L’ impiego pacifico dell’energia nucleare in italia

Arena Daniele 06/04/06
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Valutata per lungo tempo quale principale fonte alternativa di approvvigionamento dell’energia rispetto alle tradizionali fonti, l’energia nucleare ha avuto un rapido iniziale sviluppo.
Sviluppo giustificato dalla necessità di reperire, nel minor tempo possibile, fonti energetiche alternative al petrolio, attese le difficoltà di approviggionamento dello stesso, nonché la necessità di evitare forme di soggezione economica verso i paesi maggiori produttori di greggio.
Del resto, l’enorme sviluppo in campo tecnologico e i grandi progressi in campo scientifico delle tecniche di utilizzo dell’energia nucleare, ha condotto ad un diffuso impiego su scala industriale.
 Tuttavia, nel corso degli anni, il ruolo del nucleare in Europa è mutato sensibilmente.
La dipendenza dell’Europa da forniture esterne, non costituisce più motivo di seria preoccupazione, sia per la maggior disponibilità di offerta da paesi ad economia di mercato, sia perché l’ex Unione Sovietica è diventata la principale fonte esterna dell’Unione Europea.
Lo sviluppo sempre più intenso di una “coscienza ambientale” amplificata dall’incidente di Chernobyl del 1986, ha ridotto drasticamente, e talora persino bloccato, i progetti di produzione nucleare cosi com’è avvenuto in Italia.
Il Referendum del Novembre 1987 ha difatti sancito la messa in mora, nel nostro Paese, del programma energetico nucleare.
In tale scenario la tendenza di alcuni Paesi comunitari, è stata di favorire lo sviluppo di programmi ed iniziative nazionali, piuttosto che favorire lo sviluppo di progetti comuni, con il conseguente ridimensionamento del ruolo dell’Euratom, la Comunità Europea dell’Energia Atomica, istituita con il Trattato di Roma del 25.3.1957.
Da ultimo, dopo una pausa di riflessione dovuta alla revisione critica dei vantaggi sul ricorso alla fonte nucleare per produrre energia elettrica, è ripreso il cammino verso la progettazione di nuove centrali nucleari, laddove consentito, seppur con maggiori cautele.
In particolare l’Euratom, da qualche anno, ha varato un programma per lo studio dei reattori del futuro (International Thermonuclear Experimental Reactor), al fine di agevolare l’armonizzazione delle procedure di sicurezza degli impianti e di creare un mercato unico delle apparecchiature nucleari.
Nonostante il progresso delle tecnologie di utilizzo del nucleare, la possibilità che si verifichino incidenti, è tutt’ora elevata.
Il maggior problema consiste nel circoscrivere gli effetti dell’incidente entro limiti spaziali e temporali definiti, essendo caratteristica peculiare dell’incidente nucleare, la diffusione di radiazioni nocive per ampio raggio.
Dinanzi a sciagure di tale portata, è stata avvertita come primarie ed ineludibile l’esigenza di garantire ai soggetti danneggiati una specifica tutela giuridica, prevedendo una normativa ad hoc.
L’esigenza è stata recepita, in primis, a livello di organismi internazionali e  in seguito tradotta, dai vari Stati membri, in normative interne aderenti alla diversa Convenzione in materia nucleare.
Fin dalle prime esperienze maturate negli Stati Uniti, si è manifestata l’esigenza di assicurare un risarcimento adeguato alle potenziali vittime di incidenti nucleari, modificando i principi tradizionali in materia di responsabilità civile, i quali impongono sia l’individuazione precisa dei responsabili, sia l’esatta individuazione del rispettivo grado di responsabilità.
Inoltre si è da subito sentita l’esigenza di mutare il criterio di imputazione della responsabilità per danni provocati da incidenti nucleari, ritenendo poco rigoroso ai fini dell’esonero la mera dimostrazione di aver adottato misure idonee ad evitare il danno, in un settore relativamente nuovo ove le misure preventive sono in continua evoluzione.
Il problema è stato affrontato a livello di organismi internazionali e risolto con una serie di Convenzioni, che hanno, di fatto, recepito la necessità di una armonizzazione delle specifiche normative nazionali.
Una delle principali Convenzioni in materia è la “Convenzione sulla responsabilità civile nel campo dell’energia nucleare” firmata a Parigi il 29.6.1960 dagli Stati aderenti all’OECE (Organizzazione Europea di Cooperazione Economica),  l’attuale OCSE.
Tale Convenzione entrata in vigore l’anno successivo, ha introdotto una serie di principi fortemente innovativi rispetto alle classiche regole della responsabilità civile.
La norma cardine è rappresentata dall’art. 3 della predetta Convenzione che sancisce la responsabilità per l’operatore di un impianto nucleare per ogni danno alle persone o cose, scaturente dall’attività.
Con tale principio si è affermata la natura assoluta ed oggettiva della responsabilità, resasi necessaria, in tale ambito, per l’inadeguatezza delle tradizionali figure di responsabilità per colpa.
A fronte di ciò, però, è stata prevista una limitazione del debito dell’operatore nucleare sia nell’ammontare che nella durata, e la possibilità per lo Stato che ospita l’impianto, di intervenire finanziariamente per garantire i danni d’entità superiore all’importo garantito dall’esercente.
Altro principio innovativo, è quello previsto dall’art. 6 della Convenzione di Parigi, in esso si rinviene il principio della “canalizzazione” della responsabilità per danni da impiego pacifico di energia nucleare.
In forza di tale principio il diritto al risarcimento può essere esercitato soltanto contro l’operatore responsabile a norma della Convenzione stessa, inoltre, nessun altro soggetto escluso l’assicuratore può essere chiamato in causa dal danneggiato.
Non è prevista la possibilità di rivalsa da parte dell’operatore nei confronti di altri soggetti che abbiano contribuito, in tutto o in parte, al verificarsi dell’incidente nucleare.
La normativa della Convenzione è caratterizzata anche dal principio della “continuità”, quale espressione della necessità che non si determinano momenti o situazioni nelle quali potrebbero sorgere incertezza circa l’effettivo responsabile dell’incidente nucleare.
 E’ stata puntualmente osservato che la Convenzioni con tali norme mira a creare un sistema “ad ombrello” in modo da coprire l’intera gamma delle  ipotesi di responsabilità[1].
Tuttavia a pochi anni dalla firma della Convenzione di Parigi, iniziarono ad emergere maggiori esigenze di tutela nei confronti dei potenziali danneggiati, valutandosi particolarmente inadeguato il limite fissato per il risarcimento del danno nucleare.
Si giunse così a siglare la Convenzione di Bruxelles del 31.1.1963 sotto gli auspici dell’Euratom e con la firma dei paesi aderenti all’OECE, Convenzione che entro in vigore solo nel 1974.
Con la Convenzione di Bruxelles è stata prevista un’ulteriore garanzia finanziaria qualora l’importo del danno risarcibile fosse di entità superiore all’ammontare coperto dallo Stato direttamente coinvolto dall’incidente, gli Stati firmatari hanno l’obbligo di intervenire congiuntamente per l’eccedenza, secondo un complesso e articolato meccanismo di ripartizione dell’onere.
 Inoltre, nel 1963 a Vienna fu varato un’ulteriore strumento internazionale per la disciplina della responsabilità civile derivante dall’impiego pacifico dell’energia nucleare, su iniziativa dell’ AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) che vide quali firmatari gli Stati in via di Sviluppo e gli stati aderenti al patto di Varsavia.
Infine, va precisato che le Convenzioni di Parigi e di Bruxelles sono state modificate dai Protocolli addizionali approvati il 28.1.1964 ed il 16.11.1982 per mezzo dei quali si è proceduto al progressivo aumento dei limiti di risarcimento previsti per gli Stati aderenti.
L’incidente russo di Chernobly dell’aprile 1986 ha spostato l’attenzione dei vari Stati verso problemi nuovi, quali in primis la tutela ambientale e la necessità di garantire forme nuove e più efficaci di cooperazione.
Dalla triste tragedia, è emerso quanto insufficiente fosse l’entità dell’obbligazione risarcitoria posta a carico dell’esercente, di fronte ad eventi di tale portata.
Si sono rese evidenti le grosse lacune degli strumenti tecnici e normativi al fine di assicurare la dovuta assistenza agli Stati colpiti dall’incidente.
La volontà comune di sopperire, in maniera adeguata, alle carenze che Chernobly aveva messo in luce, si è tramutata in due importanti accordi: La “Convenzione sulla tempestiva notifica dell’incidente nucleare” e la “Convenzione relativa all’assistenza in caso di incidente nucleare o di situazione di emergenza radiologica”, ambedue siglate a Vienna il 26.9.1986.
Sempre sulla spinta di Chernobly, hanno visto la luce il Protocollo di Emendamento alla Convenzione di Vienna del 1963 e la Convenzione sul risarcimento aggiuntivo dei danni nucleari entrambi firmate dall’Italia nel 1988.
Con tali strumenti si è estesa l’efficacia della Convenzione ai “danni ovunque subiti”, si è dilatato l’ammontare del risarcimento portando la soglia minima a 300 milioni di diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale e si è ridefinito il danno nucleare reputando risarcibili, anche,  i danni immateriali alle persone ed ai beni, ed il costo delle misure di ripristino dell’ambiente compreso il lucro cessante correlato alla sua degradazione.
La Convenzione sul risarcimento aggiuntivo ha previsto, inoltre, che lo Stato di ubicazione dell’impianto assicuri una copertura di danni nucleari di almeno ulteriori 300 milioni di diritti speciali di prelievo, demandando ad un’ulteriore Fondo Internazionale la possibilità di ristoro di danni ulteriori[2].


Legge 31.12.1962 n. 1860. Ambito applicativo e natura della responsabilità.
In Italia, la responsabilità civile derivante dall’impiego pacifico dell’energia nucleare è regolata da principi e da norme del tutto particolari, che costituiscono un sistema a sé stante di diritto speciale.
Nel nostro Paese, le Convenzioni di Bruxelles e di Parigi sono state rese esecutive solo nel 1974 con l’emanazione della Legge 1091974, contenente la delega d’attuazione degli accordi internazionali.
In attuazione di tale delega è stato emanato il d.p.r. 10.05.1975 n. 519[3], recante “Norme per l’applicazione degli atti internazionali in materia di responsabilità civile nel campo dell’energia nucleare ratificati e resi esecutivi con la Legge 12 Febbraio 1974, n. 109 e per il coordinamento dei predetti atti internazionali con le disposizioni di legge in vigore”.
Il ritardo nella ratifica di questi importanti accordi internazionali, e dei relativi Protocolli addizionali, è stato certamente causato dalla presenza nel nostro ordinamento della Legge 31.12.1962 n. 1860 recante norme per regolamentare l’impiego a scopi pacifici dell’energia nucleare.
In tale legge, infatti, al Capo III (artt. 15-25) si trovano i principi fondamentali della responsabilità civile nel campo dell’impiego pacifico dell’energia nucleare, tali principi mostrano chiaramente come il legislatore italiano aveva già fatto propri le norme fondamentali della Convenzione di Parigi del 1960.
In seguito, con il d.p.r. 519/1975, sono state apportate delle modifiche alla disciplina della l. 1860/62, al fine di armonizzare la normativa interna a quella internazionale pattizia.
Dall’analisi di tale legge si evincono gli aspetti peculiari di una normativa specifica che interviene in un ambito molto delicato quale è quello concernente l’impiego di un’energia con una lesività  potenziale molto elevata.
La responsabilità civile connessa ad un incidente nucleare è una responsabilità oggettiva e canalizzata nei confronti dell’esercente l’impianto.
L’incidente nucleare, è dal canto suo, qualificato dall’art. 1,2°comma della
L. 1860/62 cosi come modificata dal d.p.r. 519/1975 in base al quale è definito incidente: “ qualsiasi fatto o successione di fatti aventi la stessa origine, che abbia causato danni, purché questo fatto o successione di fatti o qualsiasi danno da essi causato provengono o risultino dalla proprietà radioattive o dall’unione delle proprietà radioattive con proprietà tossiche o esplosive, o altre proprietà pericolose, di combustibili nucleari o di prodotti o di rifiuti radioattivi “.
Inoltre, ai fini della corretta individuazione della nozione di incidente nucleare occorre anche richiamare l’art. 15, 5°comma L. 1860/62 in base al quale:
l’esercente di un impianto nucleare è, altresì, responsabile dei danni causati da radiazioni ionizzanti emesse da qualsiasi sorgente radioattiva che si trovi nell’impianto nucleare ”. 
Dall’analisi delle suddette norme si può ritenere, che ai fini della configurabilità dell’ipotesi di incidente nucleare, richiede la sussistenza di due circostanze: l’univocità dell’origine degli eventi dannosi e la necessità che l’evento dannoso sia attribuibile, esclusivamente, alle proprietà radioattive delle sostanze utilizzate all’interno di un impianto nucleare.
Si possono considerare compresi  nella nozione di danno nucleare, non solo, gli eventi catastrofici di ampia portata, ma anche quegli incidenti di minore entità che non presentano caratteri di eccezionale gravità.
Non rientrano, invece, in tale nozione i danni arrecati all’impianto nucleare in sé o alle cose che si trovano nel luogo dell’impianto stesso, poiché esplicitamente esclusi dall’art. 15, 3° comma della L. 1860/62.
La normativa, tuttavia, prevede una particolare ipotesi di assimilazione di danni di natura diversa ai danni nucleari, si parla nel caso dei c.d. danni misti, danni in pratica causati congiuntamente da un incidente nucleare e da un incidente di diversa natura.
In tal caso, si ritiene, che qualora non sia oggettivamente possibile risalire all’origine dei singoli danni, il danno provocato da un incidente non nucleare è considerato danno nucleare con la conseguenza che, anche in tale ipotesi, l’unico responsabile è l’esercente l’impianto nucleare ( art. 15, 4°comma).
Con tale norma, la l. 1860/62 ha difatti derogato ai principi di diritto comune circa la ripartizione del debito fra condebitori solidali e la possibilità di regresso riconosciuta a favore di coloro che abbiano pagato ex artt. 1298-1299 c.c.; questi, principi operanti in campo extracontrattuale in virtù della previsione dell’art. 2055 c.c.
 Nell’ipotesi di danni misti, infatti, in applicazione del principio di canalizzazione della responsabilità, si esclude che in relazione ai danni arrecati a terzi sussistono più condebitori solidali dell’obbligazione risarcitoria.
Il soggetto individuato come obbligato è unico, non sorge alcun problema di ripartizione del debito, né di regresso; tuttalpiù vi sarà la rivalsa dell’esercente nei confronti dell’assicuratore, qualora il primo avesse pagato per l’intero.
Figura cardine della responsabilità civile in materia di impiego pacifico dell’energia nucleare è l’esercente l’impianto; esso è individuato dall’art. 1, 2° comma L. 1860/62 come “ il soggetto titolare della licenza rilasciata dal Ministero per l’industria, il commercio e l’artigianato per l’esercizio dell’impianto nucleare”.
La subordinazione della qualifica di esercente un impianto nucleare al rilascio di apposita licenza è stata operata al fine di garantire un’immediata e univoca individuazione del responsabile di eventuali danni nucleari.
Problemi si pongono qualora l’autorizzazione, regolarmente rilasciata, sia considerata nulla per la presenza di vizi essenziali; oppure nel caso in cui si verificano ipotesi di revoca (art. 19, 2°comma) o sospensione della licenza (art. 30, 2°comma) e  venga comunque esercitata attività nucleare.
In tutte queste ipotesi, si presentano una serie di problemi in ordine alla disciplina della responsabilità.
In dottrina, si è molto discusso, se l’autorizzazione rappresenti o meno un momento costitutivo della responsabilità civile, tale cioè da consentire l’applicazione della speciale forma di responsabilità prevista dalla L. 1860/62, nella mera ipotesi di esercizio legittimo, ovvero se la responsabilità nucleare sussista anche qualora si configuri un esercizio di fatto dell’impianto.
E’ indubbio che il problema non investe il legittimato passivo dell’azione di responsabilità, giacché in caso di incidenti nucleari l’unico responsabile sul piano sia civile che penale rimane sempre l’esercente dell’impianto.
Controversa, invece, è la configurabilità in ogni caso delle speciali garanzie che sono previste dalla normativa nucleare, quali il massimale di responsabilità, l’intervento dello Stato e la copertura assicurativa.
Taluni autori, non riconoscendo efficacia costitutiva all’autorizzazione ministeriale, sostengono che in caso di danni nucleari la responsabilità gravi in ogni caso sull’esercente l’impianto, con la specificazione che l’esercizio abusivo comporta la mancanza di una copertura assicurativa e l’esclusione dell’intervento dello Stato per i danni eccedenti il massimale[4]
Diversamente, altri autori, ritengono l’autorizzazione un consenso a contenuto conformativo, alla quale sono ricollegati particolari effetti riguardo al rischio che comporta l’esercizio di un’attività nucleare.
Da tale qualificazione ne deriva che la disciplina speciale non è estensibile a situazioni e circostanze giuridiche non espressamente previste dalla Legge[5].
La legge che ha regolato le ipotesi di danni nucleari ha imposto, inoltre, all’esercente l’impianto l’obbligo di stipulare una specifica assicurazione, dell’importo pari a 7500 milioni di vecchie lire o, in alternativa, di prestare altra garanzia finanziaria di pari importo, allo scopo di garantire la totale copertura del rischio a proprio carico ( art. 22, 1°comma).
Le condizioni generali della polizza devono essere approvate dal Ministero per l’Industria, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture o, qualora si tratti di altra garanzia finanziaria, ci concerto con il Ministero del Tesoro.
Il rilevante impegno finanziario richiesto ha portato in Italia alla creazione del c.d. “pool atomico”, una coalizione di circa ottanta imprese assicuratrici operanti nel campo della responsabilità civile, consorziatesi allo scopo di garantire la totale copertura finanziaria connessa al risarcimento.
L’assicuratore assume particolare rilevanza nell’ambito della responsabilità nucleare, poiché egli è l’unico soggetto diverso dall’esercente, nei confronti del quale è esperibile l’azione per il risarcimento dei danni.
Infatti, l’art. 18,1° comma prevede espressamente che il diritto al risarcimento può essere esercitato “contro un esercente che sia responsabile a norma della presente legge; oppure contro l’assicuratore o contro qualsiasi altra persona che abbia dato una garanzia finanziaria all’esercente”.
Questa norma assume particolare interesse, perché rappresenta l’unica ipotesi in cui viene derogato il principio dell’unicità della responsabilità in ambito nucleare.
In tutte le altre ipotesi in cui sono chiamati a rispondere soggetti diversi dall’esercente, quali il costruttore o il trasportatore, il loro intervento avviene in sostituzione dell’esercente; in quanto la legge sussistendo particolari condizioni equipara gli stessi alla figura dell’esercente.
A ben vedere, invece, l’azione nei confronti dell’assicuratore è un’azione diretta,  non essendo questa  esperibile in sostituzione dell’esercente.
Il rapporto di responsabilità che lega l’assicuratore all’esercente è, in sostanza, un rapporto di tipo solidale.
Inoltre, occorre tener in debito conto, che l’assicuratore in virtù della disposizione di cui all’art. 18, ult comma, non ha alcun’azione nei confronti dell’esercente dell’impianto nucleare, né delle persone solidalmente responsabili con lo stesso.
La legge speciale 1860/62 disegnano una regola assai severa di responsabilità, fondata esclusivamente sul fatto obiettivo dell’incidente nucleare e addossando tutte le conseguenze dannose che ne derivano all’esercente dell’impianto nucleare.
La qualificazione di tale responsabilità, quale responsabilità oggettiva, non è affatto pacifica in dottrina.
Vi sono taluni autori, che con riferimento alle regole della l. 1860/62, hanno  parlato di “responsabilità causale”, volendo con ciò indicare che il responsabile debba essere ricercato in colui nella cui sfera di attività si trova la causa del danno[6].
Vi è, invece, chi sostiene che la fattispecie giuridica prevista dalla legge in esame, non sia neppure  riconducibile alla nozione codicistica di responsabilità.
Tali autori, infatti, muovono dall’idea che la causa non può essere considerata un criterio di imputazione della responsabilità, reputando errato voler individuare il responsabile attraverso il filo conduttore di una rigorosa serie causale[7].
In sostanza, si ritiene che sia la legge ad indicare espressamente il soggetto tenuto al risarcimento del danno nucleare, indipendentemente dalla vera origine del danno.
In base a tale ricostruzione, basta l’utilizzazione dell’impianto o delle materie nucleari per rispondere secondo il concetto del godimento e del rischio accettato, che lo stesso godimento comporta[8].
In ogni caso, indipendentemente dalla qualificazione della responsabilità per danno nucleare come oggettiva o causale, è indubbio che la fattispecie configura una responsabilità straordinaria, che difficilmente potrà essere inquadrata nelle categorie di responsabilità soggettive od oggettiva.
Si noti, inoltre, che tale legge speciale pur riguardando attività intrinsecamente pericolose, è derogativa rispetto alla previsione dell’art. 2050 c.c., ed è anche modificativa delle modalità attraverso cui viene ad essere individuato il nesso eziologico tra evento e danno, poiché è la legge con previsione espressa che indica il soggetto obbligato al risarcimento.
La disciplina speciale in esame, trova applicazione in tutti i casi di danni prodotti in seguito ad incidenti nucleari, ciò si badi, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell’esercente l’impianto.
A tale conclusione può pervenirsi sulla scorta di due ordini di motivi: prima fra tutti non vi è alcuna espressa previsione che limita le ipotesi di risarcimento in ragione della natura giuridica dell’esercente; inoltre può richiamarsi l’orientamento giurisprudenziale che attribuisce la responsabilità civile ad un soggetto indipendentemente dalla sua natura giuridica.
Tale valutazione è fondamentale se si tiene presente che l’Italia prima del Referendum del 1987, l’esercente principale di impianti nucleari era l’ENEL.
La disciplina enucleata dalla L. 1860/62 incontra un limite di applicabilità con riguardo al particolare impiego della materia nucleare stessa.
La predetta Legge, infatti, non trova applicazione in caso d’impiego militare delle sostanze nucleari.
Vi sono, poi, situazioni particolari in cui si ritiene che la delimitazione tra ambito applicativo della L. 1860/62 e la norma di cui all’art. 2050 c.c. assuma contorni sfumati.
Nello specifico, esiste un orientamento dottrinale che individua specifiche ipotesi nelle quali la norma codicistica potrebbe avere una limitata applicazione.
Trattasi di ipotesi nelle quali si verifichino danni non causati da incidente nucleare, ma comunque connessi all’utilizzo di materiale radioattivo, sia all’interno di un impianto che in ambiti totalmente diversi[9].
I danni riconducibili alla disciplina dell’art. 2050 c.c. potrebbero essere rappresentati da:
·      danni prodotti all’impianto nucleare in sé, o alle cose che si trovano all’interno dell’impianto stesso;
·      danni procurati al mezzo di trasporto del materiale nucleare, in caso di incidente;
·      danni generati da atti di conflitto armato, di ostilità, di guerra civile, di insurrezione o di cataclismi naturali.
Vi sono da ultimo ipotesi di utilizzo a scopi pacifici di materiale radioattivo che non rientrano dell’ambito di applicazione della disciplina in esame.
Si pensi all’impiego di macchine radiogene nel campo della diagnostica sanitaria o nell’ambito dell’industria dei materiali.
In tutte queste ipotesi si ritiene pacificamente, che trattandosi di attività con un’intrinseca pericolosità, si rientri senza dubbio nella previsione dell’art. 2050 c.c., al fine di garantire un’adeguata tutela ai soggetti danneggiati[10].

IL DANNO DA “DECOMMISSIONING
 
La cessazione dell’attività di un impianto nucleare non segna la fine di qualsiasi problema connesso a tale attività.
A ben vedere, proprio lo smantellamento ( c.d. decommissioning ), di una centrale nucleare presenta il maggior grado di rischio di contaminazione.
Il maggior problema attiene alla permanenza nell’ambito della centrale di materiale altamente radioattivo.
In realtà, nonostante il forte sviluppo su scala industriale, dell’impiego del nucleare, le esperienze in campo di decommissioning sono state molto limitate, in considerazione della giovane età degli impianti in funzione in Europa.
Tutto ciò si è tradotto nella carenza di una disciplina ad hoc volta a regolamentare il fenomeno in esame.
Le operazioni di decommissioning constano di due fasi; in una prima fase si procede all’asportazione del combustibile nucleare e al relativo stoccaggio dei rifiuti.
Nella fase successiva è necessario procedere alla decontaminazione dei singoli componenti produttivi, i quali presentano diversi gradi di radioattività in ragione della maggiore o minore vicinanza al reattore.
Tale ultima fase può realizzarsi attraverso tre diverse modalità conosciute dalla tecnica:
Il metodo dell’entombment consiste nel ricoprire l’intero impianto con una struttura di materiale fortemente isolante per il tempo necessario all’eliminazione di qualsiasi traccia di radioattività.
 Il metodo del safe storage, che consiste nella chiusura totale dell’impianto, al fine di evitare l’accesso a chiunque nell’attesa che il livello di radioattività scenda sotto la soglia di rischio, e solo a partire da quel momento si procederà alla rimozione dei singoli componenti.
Infine il metodo del dismantlment che consiste in una fase preliminare atta alla decontaminazione del sito e in una fase immediatamente successiva, volta alla completa rimozione della struttura produttiva.
Al di là del diverso metodo utilizzato, dal quale dipenderà il maggior o minor rischio che beni contaminati permangano anche dopo il decommissioning, resta aperto il problema dell’inquadramento giuridico di tale attività e della relativa responsabilità per i danni che si potrebbero verificare.
 Da un’attenta analisi della Convenzione di Parigi del 1960, può fondatamente ritenersi che anche le attività di decommissioning possono rientrare nel regime severo di responsabilità previsto da tale normativa.
Infatti, all’art. 1, lett a, par.ii si ricomprende nella definizione di impianto nucleare “….tutti quegli altri impianti nei quali si tengono combustibili nucleari o prodotti, o rifiuti radioattivi…”, precisando inoltre al par.iv, che “ prodotti radioattivi significa le materie radioattive prodotte o rese radioattive mediante esposizione alle radiazioni inerenti alle operazioni di produzione e di impiego di combustibili nucleari “
Fondamentale è inoltre anche la previsione dell’art. 2,2°comma della Convenzione di Bruxelles del 1963 ove si considera incidente nucleare quello
avvenuto nell’impianto o connesso con lo stesso ”, intendendosi con tale ultima espressione “ il danno cagionato direttamente dai combustibili nucleari o dai prodotti o rifiuti radioattivi immagazzinati, abbandonati, sottratti o perduti”.
 E’ quindi possibile ritenere rientranti nella particolare disciplina delle attività nucleari anche le ipotesi di danno provocati da residui radioattivi durante le operazioni di decommissioning[11].
Và, inoltre, presa in considerazione la specifica disciplina prevista nel nostro Paese  con il D.lg. 17.3.1995, n. 230 in materia di radiazioni ionizzanti, in virtù della quale si prevedono particolari responsabilità per le operazioni con materie radioattive qualora si verificano eventi che possono comportare rilevante contaminazione dell’aria, delle acque, del suolo e di altre matrici esterne al perimetro di uno stabilimento, facendo rinvio ai decreti emanati dal Ministero dell’Ambiente di concerto con il Ministero della Sanità e dell’Interno per la precisa quantificazione dei livelli di rilevante contaminazione.
CONCLUSIONI
L’idea di dedicare parte di questo lavoro all’analisi della disciplina in materia di impiego pacifico dell’energia nucleare in Italia, nasce all’indomani di quelli che mi piace definire come i “moti” di Scanzano Jonico.
Il timore e la paura di vedere la mia amata terra divenire un cimitero nucleare, il ricordo tratteggiato dai nostri nonni delle lotte contadine e dalle conquiste della riforma fondiaria degli anni cinquanta, mi hanno spinto a far uso delle uniche armi che riconosco: lo studio, l’analisi, la critica; ciò si badi con i limiti di un giurista in formazione.
La vicenda di Scanzano Jonico, certamente ho scosso le coscienze di tutto il nostro Paese ed ha riportato la giusta attenzione su di un tema cosi delicato e dibattuto quale è l’utilizzo dell’energia nucleare e la gestione dei rifiuti radioattivi.
Con il Decreto-legge 14.11.2003, n. 314 il Governo aveva previsto che tutti i rifiuti e i materiali nucleari esistenti al momento in Italia venivano sistemati in un deposito nazionale da realizzarsi nel Comune di Scanzano Jonico (MT) in agro di Terzo Cavone.
Tale deposito veniva qualificato come opera di difesa militare.
Il compito di realizzare tale deposito entro il 31.12.2008 era demandato alla Sogin (Società di Gestione Impianti Nucleari Spa) società appartenente al gruppo ENEL istituita appositamente per la gestione degli impianti nucleari in Italia.
Con tale decreto, inoltre, si era proceduto alla nomina di un Commissario Straordinario, con poteri eccezionali rispetto alla normativa vigente e con il compito preliminare di validare il sito prescelto sotto il profilo geologico, idrologico e geomeccanico.
Il decreto era il frutto della ”politica dell’emergenza”, dove la partecipazione democratica e il principio di sussidiarietà avevano subito lo sfregio maggiore.
In realtà era la prima volta che nella storia della Repubblica un atto amministrativo del governo ( lo stato di emergenza per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi che interessa cinque regioni ) si trasformava in una scelta politico-militare per l’intero Paese, con conseguenze importanti sul piano del rispetto delle leggi e normative internazionali.
Il resto è storia, si storia di un popolo che affrancatosi da anni dalla schiavitù del latifondismo, dalla soggezione economica delle regioni più ricche, dopo decenni di insediamenti produttivi sbagliati, di delusioni di progresso e di occupazione mancanti, impedisce questa volta che si riponga sul futuro di una piccola regione in crescita il sigillo tombale di un sito nazionale di scorie nucleari.
Sito prescelto, con la sciaguratezza di chi vuole solo affrancarsi di uno scomodo fardello, seppellendolo in quella che fu la Magna Grecia, e che oggi rappresenta la zona più ricca e a più alta densità abitativa della Basilicata.
La piana del metapontino si è negli ultimi anni particolarmente distinta per le produzioni agricole di alta qualità, per lo sviluppo turistico  di una costa ancora incontaminata ricca di bellezze paesaggistico-ambientali.
Un sito nucleare, in una Regione che già paga con tante vite la presenza a soli 15km  da Scanzano di uno dei più grandi centri di stoccaggio di materiale nucleare il Centro Enea della Trisaia di Rotondella (MT), dove ancora oggi giacciono da trent’anni scorie altamente radioattive.
Tutto questo è stato evitato perché un’intera regione ha messo in atto la più grande protesta pacifica degli ultimi anni, una protesta a cui l’Italia intera ha guardato con rispetto, per la compostezza e i toni fermi ma pacifici.
Una protesta civile che è durata fino al 24 Dicembre 2003, quando con la legge 368/2003 è stato convertito in legge il d.l. 314/03, dal quale è stato cancellato definitivamente il nome di Scanzano Jonico (MT) come sito prescelto per l’ubicazione del deposito nazionale.
La stessa legge di conversione ha previsto l’istituzione di una commissione di valutazione ed alta vigilanza tecnico scientifica composta da diciannove membri, con il compito di individuare entro un anno dalla data di conversione in Legge un sito nazionale idoneo.
Ad oggi ancora non si conosce alcuna scelta della Commissione, nonostante il termine è scaduta da diversi mesi.
Occorre forse pensare che la tanto paventata emergenza terroristica che aveva spinto alla scelta immediata di Scanzano Jonico è cessata?
Ciò che di sicuro rimane, dopo la vicenda di Scanzano, è la preoccupazione di trovare un sistemazione sicura e cosciente al materiale radioattivo disseminato da nord a sud del nostro Paese e conservato in condizioni davvero preoccupanti.
Secondo i dati forniti alla Commissione Ambiente della Camera, in Italia ci sono circa 60.000 metri cubi di rifiuti radioattivi di seconda e terza categoria, ai quali vanno aggiunte 298,5 tonnellate di combustibile irraggiato.
Le centrali nucleari, chiuse dopo il Referendum del 1987, hanno prodotto 55 mila metri cubi di scorie.
Ma la verità è che più che chiuse le centrali sono in uno stadio di “custodia protetta”, dunque continuano a produrre ogni anno una certa quantità di rifiuti radioattivi.
A questi dati, vanno aggiunti, altri 2 mila metri cubi di rifiuti radioattivi di origine medica e sanitaria o creati durante le attività di ricerca.
In dettaglio ecco le tutte le "installazioni nucleari italiane": stato attuale, rifiuti radioattivi e combustibile irraggiato in stoccaggio (rapporto del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato – 14 dicembre 1999):
(vedi tabella allegata)
 


Tra tutti questi siti, oltre alla Nucleo Casaccia alle porte di Roma, quello che ospita la maggior quantità di rifiuti radioattivi è l’impianto ITREC del Centro ENEA della Trisaia di Rotondella (MT), nel quale sono tuttora presenti 2,3 metri cubi di rifiuti liquidi mai solidificati, nonostante le ripetute richieste delle autorità competenti e una clamorosa vicenda giudiziaria.
I rifiuti, oltretutto, sono contenuti in strutture metalliche d’acciaio e carbonio che oramai non sono più in grado di garantire la tenuta.
Il centro “Trisaia” ospita anche 64 elementi di combustibile irraggiato, attualmente sospesi in una piscina di stoccaggio, circa 3 metri cubi di prodotto fissile e fertile (uranio e torio), 14 container di rifiuti biomedicali, 4 fosse in cui sono state accumulati rifiuti solidi radioattivi ad alta attività contenenti cobalto 60 cesio ed altre radionuclidi.
I rifiuti sono stati cementati e ricoperti con uno strato di bitume, dagli anni sessanta, il centro ITREC della Trisaia di Rotondella (MT)  rappresenta l’unico cimitero nucleare d’Italia…La Basilicata ha gia dato abbastanza.
Veniamo ora ad alcune osservazioni sulla scelta del legislatore del 62’ e del 75’ operate con la legge 1860/62 e il relativo d.p.r. in parziale modifica n. 519/75.
Una prima osservazione riguarda il breve termine di prescrizione fissato per le azioni di risarcimento dei danni alle cose e alle persone causati da un incidente nucleare: tre anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e dell’identità dell’esercente responsabile o sarebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza ( art. 32 d.p.r. 519/75).
Analoghe considerazioni valgono con riferimento al termine prescrizionale per la proponibilità dell’azione di risarcimento: dieci anni all’incidente nucleare, venti anni nel caso in cui l’incidente derivi da materiale nucleare rubato, perduto o abbandonato e che non sia stato recuperato.
Termini che non appaiono giustificati, non è affatto detto che tutti gli effetti di un incidente nucleare abbiano a manifestarsi entro dieci anni, una limitazione di questo tipo risulta allo stato dell’evoluzione scientifica e sulla scorta dell’incidente di Chernobly, ampiamente arbitraria.
Del resto, che taluni effetti, di un incidente nucleare siano rilevabili in tempi più lunghi era quanto ammetteva esplicitamente l’art. 24 della L. 1860/62, che proprio in ragione di ciò delegava il Governo ad emanare le “norme per l’istituzione di un Fondo per assicurare un equo indennizzo alle persone danneggiate da incidenti nucleari, per le quali il danno si manifesti dopo di dieci anni dall’incidente nucleare”.
Né, tuttavia, una revisione in tal senso della norma si pone in conflitto con le Convenzioni Internazionali in materia, le quali non fanno alcun obbligo agli Stati firmatari di stabilire un termine di prescrizione per le azioni di risarcimento,  anzi ammettono espressamente che la legge nazionale possa stabilire un termine superiore ai dieci anni ponendo come unica condizione che siano adottate  misure opportune per coprire le responsabilità dell’operatore con riguardo alle cause di risarcimento iniziate dopo la scadenza del termine decennale (art. 8 lett c Convenzione di Parigi del 1960)[12].
Una seconda riserva riguarda la limitazione del diritto di rivalsa dell’esercente l’impianto nucleare; ai sensi dell’art. 18, 4°comma d.p.r. 519/75 l’esercente ha diritto di rivalsa soltanto contro a) la persona fisica che ha causato dolosamente il danno; b) se e nella misura in cui la rivalsa è prevista per contratto.
Quest’ultima ipotesi è, senza dubbio, quella che suscita le più forti perplessità e i maggiori problemi nella prassi.
La ratio  di tale previsione risiede nella necessità di trovare una compensazione alla regola di responsabilità oggettiva prevista nella legge 1860/62, nel caso in cui l’incidente non fosse attribuibile a comportamenti omissivi o commissivi dell’esercente stesso.
Si è ritenuto non dover dilatare il rischio d’impresa oltre la misura del ragionevole, con il rischio di giungere a conclusioni aberranti sul piano giuridico.
Si è fatta strada l’idea di non dover addossare all’esercente il danno causato da vizi, imperfezioni o difetti dei materiali per la costruzione e il funzionamento dell’impianto, inserendo nel testo della Convenzione questa specifica ipotesi di diritto di rivalsa.
Ora pur comprendendo tali necessità, la scelta operata pare poco idonea a raggiungere gli scopi voluti.
Lasciare libere le parti di negoziare e stabilire contrattualmente, non solo la semplice misura ma addirittura l’esistenza stessa del diritto di rivalsa, significa non considerare che la struttura oligopolistica del mercato delle forniture dei materiali nucleari, potrebbe costringere l’esercente ad accettare una clausola imposta dai fornitori che escluda, o limiti fortemente, il diritto di rivalsa.
Si rischia in sostanza di creare cosi un regime di “immunità” di fatto per i fornitori di materiale nucleare.
Una terza osservazione riguarda l’esclusione della responsabilità dell’esercente per i danni causati da incidenti nucleari dovuti “direttamente ad atti di conflitto armato, di ostilità, di guerra civile, di insurrezione o cataclismi naturali di carattere eccezionale ” (art. 15,ult comma d.p.r. 519/75).
Tale limitazione ha un senso logico e giuridico se si considera l’estrema difficoltà di calcolare con un minimo di fondamento le probabilità che uno di tali eventi accada.
E’ quindi legittimo che una società d’assicurazione non accetti di coprire danni derivanti da atti di guerra, terrorismo o cataclismi.
Ma questione diversa e se uno Stato possa comportarsi alla stregua di un assicuratore privato, di fronte al rischio di un grave danno inferto alla salute dei cittadini da un’attività che esso stesso ha autorizzato e localizzato.
Ad escluderlo, laddove non bastasse il buon senso, sovviene il principio costituzionale di tutela della salute pubblica di cui all’art. 32 Cost.
Principio che ricordiamo, afferma il dovere della Repubblica di tutelare la salute dei cittadini senza clausole restrittive e senza condizioni limitative di sorta.
Laddove, quindi, le misure preventive adottate per la sicurezza esterna degli impianti saranno valutate insufficienti o inefficaci, lo Stato sarà venuto meno ad un suo compito fondamentale e non vedo ragione per cui non se ne debba assumere tutte le responsabilità, quelle civili comprese.
Un’ultima valutazione attiene alla previsione di limiti massimi di risarcimento per i danni arrecati da un incidente nucleare.
Il limite fissato dal d.p.r. 519/75 all’art. 19 è di 75.000 milioni di vecchie lire, dei quali i primi 7500 costituiscono la garanzia finanziaria prestata dall’esercente, i restanti sono a carico dello Stato nel cui territorio è ubicato l’impianto (fino alla concorrenza di 43.750 milioni) e degli altri Stati firmatari delle Convenzioni sulla responsabilità civile nel campo dell’energia nucleare (fino alla concorrenza dell’importo massimo).
Essendo limiti previsti dalla Convenzione di Bruxelles del 1963, un intervento del nostro Stato potrebbe tuttalpiù spingere ad una riflessione sul loro ammodernamento.
Nonostante risulta condivisibile la scelta di prevedere un limite massimo ai danni risarcibili, tuttavia, appare opportuno elevare il limite massimo fissato, sulla base di valutazioni più realistiche dei danni che un incidente nucleare può provocare, tenendo conto che i processi inflazionistici degli ultimi anni hanno notevolmente ridotto il valore reale di quelle cifre.
 
L’auspicio è che nella fase attuale in cui il nostro Paese  inizia a meditare un ritorno al nucleare, la “questione nucleare” ritorni ad entrare nel circuito delle discussioni giuridiche, economiche e politiche, affinché si attivi un serio processo di conoscenza e di valutazione critica della normativa vigente,  la quale risulta, oramai, insufficiente e obsoleta.
  • Qui la tabella


[1] DELL’ANNO P, Responsabilità per danni nucleari, in Enc. dir., XXXIX, 1459-1471.
[2] GIOIA A, Sviluppi recenti in tema di risarcimento dei danni derivanti da incidenti nucleari, in RDIn, 605 ss.
[3] Pubblicato in G.U. n.294 del 6.11.1975
[4] DI MARTINO V, La responsabilità civile nelle attività pericolose e nucleari, Giuffrè, Milano, 1979.
[5] DELL’ANNO P, Responsabilità per danni nucleari, in Enc.dir. XXXIX, 1467.
[6] ARANGIO RUIZ G, LONGO P, SPAGNOLETTI ZEULI M.T., in Noviss.Dig.it. App., III, 352-380
[7] DELL’ANNO P, Responsabilità per danni nucleari, in Enc.dir. XXXIX, 1467.
[8]GERI V.,Le attività pericolose e la responsabilità (Cod.civ.art.2050) in DPA, 287-323.
[9]DI MARTINO V, La responsabilità civile nelle attività pericolose e nucleari, Giuffrè, Milano, 1979. 
[10] RECANO P., La responsabilità civile da attività pericolosa, Padova, CEDAM, 2001,412 p.
 
[11] VIROLE J., Il “decommisioning” degli impianti nucleari e la Convenzione di Parigi sulla responsabilità civile nel campo dell’energia nucleare. Problemi di responsabilità e assicurazione, in RGEE, 921
[12] SPAZIANTE V., Questione nucleare e Politica Legislativa, Officina Edizioni, Roma, 1980

Arena Daniele

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