La cancellazione della società dal registro delle imprese e gli effetti sui procedimenti pendenti

Redazione 21/10/19
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di Beatrice Irene Tonelli

Sommario

1. Inquadramento storico normativo

2. Gli interventi delle Sezioni Unite

3. Le conseguenze della estinzione della società nei giudizi civili pendenti

4. Conclusioni

Il tema della estinzione delle società ha sempre rappresentato una questione controversa sia sotto il profilo della identificazione degli elementi costitutivi della fattispecie, ovvero dei fatti che determinano, come effetto, l’estinzione del soggetto giuridico, sia sotto il profilo della disciplina delle situazioni giuridiche soggettive che non si siano esaurite, o che sopravvengano, dopo la chiusura della fase di liquidazione.

Introducendo l’attuale sistema della pubblicità commerciale, il codice civile del 1942 aveva individuato il momento estintivo delle società di capitali nella cancellazione dal registro delle imprese da effettuarsi, ai sensi degli art. 2312 e 2456 c.c., al termine delle operazioni di liquidazione. Di conseguenza i creditori rimasti insoddisfatti avrebbero potuto rivalersi nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse, e nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento fosse dipeso da loro colpa[1].

La giurisprudenza, tuttavia, considerando le ripercussioni negative sulla tutela dei creditori sociali che sarebbero potute derivare da cancellazioni disposte all’esito di liquidazioni frettolose, si era orientata nel ritenere che la cancellazione della società dal registro delle imprese avesse una efficacia meramente dichiarativa, e quindi al più potesse valere come presunzione relativa di estinzione della società, suscettibile di prova contraria consistente della dimostrazione di sopravvivenze o sopravvenienze, sia attive che passive[2].

In particolare per le società di persone, si osservava che, difettando l’efficacia costitutiva della iscrizione nel registro delle imprese, anche la comunicazione di avvenuta cancellazione potesse produrre solo un effetto meramente dichiarativo e che l’estinzione del soggetto giuridico potesse realizzarsi solo all’esito della definizione integrale di ogni rapporto pendente e riferibile alla società, ovvero solo all’esito della chiusura della liquidazione che si fosse dimostrata effettiva e completa.

Dal punto di vista processuale, quindi, secondo la giurisprudenza prevalente, il giudizio di cui fosse parte la società, ancorché cancellata dal registro delle imprese, restava pendente in capo ad essa e fino alla completa definizione di tutti i rapporti giuridici di cui fosse titolare dal lato attivo o passivo.

E’ chiaro che la finalità di tale orientamento sostanzialistico era quella di tutelare i creditori societari che altrimenti avrebbero potuto essere pregiudicati da liquidazioni e cancellazioni fraudolente o comunque all’esito di liquidazioni incomplete.

Collegando la estinzione della società alla effettiva chiusura di tutti i rapporti giuridici pendenti, i creditori sociali potevano continuare a proporre le proprie azioni contro un unico soggetto, la società appunto, anziché doverle esercitare contro la pluralità dei soci, e mantenevano il privilegio rispetto ai creditori particolari di questi ultimi. Ed inoltre, la società rimaneva assoggettabile a fallimento anche dopo il termine annuale dalla cancellazione.

D’altro canto, questa soluzione comportava che la società potesse sopravvivere sine die anche contro la volontà di tutti i soci, e che la fase liquidatoria potesse essere protratta, o riaperta, in caso di sopravvenienze, anche a distanza di un significativo lasso di tempo dalla cessazione di ogni attività sociale.

La dottrina riteneva, invece, che la cancellazione dal registro delle imprese avesse efficacia costitutiva, quantomeno per le società di capitali, e comportasse quindi l’estinzione della società pur in presenza di rapporti giuridici ancora pendenti, rispetto ai quali si sarebbe dato luogo ad un fenomeno di tipo successorio.

In questo dibattito, è intervenuta la Corte Costituzionale che, con sentenza del 21 agosto 2000 n. 319, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 L.F. nella parte in cui non prevedeva che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese. Tale indicazione è stata di lì a poco recepita dal legislatore nel D.Lgs. 17.01.2003 n. 6 per la materia societaria e nei D.Lgs. 09.01.2006 n. 5 e D.Lgs. 12.09.2007 n. 169 in materia fallimentare.

Ed infatti, a seguito della entrata in vigore della riforma di diritto societario (1 gennaio 2004), l’art. 2456 c.c., che disciplinava gli effetti della cancellazione per la società di capitali, è stato sostituito dall’art. 2495 c.c. il quale conferisce espressamente efficacia costitutiva a tale atto, sicché la cancellazione dal registro delle imprese determina l’estinzione immediata della società di capitali.

Se la novella legislativa, in merito alle società di capitali, era chiara nel superare la dicotomia tra liquidazione formale e liquidazione sostanziale, nessuna modifica era invece stata introdotta alla disciplina dettata per le società di persone dall’art. 2312 c.c., il che aveva comportato l’inevitabile emersione di due orientamenti giurisprudenziali e dottrinali contrastanti, il primo che riteneva estensibile la disciplina prevista per le società di capitali anche a quelle di persone e il secondo che lo negava.

Si era inoltre creato un ulteriore contrasto sulla disciplina applicabile alla fattispecie in cui la cancellazione della società di persone fosse stata iscritta al registro delle imprese prima della entrata in vigore della riforma stessa.

[1] Cfr. Relazione del Guardasigilli al Re, n. 997.

[2] Cfr. Verbano M. “Estinzione di società” in Leggi d’Italia 2015 e giurisprudenza e dottrina ivi richiamata nonché p>

Il contrasto giurisprudenziale è stato composto dalle tre sentenze delle Sezioni Unite del 22 febbraio 2010 n. 4060, 4061 e 4062 che, condividendo il primo degli orientamenti sopra richiamati, hanno stabilito che la cancellazione dal registro delle imprese determina l’immediata estinzione anche delle società di persone[3] e, ove avvenuta prima della entrata in vigore della riforma del diritto societario, ha efficacia dal 1 gennaio 2004[4].

Con successive pronunce del 2013, n. 6070, 6071 e 6072, le Sezioni Unite hanno tuttavia precisato che la pubblicità della cancellazione, nel caso di società di persone, ha valore meramente presuntivo della estinzione del soggetto giuridico, superabile con prova contraria, cioè con la dimostrazione di un fatto dinamico, ovvero che la società ha continuato ad operare, mentre non sarebbe sufficiente un fatto statico, ovvero la mera sopravvivenza o sopravvenienza di rapporti non definiti.

In sostanza, perché la società si estingua non è sufficiente la temporanea inattività, o la mera inoperatività (che potrebbe persino essere connaturata alla fattispecie concreta, come nel caso delle c.d. società di comodo) ma è necessario riscontrare la definitiva interruzione di ogni operazione diretta al conseguimento dell’oggetto sociale[5].

La cancellazione della società dal registro delle imprese è, peraltro, suscettibile a sua volta di cancellazione qualora risulti che la annotazione della formalità estintiva sia avvenuta in assenza delle condizioni richieste dalla legge. L’art. 2191 c.c. prevede, infatti, che il giudice del registro delle imprese possa disporre, d’ufficio o su istanza del liquidatore, o del socio, la cancellazione dell’iscrizione della formalità estintiva, come nel caso in cui emerga che la liquidazione non era terminata essendovi ancora un patrimonio sociale da liquidare[6].

[3] Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, l’estensione della disciplina espressamente prevista per le società di capitali si fonda sulla esigenza, di rilievo costituzionale, di evitare ingiustificate discriminazioni tra creditori degli uni e degli altri tipi sociali, anche alla luce del nuovo art. 10 L.F. che, nell’individuare il dies a quo di decorrenza del termine annuale di fallibilità dalla cancellazione dal registro delle imprese, non distingue tra società di persone e di capitali. Del resto, se la cancellazione estingue la personalità giuridica delle società di capitali, a maggior ragione dovrebbe avere l’effetto di estinguere la mera soggettività giuridica propria delle società di persone.

[4] Iaccarino Interpretazione della valenza innovativa dell’art. 2495 c.c. ad opera della Cassazione dal 2008 al 2013 in Notariato 2013, Fimmanò Scioglimento e liquidazione delle società di capitali Giuffré 2011 e giurisprudenza e dottrina ivi richiamate, Verbano Estinzione cit.

[5] Verbano Estinzione cit. cui si rinvia per l’approfondita disamina della casistica di mancata approvazione del bilancio finale di liquidazione per le società di persone nel caso in cui i soci volontariamente scelgano di non aprire la fase liquidatoria.

[6] Cfr. Tr. Milano 26.03.2010; Spolidoro Seppellimento prematuro. La cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese e il problema delle sopravvenienze attive in Riv. Soc. 2007, 4, 824 nt 1. Si tratta comunque di un rimedio non azionabile dai creditori sociali e che può avere ad oggetto solo l’accertamento della mancanza di requisiti formali, ovvero di quegli elementi che il conservatore del registro delle imprese può valutare nel momento in cui viene presentata la domanda di cancellazione.

Dal punto di vista processuale, le principali questioni che si pongono nel caso di cancellazione della società dal registro delle imprese, in pendenza di giudizio, riguardano la necessità o meno che il processo si interrompa, l’individuazione dei soggetti legittimati a continuarlo o proseguirlo, anche in sede di impugnazione, e la validità della procura alle liti già conferita dagli organi rappresentativi della società.

E’ pacifico che una domanda giudiziale promossa contro la società già cancellata sarebbe inammissibile. Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, l’estinzione della società che avvenga quando il giudizio sia già stato incardinato, determina, ex art. 299 c.p.c., un fatto interruttivo del processo e produce un fenomeno successorio universale, ancorché sui generis, riconducibile all’applicazione dell’art. 110 c.p.c. con la conseguenza che la riassunzione o prosecuzione del giudizio dovrà avvenire da parte, o nei confronti, degli ex soci .

Si ritiene, infatti, che il giudizio non possa proseguire nei confronti del soggetto estinto, né nei confronti dei liquidatori che, automaticamente, cessano dalla carica proprio per effetto della estinzione della società, e pertanto il creditore sociale deve riassumere il giudizio nei confronti dei singoli soci che mantengono, o acquistano, la titolarità dei debiti sociali nei limiti della responsabilità che essi avevano originariamente assunto in base al tipo societario prescelto.

Al riguardo, l’art. 2495 comma 2 c.c. dispone che, entro un anno dalla cancellazione, i creditori sociali insoddisfatti in sede di liquidazione possano notificare le proprie domande contro i soci presso l’ultima sede della società. Tale previsione è chiaramente ispirata all’art. 303 comma 2 c.p.c. che consente di notificare l’atto di riassunzione agli eredi all’ultimo domicilio del defunto entro un anno dalla morte della parte. Vi è tuttavia una significativa differenza tra le due disposizioni perché questa facoltizza la notifica dell’atto “a tutti gli eredi impersonalmente”, mentre l’altra non contiene analoga previsione e si deve quindi ritenere che la notifica vada eseguita ai singoli soci come risultanti dal registro delle imprese[7].

Se l’individuazione e la notificazione ai singoli soci potrebbe non essere particolarmente gravosa per il creditore nel caso delle società di persone, che di norma sono costituite da compagini numericamente ridotte[8], qualche difficoltà operativa potrebbe porsi per le società di capitali.

Ed ancora, se l’estinzione avviene dopo la emanazione di un titolo esecutivo contro la società, questo potrà essere azionato nei confronti dei soci-successori (art. 477 c.p.c.)[9] ai quali dovrà essere notificato personalmente (art. 479 c.p.c.); specularmente, il titolo esecutivo a favore della società potrà essere azionato dai soci.

Recentemente la Suprema Corte ha stabilito che se l’estinzione della società si verifica in pendenza di un giudizio revocatorio promosso dal creditore, questi avrà diritto ad integrare il contraddittorio nei confronti dei ex soci che succedono alla società per i rapporti ancora pendenti.

Il creditore, infatti, può conseguire un titolo esecutivo, per un credito insorto pendente societate, anche dopo la sua estinzione, dovendosi intendere legittimati passivi alla corrispondente domanda i singoli soci i quali succedono alla società nei medesimi rapporti, così da rispondere delle sue obbligazioni, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti nel corso della sua attività, e quindi nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente[10].

Non è infrequente che la società venga estinta, pur in pendenza di un giudizio di cognizione avente ad oggetto il riconoscimento di un credito societario, ma nessuna disposizione di legge disciplina esplicitamente la sorte dei crediti della società cancellata.

Anche in questo caso, in linea di principio, troverà applicazione l’art. 110 c.p.c. e il diritto di azione spetterà agli ex soci in qualità di nuovi titolari della pretesa creditoria.

Le Sezioni Unite del 2013 hanno, tuttavia, precisato che la scelta dei soci di procedere alla cancellazione della società può valere come tacita rinuncia alle mere pretese, ovvero a quelle situazioni soggettive che al momento della estinzione della società non sia definite, ancorché azionate o azionabili in giudizio, il cui ammontare non sia determinato o determinabile, o i cui fatti costitutivi siano contestati dalla controparte. In altri termini, in tutti i casi in cui le circostanze della fattispecie concreta non consentirebbero di individuare nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, tale da essere inserito nel bilancio finale di liquidazione, la cancellazione volontaria equivarrebbe a rinuncia.

La presunzione di rinuncia, tuttavia, non può applicarsi alle pretese igp>[11].

In queste ipotesi, i diritti non estinti con l’estinzione della società si trasferiscono ai soci in contitolarità o in comunione indivisa tra gli stessi.

Inquadrato il fenomeno della estinzione della società in pendenza del processo come evento interruttivo ex art. 299 c.p.c., si pone il problema di stabilire cosa accada nel caso in cui il procuratore costituito della società non dichiari nei modi di legge l’avvenuta estinzione dell’ente.

Con la sentenza del 4 luglio 2014 n. 15295, le Sezioni Unite hanno chiarito che, in ragione della regola dell’ultrattività del mandato alla lite, quando l’evento interruttivo non sia dichiarato, è ammissibile la notifica del ricorso per cassazione presso il procuratore costituito per il precedente grado di giudizio (anche se la parte notificante avesse avuto da altra fonte notizia dell’evento interruttivo), così come la notificazione della sentenza fatta al procuratore costituito, a norma dell’art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte estinta. Ed ancora, il procuratore costituito, qualora gli fosse originariamente conferita procura alle liti valida anche per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione (ad eccezione del ricorso per cassazione, per la proposizione del quale è richiesta la procura speciale) in rappresentanza della parte che, pur estinta, va considerata nell’ambito del processo ancora in vita e capace.

In verità, la decisione citata era stata resa in un caso di morte della parte persona fisica, e quindi è giustificato il dubbio sulla estensibilità di tali principi al caso della estinzione dell’ente collettivo, che gode di un regime di pubblicità tale da rendere conoscibile (ed opponibile) il fatto. Ed in questi termini, infatti, si era già espressa la Suprema Corte nelle sentenze a Sezioni Unite del 2013, stabilendo che “l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta”. A conferma di ciò, le pronunce più recenti si sono espresse nel senso di ritenere che, pur in assenza di dichiarazione di estinzione della società in corso di causa, l’appello successivo al verificarsi della cancellazione deve provenire (o essere indirizzato) dai soci (o nei confronti dei soci) succeduti alla società estinta, a pena di inammissibilità[12].

E’ stato inoltre affrontato il caso della responsabilità, ai fini delle spese legali, del rappresentate legale della società che abbia proseguito il giudizio di merito pur dopo l’estinzione dell’ente, non dichiarata. All’indomani della pronuncia a Sezioni Unite del 2010, la Suprema Corte[13] manifestò un orientamento negativo, proprio in ragione del fatto che, secondo la precedente e consolidata interpretazione, si riteneva che, per i rapporti non definiti, la legittimazione sostanziale e processuale degli organi di rappresentanza della società non cessasse nonostante la cancellazione dell’ente dal registro delle imprese[14].

Più recentemente, invece, la Suprema Corte è tornata sul punto affermando che nell’ipotesi di proposizione di ricorso per cassazione da parte dell’ex rappresentante della società cancellata dal registro delle imprese, la sua inammissibilità – derivante dalla non operatività di alcun mandato per la peculiarità del giudizio di legittimità e comunque per la necessità che quello sia conferito da un soggetto esistente e capace di stare in giudizio – comporta che sia condannato alle spese in proprio il soggetto che, spendendo la giuridicamente impossibile qualità di legale rappresentante del soggetto non più esistente, ha conferito il mandato, ove l’avvocato si sia limitato ad autenticare la relativa sottoscrizione[15].

[7] Nella pratica, peraltro, non sempre i dati riportati nel Registro delle Imprese si dimostrano aggiornati e attendibili, specie per le società in via di dissoluzione e quindi il creditore insoddisfatto o la controparte processuale potrebbe incontrare maggiori difficoltà pratiche nella individuazione dei legittimi contraddittori dopo l’estinzione della società.

[8] Secondo l’id quod prelumque accidit, il creditore che agisce contro la società di persone per l’accertamento del proprio diritto evoca in giudizio tanto la società quanto i soci illimitatamente responsabili, poiché il limite del beneficio di preventiva escussione opera in fase esecutiva e non di cognizione, e quindi i legittimati passivi per la riassunzione potrebbero già essere parti del giudizio.

[9] Cass. Civ. sez. III, 8 agosto 2013, n. 18923, in Giur. it., 2013, 2265

[10] Cass. Civ. sez. III, 21 maggio 2019 n. 13593.

[11] La dottrina ha variamente criticato la soluzione prospettata dalle Sezioni Unite sulle sopravvivenze e sopravvenienze attive e, in mancanza di una specifica disciplina normativa, alcuni hanno postulato una reviviscenza o persistenza della compagine sociale (D’Alessandro Cancellazione della società e sopravvenienze attive: opportunità e legittimità della riapertura della liquidazione in Società 2008, 7, 893), o un fenomeno successorio a titolo particolare nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c., configurando la nascita di una comunione tra gli ex soci sui beni sopravvenuti alla cancellazione (Niccolini Art. 2495 c.c. in Commentario a cura di Niccolini Stagno d’Alcontres Napoli 2004 1836; Fimmanò Cancellazione ed estinzione delle società di persone in Notariato 2013 3 279). Una terza soluzione proposta, rimasta isolata, è l’applicazione analogicamente dell’istituto della eredità giacente, prevedendo quindi che il tribunale nomini un curatore speciale, su istanza degli interessati o anche d’ufficio, a cui attribuire non la titolarità del diritto ma la titolarità della legittimazione processuale attiva o passiva per l’accertamento e la riscossione del credito sopravvenuto dopo la estinzione della società, soddisfacendo così sia la disposizione normativa che è di prevedere la estinzione definitiva della società con la cancellazione dal registro delle imprese sia di soddisfare il credito dei soci alla ripartizione del residuo patrimonio sociale. (Salafia Sopravveninza di attività dopo la cancellazione della società dal Registro delle Imprese in Società 2008, 8 , 931). Questa ultima soluzione tuttavia comporterebbe, dal punto di vista pratico, una maggiore farraginosità della procedura, un allungamento dei tempi e un aumento dei costi quantomeno per il compenso del curatore, senza consentire di avere vantaggi maggiori rispetto alla più lineare opzione di applicare direttamente l’art. 110 c.p.c

[12] Corte Cass. Sez. I, sent. 19.12.2016 n. 26196 e ordinanza 09.10. 2018, n. 24853.

[13] Cass. Civ. sez. I, 8 ottobre 2010 n. 20878.

[14] Ferrari Gli effetti della cancellazione della società di persone dal Registro delle Imprese, 14.12.2010 in Leggi D’Italia Legale.

[15] Corte di Cass. Sez. VI, ordinanza 22.05.2018 n. 12603

La soluzione offerta dalle pronunce a Sezioni Unite ha l’indubbio merito di offrire una indicazione applicativa di immediata fruibilità, e nondimeno non è andata esente da critiche, in particolare per il caso in cui il socio (di società di capitali o socio accomandante), chiamato a rispondere dei debiti sociali solo nei limiti di quanto abbia ricevuto all’esito della liquidazione, non abbia ricevuto alcunché in sede di riparto. In tal caso, la soluzione indicata dalla Suprema Corte è che tale soggetto sia legittimato passivo alla riassunzione del giudizio da parte del creditore sociale, per soddisfare l’esigenza di individuare il legittimo contraddittore sul piano processuale, pur non essendo l’ex socio effettivamente successore a titolo universale della società, poiché da essa nulla ha ricevuto e in concreto a nulla potrà essere condannato.

La stessa Suprema Corte riconosce espressamente che non si tratta di fenomeno di successione universale in senso proprio, pur riconducendolo all’ambito di applicazione dell’art. 110 c.p.c. e ritiene che, in queste ipotesi, la questione vada risolta in termini di difetto di interesse ad agire (rectius: proseguire) del creditore-attore nei confronti degli ex soci che non fossero illimitatamente responsabili e non hanno percepito nulla in sede di liquidazione.

E più in generale, parte della dottrina dubita che la deliberata scelta dei soci di cancellare la società possa essere assimilata ai fenomeni involontari che determinano l’interruzione del processo, ex art. 299 c.p.c. ovvero la morte o la perdita della capacità della parte, e predilige quindi la ricostruzione del fenomeno in termini di successione a titolo particolare con applicazione dell’art. 111 c.p.c.[16].

Il quadro normativo è ulteriormente complicato dal fatto che sono previste almeno due ipotesi in cui, con una fictio iuris, la società estinta si considera ancora esistente, e si tratta del caso previsto dall’art. 10 l. fall., per il quale la società può essere dichiarata fallita entro un anno dalla sua cancellazione[17], e del caso previsto dall’art. 28 d.lgs. 175/2014, per il quale l’Amministrazione finanziaria (e gli altri soggetti titolari del potere impositivo) possono notificare validamente atti attinenti a tributi e contributi alla società entro cinque anni dalla avvenuta cancellazione[18]. Sono casi che si pongono in aperto contrasto con la interpretazione della Suprema Corte della l’estensione tout court dell’art. 110 c.p.c. al caso della cancellazione della società dal registro delle imprese, che potrà quindi essere oggetto di ulteriori approfondimenti e possibili revirement per superare le criticità sopra evidenziate.

[16] Dalfino L’estinzione della società a seguito di cancellazione non è sempre “a tutti gli effetti” in www.cortedicassazione.it

[17] Seguendo un indirizzo dissonante rispetto a quanto affermato per le ordinarie liti civili, la Suprema Corte afferma che in questo caso il ricorso per la dichiarazione di fallimento non deve essere notificato agli ex soci, bensì al liquidatore entro l’anno dalla iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese (Cass. Civ., sez. I, 11 luglio 2013, n. 17208, in Foro it., Rep. 2013, voce Fallimento, n. 192), presso l’ultima sede legale della società, e che è il liquidatore della società cancellata legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza di fallimento (Cass. Civ., sez. I,5 novembre 2010, n. 22547, in Foro it., Rep. 2010, voce Fallimento, n. 592).

[18] Dalfino L’estinzione della società a seguito di cancellazione non è sempre “a tutti gli effetti” in www.cortedicassazione.it

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