La competenza normativa in materia di tutela delle minoranze linguistiche

Maesano Mario 11/11/10
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La tutela delle minoranze linguistiche costituisce un ambito in cui il diritto si intreccia con la storia, la geografia, la letteratura e la sociologia e che si pone in tendenza con la riscoperta delle identità regionali e locali in un sistema socio-culturale-politico sempre più “globalizzato” (1).

La complessità della questione viene oggi ancora più esaltata da un malinteso senso dell’autonomia territoriale che, invece di salvaguardare le specificità locali nell’ambito di un grande progetto nazionale, tende – a volte – a diventare, nelle più eccessive forme di matrice leghista, una forma egoistica e localistica disgregante.

Questi pericolosi eccessi nulla hanno a che fare con le legittime richieste delle numerose minoranze linguistiche storiche esistenti sul nostro territorio nazionale, che richiedono la giusta tutela della lingua, come espressione della loro radicata civiltà culturale, espressione di tradizioni sociali, da sempre integrate in un vero rapporto interculturale ante litteram.

L’Italia è un Paese ricco di minoranze linguistiche storiche sia per quanto riguarda la varietà che dal punto di vista quantitativo. A riprova basti rammentare i dati statistici diffusi dal Ministero dell’Interno, dai quali emerge come circa il 5% della popolazione italiana ha come lingua materna una lingua diversa dall’italiano (2).

A ciò deve affiancarsi un ulteriore elemento che rende peculiare il nostro ordinamento, assieme a pochi altri Stati europei, vale a dire l’esplicita menzione nella Carta costituzione della tutela delle minoranze linguistiche. L’articolo 6 della Costituzione ha pur tuttavia dovuto attendere oltre un cinquantennio per trovare una attuazione concreta, volta ad integrare e completare la legislazione già emanata in alcune Regioni a statuto speciale di confine, quali la Valle d’Aosta, il Trentino Alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia.

L’intervento legislativo tanto atteso è rappresentato dalla legge 482/99, recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, nella quale si prende atto dell’esistenza di altre minoranze linguistiche rispetto a quelle già riconosciute e tutelate in sede regionale. Non a caso l’art. 2 della citata legge suole recitare che «la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo».

Facendo un passo indietro è possibile rinvenire come all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, vennero emanate alcune disposizioni legislative miranti al ripristino dell’insegnamento in lingua diversa dall’italiano per gli alloglotti della Valle d’Aosta e per quelli dell’Alto-Adige. Diversa la situazione per le popolazioni slovene e croate della Venezia-Giulia i cui territori erano sotto l’amministrazione del governo militare alleato che emanò, sin dall’agosto 1945, una direttiva per la riapertura delle scuole con lingua d’insegnamento slovena e croata, ripristinando i sistemi scolastici speciali.

Dopo l’avvenuta scelta istituzionale che segnò la fine della monarcha (1946), l’Assemblea costituente iniziò i lavori per la stesura della nuova Carta fondamentale della Repubblica. Nel testo progettuale elaborato dalla Commissione dei Settantacinque non c’era alcun articolo che prevedesse la tutela costituzionale per le minoranze linguistiche.

Fu il senatore Codignola, che presentò un emendamento con il quale suggeriva di inserire nella Costituzione una norma che garantisse il pieno e libero sviluppo delle minoranze etniche e linguistiche esistenti nel territorio dello stato. Dopo un’accesa discussione, l’Assemblea costituente votò l’articolo 6, che è uno dei più brevi dell’intera Costituzione e che assunse la seguente formulazione “graficamente esangue” e “lapidaria”: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche» (3).

La norma si riferisce alla Repubblica, in quanto l’obbligo di tutelare le minoranze linguistiche investe anche gli enti territoriali e rappresenta una diretta applicazione dell’art. 3, vietando ogni forma di discriminazione basata sulla diversità della lingua, e dell’art. 2, poiché in attuazione dei principi di pluralismo e di tolleranza precede una tutela positiva delle minoranze etniche volta a salvaguardare la loro identità culturale e a consentire una effettiva partecipazione anche di questi gruppi alla vita politica e sociale del Paese.

 

 

 

La giurisprudenza della Corte costituzionale sul riparto della potestà normativa in tema di tutela delle minoranze linguistiche.

 

A tal proposito, come si avrà modo di rilevare, la Corte costituzionale ha, in materia di individuazione e tutela delle minoranze, affermato sin da tempi non sospetti l’esistenza di una competenza normativa esclusiva dello Stato; conferendo al contempo un ruolo di rilievo al legislatore regionale, nei termini di «una compartecipazione a geometria variabile della legge statale, della legge regionale, dello Statuto speciale e della decretazione attuativa» (4).

Dall’interpretazione dell’articolo 6 Cost. infatti, sembrerebbe emergere una ascrivibilità della tutela delle minoranze linguistiche alla competenza legislativa dello Stato, così come affermato dalla storica sentenza della Corte costituzionale n. 62/1960. In essa i giudici delle leggi, nell’occuparsi di una legge della Provincia autonoma di Bolzano in tema di uso delle lingue da parte degli organi e degli uffici provinciali, sono giunti a sostenere che la materia delle lingue costituisce una delle più delicate «nelle quali esigenze di unità e di eguaglianza impongono l’esclusiva potestà del legislatore statale, al quale, nel quadro dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica (…) spetta unicamente di dettare norme sull’uso delle lingue e sulla tutela delle minoranze linguistiche».

Orientamento riproposto a breve distanza di tempo nel 1961, in tale sede la Consulta sosteneva che «il Costituente ha inteso affidare solo allo Stato – tale materia – (…) allo scopo di meglio effettuare il coordinamento fra l’esigenza della protezione delle caratteristiche etniche e l’altra della parità di trattamento con gli altri gruppi» (sent. 46/61) (5).

Questa tendenza, aspramente criticata dalla dottrina, venne successivamente sottoposta dalla Corte ad un processo di revisione ermeneutica, ritenendo quest’ultima che anche le legislazioni regionali potessero disciplinare il fenomeno delle lingue minoritarie, «anche al di là degli specifici casi espressamente indicati dallo statuto regionale», sotto l’egida di quanto determinato in materia dal legislatore statale (6). A seguito di questi mutamenti giurisprudenziali, non poche Regioni, sia statuto straordinario che ordinario, hanno approvato discipline sulla tutela delle minoranze linguistiche, come la legge regionale Friuli-Venezia Giulia 22 marzo 1996, n°15 e la legge regionale Calabria 30 ottobre 2003, n°15.

Tale revisione inizia negli anni ‘80, quando la Corte, con la pronuncia 312/83, giunge a sostenere che «l’interesse nazionale alla tutela delle minoranze linguistiche costituisce uno dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, che si pone come limite e al tempo stesso come indirizzo per l’esercizio della potestà legislativa (e amministrativa) regionale».

La ratio di siffatta scelta era riconducibile al fatto che la tutela delle minoranze avrebbe dovuto considerarsi quale principio fondamentale dell’ordinamento, avente natura di limite indefettibile altresì in capo al legislatore regionale.

Dalla richiamata giurisprudenza costituzionale si ricava che l’attuazione in via di legislazione ordinaria dell’art. 6 Cost., in tema di tutela delle minoranze linguistiche, genera un modello di riparto delle competenze in cui il legislatore statale appare titolare di un proprio potere di individuazione delle lingue minoritarie protette, delle modalità di determinazione degli elementi identificativi di una minoranza linguistica da tutelare, nonché degli istituti che caratterizzano questa tutela, frutto di un indefettibile bilanciamento con gli altri legittimi interessi coinvolti ed almeno potenzialmente confliggenti (7) e ciò al di là della ineludibile tutela della lingua italiana.

A tale proposito, la Corte nella sentenza n. 406 del 1999, ha colto l’occasione per affermare che il legislatore statale «dispone in realtà di un proprio potere di doveroso apprezzamento in materia, dovendosi necessariamente tener conto delle conseguenze che, per i diritti degli altri soggetti non appartenenti alla minoranza linguistica protetta e sul piano organizzativo dei pubblici poteri – sul piano quindi della stessa operatività concreta della protezione – derivano dalla disciplina speciale dettata in attuazione dell’art. 6 della Costituzione».

Si tratta, inoltre, di un potere legislativo che può applicarsi alle più diverse materie legislative, in tutto od in parte spettanti alle Regioni.

Peraltro, malgrado tutte queste caratteristiche, ci si trova dinanzi ad una potestà legislativa non solo limitata dal suo specifico oggetto, ma non esclusiva (nel senso di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost.), dal momento che alle leggi regionali spetta l’ulteriore attuazione della legge statale che si renda necessaria.

Di particolare rilievo è, poi, a questo riguardo, per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome, la funzione della normativa d’attuazione, vale a dire di quel particolare procedimento che è previsto dai suddetti statuti speciali e che rinvia la specificazione delle implicazioni legislative derivanti dalle disposizioni statutarie alla decretazione legislativa successiva alla deliberazione di commissioni pariteticamente composte da rappresentanti dello Stato e della Regione interessata.

È infatti evidente che questo tipo di produzione normativa, che deve comunque necessariamente – dato che fuoriesce dagli abituali modelli procedurali previsti per il percorso legislativo – trovare il suo fondamento in disposizioni statutarie, si pone come norma interposta (e, quindi, sovraordinata) per ciò che riguarda sia la legge statale che quella regionale che vengono a disciplinare i corrispondenti ambiti legislativi.

Dunque, la Corte costituzionale invoca il primato della normativa statale e riafferma l’esistenza di una (non superata) riserva di fonte legislativa statale che si sostanzia nella legge dello Stato per le regioni ordinarie e in decreti legislativi di attuazione per le regioni a statuto speciale, in mancanza dei quali sarà sempre la legge statale a rivestire il rango di fonte sopraordinata e vincolante anche per le autonomie speciali.

In proposito, si rammenti un passaggio nel ragionamento della Corte allorché, ribadendo il ruolo del legislatore statale al quale (soltanto) compete il doveroso bilanciamento tra i diversi interessi protetti e ferma restando l’ineludibilità della tutela della lingua italiana, tratteggia la potestà legislativa del Parlamento come una potestà «che può applicarsi alle più diverse materie legislative, in tutto o in parte spettanti alle regioni». Una potestà «non solo limitata dal suo specifico oggetto, ma non esclusiva (nel senso di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost.), dal momento che alle leggi regionali spetta l’ulteriore attuazione della legge statale che si renda necessaria» (punto 2.3. cons. dir.)

Ne consegue una sensibile limitazione della sfera di autonomia legislativa per tutte le regioni che parrebbe avvicinabile – più che alla potestà concorrente di cui all’art. 117 Cost., 3° comma, il quale non sarebbe propriamente invocabile nonostante la legge 482/1999 venga abitualmente definita come una “legge di principi” – alla c.d. potestà legislativa attuativa di leggi statali, scomparsa nella versione del novellato precetto costituzionale ma non completamente espunta dall’ordinamento e tuttora presente in alcuni statuti speciali come potestà integrativa-attuativa parole, la disciplina generale a tutela delle minoranze linguistiche è in larga parte già scritta nella legge che il Parlamento ha approvato in attuazione dell’art. 6 Cost. e altro si potrà aggiungere mediante successive leggi statali. Ad esempio per il riconoscimento di ulteriori minoranze linguistiche/lingue minoritarie o per l’introduzione di più raffinate misure di tutela positiva.

Alle regioni a Statuto ordinario non resta che la facoltà di adeguarsi alla legislazione statale, continuando prevalentemente a disporre interventi di gestione finanziaria per rendere operative le previsioni indicate dal Parlamento.

Mentre, in capo alle regioni ad autonomia differenziata rimane la possibilità di usufruire di discipline meglio rispondenti alle esigenze locali, ma soltanto se previste da appositi decreti legislativi di attuazione e dunque da fonti legislative dello stato che – per riprendere le parole della Corte costituzionale (punto 2.5 cons. dir.) – «autorizzino il legislatore regionale ad introdurre normative derogatorie al contenuto della legge n. 482 del 1999». Tesi questa sviluppatasi e avvalorata con la sentenza n. 159/2009.

 

 

Profili di attuazione dell’articolo 6 della Costituzione: la 482/1999.

 

La legge n. 482 del 1999 si autoqualifica come legislazione «di attuazione dell’art. 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali».

Fra i suoi molteplici contenuti di particolare rilevanza è, innanzitutto, la individuazione dei soggetti che possono attivare la procedura mediante la quale si procede alla delimitazione dell’ambito territoriale in cui «si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche».

La procedura può iniziare su istanza di appena il quindici per cento dei cittadini di un Comune, oppure di un terzo dei consiglieri comunali, e il Comune può esprimere solo un parere alla Provincia, cui è attribuito il potere di delimitare il territorio di insediamento della minoranza.

In sostanza, questa legge, pur prevedendo misure di tutela per minoranze di limitata consistenza numerica, tiene in ogni caso fermo il criterio della tutela esclusivamente territoriale delle comunità interessate.

Il fatto che le speciali tutele delle lingue minoritarie siano applicabili in aree territoriali nelle quali esistono anche piccole minoranze linguistiche è poi confermato dall’art. 7, comma 2, della legge n. 482 del 1999, che prevede l’estensione del diritto di esprimersi nella lingua minoritaria dei componenti degli organi collegiali di Comunità montane, Province e Regioni alla condizione che queste «ricomprendano Comuni nei quali è riconosciuta la lingua ammessa a tutela, che complessivamente costituiscano almeno il 15 per cento della popolazione interessata».

Nel ragionamento della Corte, dunque, la tutela delle minoranze è una non-materia, ed essendo per definizione trasversale ed obbligo costituzionale di tutti i soggetti che compongono la Repubblica, essa non può che svolgersi secondo un chiaro criterio gerarchico delle fonti.

La fonte statale prevale necessariamente sulla legge regionale e deve ritenersi la corretta attuazione del dettato costituzionale. Pertanto le leggi regionali non possono derogare alla legge statale ma solo specificarla. In un quadro fortemente gerarchico delle fonti, l’unica via per derogare alla normativa statale è lo strumento della normativa di attuazione degli statuti regionali speciali, che com’è noto sono fonti atipiche e sovraordinate alla legge ordinaria per il loro diretto ancoraggio alla Costituzione.

Infatti, la Corte afferma che la regione ben avrebbe potuto ricorrere alla normativa di attuazione dello Statuto «per introdurre eventuali normative (…) derogatorie rispetto al contenuto della legge n. 482 del 1999» . Una possibilità prevista dalla stessa l. 482 (art. 18) e derivante dalla natura negoziata e bilaterale delle norme di attuazione, sulla cui approvazione lo Stato ha in definitiva un potere di veto.

Con la recente sentenza n. 170 del 2010, la Corte costituzionale conferma alcuni punti fermi nella definizione del quadro giuridico attraverso il quale si manifesta, nell’ordinamento italiano, il principio della tutela delle minoranze linguistiche. In particolar modo, la Corte, con questa sua ultima sentenza in tema di lingue minoritarie, afferma ancora una volta la tutela delle minoranze quale obiettivo costituzionale. Al contempo, però, riafferma l’esistenza di una competenza esclusiva statale sul punto riconoscendo soltanto un limitato potere di attuazione del dettato normativo statale al legislatore regionale.

In particolare, la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Piemonte 7 aprile 2009, n. 11, limitatamente alle parole «la lingua piemontese,» per violazione dell’art. 6 Cost., nell’attuazione ad esso data dalla legge n. 482 del 1999, avendo la Regione ecceduto dalla propria competenza, laddove ha attribuito alla “lingua piemontese”, non ricompresa nel novero delle lingue minoritarie di cui all’art. 2 di detta legge, un valore analogo a quello riconosciuto per queste ultime.

L’impugnazione governativa prende di mira la normativa della Regione Piemonte che parifica la “lingua piemontese” alle lingue minoritarie tutelate dalla legge quadro n.482/99 recante norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche per conferire ad essa il medesimo tipo di tutela riconosciuto in generale alle lingue minoritarie. La difesa governativa sostiene nel suo ricorso che il legislatore piemontese eccederebbe dalla competenza regionale, in quanto spetterebbe in capo al il legislatore statale la titolarità di legiferare in tale ambito.

L’avvocatura generale rinforza, inoltre, che la tutela delle minoranze linguistiche sfugga alla ripartizione per materie delineata dall’art. 117 Cost., dovendosi qualificare “ non tanto come “materia”, ma come “argomento” o comunque “valore”, che investe trasversalmente diverse materie”. La Regione Piemonte rammenta a sua difesa che “la tutela delle minoranze linguistiche costituisce principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale” coinvolgendo quindi tutti gli enti territoriali e che la valorizzazione della “lingua piemontese” sia da intendere come parte della tutela del patrimonio culturale.

Nel ragionamento della Consulta, la legge quadro n. 482/1999 che attua il disposto dell’art. 6 Cost. viene considerata non solo una legge generale della materia, ma per lo più una norma interposta, operando quindi come fonte sovraordinata, come parametro di controllo costituzionale rispetto ad interventi legislativi delle Regioni.

La Corte arriva a tale convincimento senza specificare motivi tecnico-giuridici per cui si possa considerare la legge quadro n. 482/99 una norma interposta, rimanendo così oscura la natura i quest’ultima. Risulta evidente che non si tratta né di una legge di delega e neanche, pur costituendo l’ipotesi più probabile, di una legge statale che stabilisce i principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente, in quanto la materia delle minoranze non è ricompresa nell’elenco dell’art. 117 3° comma Cost.

La Corte, ricorrendo alla tecnica dell’interposizione, sposta la questione delle minoranze dal versante delle fonti, e quindi, dal sistema dei rapporti tra Stato e Regioni all’ambito dei principi fondamentali. In tal senso la Corte sottolinea come l’art. 6 Cost. sia collocato appunto nella parte relativa ai principi fondamentali e non nel titolo della Costituzione relativo all’ordinamento regionale (ovvero nell’art. 108-bis) come è stato proposto in sede di Costituente (sent. 170/2010 punto 4 cons. di diritto).

Tale operazione fa sì che l’art. 6 Cost. venga svuotato di contenuto in quanto si considera che è la legge statale ad interpretarlo che diventa così il parametro esclusivo per il sindacato di costituzionalità della legge regionale in materia (8).

Se è vero che sussiste un potere normativo in materia di tutela delle minoranze linguistiche anche delle Regioni a statuto ordinario, e specialmente in connessione alle ragioni di convergenti tutele dell’identità culturale e del patrimonio storico delle proprie comunità, esso certamente non vale ad attribuire a quest’ultimo il potere autonomo e indiscriminato di identificare e tutelare – ad ogni effetto – una propria “lingua” regionale o altre proprie “lingue” minoritarie, anche al di là di quanto riconosciuto e stabilito dal legislatore statale.

Né, tanto meno, può consentire al legislatore regionale medesimo di configurare o rappresentare, sia pure implicitamente, la “propria” comunità in quanto tale – solo perché riferita, sotto il profilo personale, all’ambito territoriale della propria competenza – come “minoranza linguistica”, da tutelare ai sensi dell’art. 6 Cost., essendo del tutto evidente che, in linea generale, all’articolazione politico-amministrativa dei diversi enti territoriali all’interno di una medesima più vasta e composita compagine istituzionale non possa reputarsi automaticamente corrispondente – né, in senso specifico, analogamente rilevante – una ripartizione del “popolo”, inteso nel senso di comunità “generale”, in improbabili sue “frazioni”.

La sentenza in commento, si è cercato di far rilevare, pur ponendosi nel solco di una giurisprudenza particolarmente datata e ormai consolidata, propone una sostanziale rilettura della materia della tutela delle minoranze linguistiche. Queste, infatti, non vengono più analizzate sotto un rigido criterio di riparto delle competenze legislative, già precisato con la sentenza n. 159/2009.

Al contrario, nel caso in esame viene proposta una lettura della questione, finalizzata alla definitiva esclusione di un qualsivoglia intervento regionale per la tutela e la valorizzazione delle “lingue minoritarie” che non siano stato previamente censite ed individuate dal legislatore nazionale.

 

 

Conclusioni

 

Il rigido criterio ermeneutico di tipo “territoriale” cui è ispirata la legge n. 482/1999, la cui disciplina troverebbe applicazione solo con riferimento alle lingue minoritarie (riconosciute dalla stessa legge) «esclusivamente nei territori in cui vi è una sufficiente presenza di cittadini appartenenti alla minoranza stessa», non fonda che un’unica e sola competenza regionale: quella relativa alla ricognizione dei territori in cui è presente la minoranza ed la connessa attuazione – secondo le previsioni dettate dalla generale disciplina statale – della tutela e valorizzazione della minoranza.

Immediata conseguenza di tale stato di cose, alla luce del recente filone giurisprudenziale e normativo regionale, è l’assoluta incapienza della legge n. 482/1999, espressamente emanata per tutelare le “minoranze linguistiche storiche” di popolazioni stabilmente residenti ovvero parlanti lingue diverse dall’italiano.

Nulla viene detto con riferimento agli idiomi localistici che non assurgono a dignità di lingua (i c.d. dialetti), che possono ragionevolmente venire tutelati e valorizzati; al contrario ogni altra “lingua” diversa da quella italiana viene esclusa dalla tutela.

Sul punto giova ricordare che il rapporto tra “lingua” e “dialetto” non è individuabile in modo agevole, attesa la mancanza di criteri scientifici o universalmente accettati che operino tale specifico discrimine.

Solitamente, le varietà linguistiche vengono definite “dialetti” allorquando non siano riconosciute; perché alla comunità dei locutori della varietà non corrisponde alcuno Stato a sé stante che la riconosca come propria, o alcun gruppo etnico che si riconosca e venga riconosciuto come tale; perché non sono utilizzate per redigere; perché mancano di prestigio presso i locutori e/o presso altri.

Tuttavia, tralasciando tali problematiche estremamente tecniche, si segnala che con la decisione in commento è stato semplicemente espunto ogni riferimento ad un’asserita “lingua piemontese”, mantenendo intatto l’impianto della legge regionale n. 11/2009 con rifermento alla tutela e valorizzazione dell’«originale patrimonio culturale e linguistico del Piemonte, nonché quello delle minoranze occitana, franco-provenzale, francese e walser» (art. 1, c. 1), ancorché quest’ultima non sia in alcun modo ricompresa nel catalogo di cui all’art. 2, della legge n. 482/1999.

Di conseguenza, deve ragionevolmente ritenersi che la Corte costituzionale, asseverando l’interpretazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri ricorrente, tema in qualche modo l’introduzione di altre “lingue” non espressamente riconosciute da una norma statale generale solo in quanto appellate come tali, con la potenziale lesione di quella “unità nazionale” tanto paventata in seguito alla riforma costituzionale.

Ancora una volta, infatti, sembra volersi escludere la pretesa attribuzione alla regione «di un ordinamento profondamente differenziato da quello attuale e caratterizzato da istituti adeguati ad accentuati modelli di tipo federalistico, normalmente frutto di processi storici nei quali le entità territoriali componenti lo Stato federale mantengono forme ed istituti che risentono della loro preesistente condizione di sovranità», sulla scia di una consolidata giurisprudenza costituzionale estremamente prudente in ordine all’interpretazione della portata effettiva della ricordata costituzionale del 2001.

Le sentenze citate confermano la tesi in forza della quale non si possono equiparare i dialetti italiani (il friulano, il piemontese ecc.) alle minoranze linguistiche tutelate dalla Costituzione e dalla l. 482/99, che costituiscono un patrimonio culturale specifico (9).

 

 

 

Maesano Mario

 

1 A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Einaudi, Torino, 1993; S. Bartole (a cura di), Le Regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica, Giuffrè, Milano, 1999; M. Rosini, La tutela delle minoranze linguistiche nella seconda stagione statutaria, in E. Catelani, E. Cheli (a cura di), I principi negli statuti regionali, Bologna, Il Mulino, 2008; F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale e comparato dei gruppi e delle minoranze, Padova, Cedam, 2008.

2 Ministero dell’Interno, III Rapporto Nazionale sull’attuazione degli strumenti di protezione delle Minoranze linguistiche 2009.

3 D. Bonamore, “Lingue minoritarie-Lingue nazionali-Lingue ufficiali nella legge 482/1999”.

4 E. Stradella, La tutela delle minoranze linguistiche storiche tra Stato e Regioni davanti alla Corte costituzionale, in Le Regioni, 2009.

5 In proposito si vedano le sentenze della Consulta n. 14 del 1965, n. 128 del 1963, n. 46 e n. 1 del 1961, n. 38 del 1960. Proprio con riferimento ad una asserita ingiustificata disparità di trattamento tra la minoranza di lingua slovena del Friuli-Venezia Giulia e gli appartenenti alla minoranza alloglotta del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta con riguardo all’uso della lingua anche nel processo penale (previsto solo per i secondi dall’allora primo e terzo comma dell’art. 137 cod. proc. pen.), la Corte con la sentenza n. 28 del 1982 ha affermato che restava «rimesso al legislatore italiano, nella propria discrezionalità, di scegliere i modi e le forme della tutela da garantire alla minoranza linguistica slovena».

6 sentenze n. 261 del 1995, n. 289 del 1987 e n. 312 del 1983

7 A tal proposito, si pensi a coloro che non parlano o non comprendono la lingua protetta o a coloro che devono subire gli oneri organizzativi conseguenti alle speciali tutele

8 Ulrike Haider Quercia, la sentenza n. 170/2010 e la questione della competenza legislativa regionale in tema di tutela delle minoranze linguistiche.

Cfr. F. Palermo/J. Woelk,Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, pp. 255; M. Rosini, La tutela delle minoranze linguistiche nella second stagione statutaria , in: I principi negli statuti regionali, a cura di E. Catalani / E. Cheli, Bologna, 2008, p. 29

9 Valeria Piergigli, “La tutela delle minoranze linguistiche storiche nell’ordinamento italiano tra principi consolidati e nuove (restrittive) tendenze della giurisprudenza costituzionale”.

Elena Stradella, “La tutela delle minoranze linguistiche storiche tra Stato e Regioni davanti alla Corte costituzionale”.

 Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti – N.00 del 02.07.2010 “Federalismo linguistico, tutela delle minoranze ed unità nazionale”.

Roberto Toniatti, “Pluralismo sostenibile e interesse nazionale all’identità linguistica posti a fondamento di “un nuovo modello di riparto delle competenze” legislative fra Stato e Regioni”.

Maesano Mario

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