi ammesso l’aspirante contraente cui si chiede di prescindere non già da un’utilità economica, ma solo da un’utilità finanziaria: perché l’utilità economica si sposta su leciti elementi immateriali inerenti il fatto stesso del divenire ed apparire esecutore, evidentemente diligente, della prestazione richiesta dall’Amministrazione”. Conseguenza di una tale considerazione “è la preferenza, nell’ordinamento dei contratti pubblici, per un’accezione ampia e particolare (rispetto al diritto comune) dell’espressione «contratti a titolo oneroso», tale da dare spazio all’ammissibilità di un bando che preveda le offerte gratuite (salvo il rimborso delle spese), ogniqualvolta dall’effettuazione della prestazione contrattuale il contraente possa figurare di trarre un’utilità economica lecita e autonoma, quand’anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall’Amministrazione appaltante”.

Secondo il Consiglio di Stato, l’assunto trova del resto conforto nella giurisprudenza europea (Corte Giust. U.E., 12 luglio 2011, in causa C-399/98 Bicocca), a tenore della quale per attribuire a un contratto pubblico il carattere di oneroso non è necessario un esborso pecuniario, perché ad analogo rilievo funzionale assolve la realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione secondaria. Quel ragionamento incentrato sul principio dell’effetto utile, che vuole che le disposizioni siano lette, di preferenza, nel senso di favorire il raggiungimento dell’obiettivo da esse prefissato, avvalorerebbe le considerazioni svolte dal giudice d’appello.
Ulteriore argomento portato da Palazzo Spada a favore della tesi della “concezione debole dell’onerosità negli appalti pubblici” è la considerazione dei contratti di sponsorizzazione, che evidenziano il rilievo assunto dall’economia “dell’immateriale”, espressamente disciplinati dal Codice all’art. 19 e 151 (e nel settore dei beni culturali anche dall’art. 120 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). La sponsorizzazione, si osserva, non è un contratto a titolo gratuito, in quanto alla prestazione dello sponsor in termini di dazione del denaro o di accollo del debito corrisponde l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor, del diritto all’uso promozionale dell’immagine della cosa di titolarità pubblica: il motivo che muove quest’ultimo è l’utilità costituita ex novo dall’opportunità di spendita dell’immagine, cioè la creazione di un nuovo bene immateriale. Per l’Amministrazione è finanziariamente non onerosa – cioè passiva: non comporta un’uscita finanziaria – ma comunque genera un interesse economico attivo per lo sponsor, insito in un prodotto immateriale dal valore aggiunto che va a suo vantaggio. In altri termini: la circostanza che vi sia verso lo sponsor una traslazione meramente simbolica, cioè di immagine, della cosa di titolarità pubblica non può essere considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta relazione, nei termini propri dell’equilibrio sinallagmatico, con il valore della controprestazione, vale a dire della dazione dello sponsor. Con la sponsorizzazione si ha dunque lo scambio di denaro contro un’utilità immateriale, costituita dal ritorno di immagine.

E dunque “L’utilità costituita dal potenziale ritorno di immagine per il professionista può essere insita anche nell’appalto di servizi contemplato dal bando qui gravato: il che rappresenta un interesse economico, seppure mediato, che appare superare – alla luce della ricordata speciale ratio – il divieto di non onerosità dell’appalto pubblico”. L’effetto, indiretto, di potenziale promozione esterna dell’appaltatore, come conseguenza della comunicazione al pubblico dell’esecuzione della prestazione professionale, appare costituire, nella struttura e nella funzione concreta del contratto pubblico, di cui qui si verte, una controprestazione contrattuale anche se a risultato aleatorio, in quanto l’eventuale mancato ritorno (positivo) di immagine (che è naturalmente collegato alla qualità dell’esecuzione della prestazione) non può dare luogo ad effetti risolutivi o risarcitori. Si tratterebbe dunque del vantaggio economico “curriculare”, come tale suscettibile di essere speso in successive procedure selettive.
Non vi è dunque estraneità sostanziale alla logica concorrenziale che presidia, per la ricordata matrice eurounitaria, il Codice degli appalti pubblici quando si bandisce una gara in cui l’utilità economica del potenziale contraente non è finanziaria ma è insita tutta nel fatto stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale. Il mercato non ne è vulnerato. Al tempo stesso, non si vede per quale ragione le dette considerazioni di economia dell’immateriale non possano essere prese in considerazione quando giovano, come qui patentemente avviene, all’esigenza generale di contenimento della spesa pubblica.
Resta comunque, ricorda il Consiglio di Stato, “l’esigenza della garanzia della par condicio dei potenziali contraenti, che va assicurata dalla metodologia di scelta tra le offerte”. Ed è proprio per questa essenziale ragione che un tale contratto pubblico, per quanto “gratuito” in senso finanziario (ma non economico), non può che rimanere nel sistema selettivo del d.lgs. n. 50 del 2016: altrimenti, se ne fosse fuori, portando alle conseguenze un diverso ragionamento, l’Amministrazione appaltante potrebbe scegliere il contraente a piacimento, con ciò ingenerando un’evidente lesione della par condicio dei potenziali interessati al contratto proprio per quell’utile immateriale e ledendo gli stessi principi di derivazione eurounitaria del mercato concorrenziale che sono alla base delle commesse pubbliche. La gratuità finanziaria, anche se non economica, del contratto si riflette infatti sulla procedura di selezione, che non può non esservi in concreto adattata.

La descritta concezione “debole” di «contratto a titolo oneroso», rimarca il giudice d’appello, va dunque ulteriormente valutata in compatibilità con Codice anche per ciò che riguarda la procedura di scelta del contraente, improntata al criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che, di suo, si baserebbe sul miglior rapporto tra qualità e prezzo. Ma la caratterizzazione che si è finora esaminata corrisponde fatalmente a una lex specialis del tutto particolare, che non può che riservare punti zero alla componente economica. Orbene, per il Consiglio di Stato, con riguardo al caso di specie, i criteri di aggiudicazione enucleati dalla stazione appaltante, basati sulla componente tecnica (professionalità, adeguatezza dell’offerta, caratteristiche metodologiche dell’offerta), cui sono attribuiti novanta punti, e residualmente sul tempo, al quale sono riservati dieci punti, appaiono comunque sufficientemente oggettivi per una valutazione dell’offerta e non contrastano dunque con il rammentato art. 95. Al contempo, il valore dell’appalto è stato parametrato al valore della prestazione, ad evitare l’elusione delle regole dell’evidenza pubblica.

Nella pronuncia in rassegna si è richiamato il parere della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Calabria, che, con atto 10 febbraio 2016, ha ritenuto, seppure con ragionamento diverso, che l’Amministrazione comunale può «procedere alla indizione di un bando pubblico per il conferimento di incarico gratuito di redazione del nuovo piano di sviluppo comunale, con la previsione del mero rimborso delle spese sostenute. Tuttavia, il bando dovrà integrare tutti gli elementi necessari per l’esatta individuazione del contenuto della prestazione richiesta, onde consentire la valutazione oggettiva degli elaborati tecnici che vengono così prodotti, senza pretesa di corrispettivo, dai tecnici interessati a prestare appunto gratuitamente la propria opera professionale».
Immaginabili le reazioni degli Ordini professionali, i quali hanno ricordato che, per gli ingegneri ed architetti, accettare incarichi senza compenso è in contrasto con i rispettivi codici deontologici: l’art. art. 11 del codice degli ingegneri dispone che si possono fornire prestazioni professionali a titolo gratuito solo in casi particolari quando sussistano valide motivazioni ideali ed umanitarie e che possono considerarsi prestazioni professionali non soggette a remunerazione tutti quegli interventi di aiuto rivolti a colleghi ingegneri che, o per limitate esperienze dovute alla loro giovane età o per situazioni professionali gravose, si vengano a trovare in difficoltà; l’art. 24 del codice degli architetti considera l’assenza di compensi quale pratica anticoncorrenziale scorretta e distorsiva dei normali equilibri di mercato e costituisce grave infrazione disciplinare.

Rispetto all’innovativa pronuncia di Palazzo Spada, occorre però sottolineare che la vicenda scrutinata dal Collegio, si riferiva ad una procedura indetta anteriormente all’entrata in vigore del decreto correttivo, il quale all’art. 24 del Codice ha introdotto, proprio al fine di contrastare l’emersione delle pratiche dei contratti di sponsorizzazione per l’acquisizione di servizi tecnici di ingegneria ed architettura, il nuovo comma 8-ter, a tenore del quale “Nei contratti aventi ad oggetto servizi di ingegneria e architettura la stazione appaltante non può prevedere quale corrispettivo forme di sponsorizzazione o di rimborso, ad eccezione dei contratti relativi ai beni culturali, secondo quanto previsto dall’articolo 151”.
Occorre ora verificare se la pronuncia, che peraltro si fonda su una nuova concezione generale e trasversale dell’onerosità – quale mera utilità economica e non necessariamente finanziaria – di tutto il sistema dei contratti pubblici, sarà destinata a divenire “diritto vivente” o a rimanere orientamento minoritario.
Certo è che i principi affermati da Palazzo Spada saranno destinati a refluire anche sulla delicata e controversa questione del quantum di utile economico minimo per l’offerente, nel quadro della verifica di congruità, o non anomalia, dell’offerta, ai fini dell’aggiudicazione dell’appalto. Sono noti i recenti approdi giurisprudenziali per i quali, anche in considerazione della perdurante sfavorevole congiuntura economica, anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico.

 

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