Il significato di “atti di concorrenza” di cui all’art. 513 bis c.p.

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Cassazione Penale Sezioni Unite n. 13178 del 28 aprile 2020

Premessa

Lo scorso 28 aprile è stata depositata la motivazione della sentenza n. 13178 (udienza celebrata il 28 novembre 2019) nella quale le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto: “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente».

Con tale decisione, la Suprema Corte ha preso posizione sul concetto di “atti di concorrenza”, riportato nella fattispecie di illecita concorrenza con minaccia o violenza prevista all’art. 513 bis c.p., in merito al quale si era creare un contrasto interpretativo che, per lungo, tempo, aveva diviso la giurisprudenza di legittimità.

Il caso sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite

La pronuncia trae origine dai ricorsi proposti dagli imputati, i quali erano stati condannati dalla Corte di appello di Napoli, il 4 aprile 2018[1], alla pena di anni due e mesi dieci di reclusione per essersi resi responsabili dei reati di cui all’art. 513 bis c.p. (capo 1) e di cui agli artt. 582, 585 comma 1 e 576 comma 1 c.p. (capo 2).

In particolare, agli stessi era stato contestato di aver compiuto, in concorso fra loro, atti di illecita concorrenza con minaccia e violenza, consistiti, rispettivamente, nel pronunciare la frase «sei venuto a lavorare nella nostra zona, allontanati subito da qui e non far più ritorno a Pomigliano D’Arco per lavori di spurgo», e nel cagionare, alla persona offesa, lesioni giudicate guaribili in tre giorni. La persona offesa rivestiva, infatti, la qualità dipendente di una ditta individuale che effettuava lavori di spurgo nel medesimo ambito territoriale ove gli imputati rivendicavano l’esclusiva.

I ricorrenti deducevano violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione alla configurabilità del reato di cui all’art. 513 bis c.p., affermando che, la Corte territoriale, diversamente da quanto sostenuto da un recente orientamento della giurisprudenza[2], avrebbe applicato erroneamente la fattispecie in esame, in quanto il suo ambito di operatività ricomprenderebbe solo condotte tipicamente concorrenziali, poste in essere attraverso atti di coartazione in grado di normale dinamica imprenditoriale, con esclusione, pertanto, di tutti quegli atti intimidatori (di violenza e minaccia) in relazione ai quali la limitazione della concorrenza configura solo la mira teleologica dell’agente.

Analisi storica dell’art. 513 bis c.p.

Al fine di comprendere il principio di diritto a cui sono giunte le Sezioni Unite, occorre, prima di soffermare l’analisi sui diversi orientamenti creatisi sul punto, comprendere quali siano state le ragioni storiche che hanno portato il legislatore ad introdurre l’art. 513 bis c.p.

Tale disposizione è stata introdotta dalla Legge “Rognoni-La Torre”, n. 646 del 13 dicembre 1982, attraverso la quale il legislatore si era posto l’espresso obiettivo di reprimere quelle condotte intimidatorie di cui le organizzazioni criminali di stampo mafioso si servivano per mantenere il controllo di larghe porzioni dell’economia legale.

Tale aspetto è stato, però, sin da subito, oggetto di perplessità da parte della dottrina: l’art. 513 bis c.p., costruito intorno al concetto di “atti di concorrenza”, non contiene, infatti, alcun riferimento alla criminalità organizzata di stampo mafioso, rivelando, così, una palese divergenza tra la ratio della previsione normativa e l’ambito di incidenza della sua tipicità.

Inoltre, l’accostamento tra il concetto di “concorrenza” e quelli di violenza o minaccia appare intrinsecamente contraddittorio, essendo evidente come l’uso di simili condotte induca a collocare l’atto al di fuori del contesto concorrenziale in senso tecnico.

Infine, sotto altro ma connesso profilo, la scelta di collocare la disposizione tra i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio (nel Capo II, del Titolo VIII) ha, di fatto, allontanato l’area della oggettività giuridica della nuova figura di reato dal complesso delle fattispecie incriminatrici poste a tutela dell’ordine pubblico.

Appare, pertanto, evidente come l’origine del contrasto giurisprudenziale vada ricercata, proprio, nelle predette ambiguità che permeano la formulazione del testo dell’art. 513-bis cod., la cui struttura sembra essere stata congegnata dal legislatore in maniera del tutto indipendente dal peculiare contesto in cui ha visto la luce, delineandone un ambito di applicazione generale.

La giurisprudenza ha, infatti, gradualmente ampliato la portata applicativa della norma, inizialmente limitandone l’incidenza ai fini del contrasto di forme d’intimidazione mafiosa tese a scoraggiare la regolare dinamica dell’agire imprenditoriale[3], per poi escludere la necessaria realizzazione della condotta nel contesto delittuoso specifico della criminalità organizzata, sul rilievo che il riferimento ai comportamenti posti in essere in tali contesti è volto unicamente a caratterizzare le condotte punibili attraverso il ricorso ad un “significativo parallelismo”, ma non intende circoscrivere l’ambito di applicazione della norma[4].

Il contesto giurisprudenziale di riferimento. Breve disamina degli orientamenti giurisprudenziali contrapposti

La questione del corretto significato del concetto di “atti di concorrenza” è stata, quindi, rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza n. 26870 del 19 aprile 2019 della Terza Sezione penale, nella quale gli Ermellini hanno evidenziato il contrasto giurisprudenziale che si protraeva, sul punto, da più di un decennio, con significative ripercussioni sul piano della certezza del diritto; in particolare:

–          secondo un primo indirizzo[5], che adotta una concezione restrittiva di “atti di concorrenza”, l’art. 513 bis c.p. è applicabile unicamente alle condotte illecite concorrenziali e competitive “tipiche” (quali, a titolo meramente esemplificativo: il boicottaggio, lo storno di dipendenti, il rifiuto di contrattare) poste in essere mediante violenza o minaccia nei confronti di altri soggetti economici, tendenzialmente operanti nello stesso settore; più precisamente, rileverebbero solo quei comportamenti competitivi illeciti per il diritto civile. Questo orientamento, che trova origine e valorizza il dato letterale della norma, invocando il necessario rispetto del principio di tassatività, non ritiene applicabile il reato de qua alle ipotesi in cui, in assenza di atti di concorrenza sleale tipici sotto il profilo civilistico, la violenza o la minaccia siano teleologicamente finalizzate a limitare l’altrui libera concorrenza (ipotesi in cui potrebbero eventualmente riscontrarsi altre fattispecie di reato, quale, ad esempio, l’estorsione ai sensi dell’art. 629 c.p.).  L’art. 513 bis c.p., inteso, quindi, secondo questo primo indirizzo, come reato a dolo generico, è volto a sanzionare solo la commissione di atti di concorrenza che si pongono “oltre i limiti legali” arrivando, così, a turbare ed alterare la dinamica imprenditoriale che dovrebbe svolgersi all’interno di un libero mercato.

 

–          L’orientamento di segno contrario[6] adotta, invece, una concezione estensiva di “atti di concorrenza”, ritenendo compreso in tale concetto sia tutti quegli atti, violenti o minacciosi, in concreto strumentali a impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, sia quegli atti intimidatori animati dallo scopo di inibire l’altrui concorrenza (in questo modo l’art. 513 bis c.p. viene considerato quale reato a dolo specifico). Questo indirizzo, facendo rientrare nell’elemento oggettivo della fattispecie in esame tutti gli atti concretamente impeditivi della concorrenza, benché “atipici”, garantisce tutela più ampia possibile, sia del buon funzionamento del sistema economico generale, sia della libertà dei singoli di autodeterminarsi nell’esercizio della propria libera attività imprenditoriale, ossia dei beni giuridici protetti dalla norma. Diversamente dal primo orientamento, siffatta opzione ermeneutica trova fondamento nella voluntas legis e nella norma extra-penale di cui all’art. 2598 c.c., la quale dopo aver previsto casi tipici di concorrenza sleale attiva (n. 1 e n. 2 della norma), contiene una norma di chiusura “aperta” (n. 3), la quale ricomprende proprio quegli atti c.d. atipici, “contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda”.

Le Sezioni Unite, nella pronuncia in esame, hanno, innanzitutto, rifiutato i primi due opposti orientamenti interpretativi, e hanno rilevato l’esistenza di un terzo orientamento, il quale ha provato a superare gli orientamenti tradizionali.

In particolare, i giudici della Suprema Corte hanno affermato che entrambi i summenzionati indirizzi non appaiono condivisibili: il primo in quanto, nel tentativo di circoscrivere la portata della norma, finisce per frustrarne eccessivamente le potenzialità applicative; il secondo perché, al contrario, valorizzando la prospettiva finalistica dell’azione e, dunque, l’elemento psicologico del reato, si allontana dal dettato legislativo e crea frizioni con il principio di tassatività.

  • Il terzo indirizzo interpretativo, messo in luce dalle Sezioni Unite, ha cercato di valorizzare una concezione non restrittiva di “atti di concorrenza”, maggiormente coerente, tanto con la ratiodella norma incriminatrice, quanto con la normativa europea e internazionale in tema di tutela della concorrenza, tenuto conto che il contesto di oggi è sicuramente più complesso rispetto a quello conosciuto dal legislatore del 1982.

Le pronunce che aderiscono a siffatto orientamento[7] muovono dalla premessa che la condotta materiale del delitto previsto dall’art. 513 bis c.p. possa essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale, sia tipici che atipici, previsti dall’art. 2598 c.c., in ragione del fatto che tali condotte sono lesive del principio della libera ed effettiva concorrenza tra imprese, nella prospettiva più ampia risultante dall’analisi dell’intero quadro normativo comunitario (artt. 101, 102, 120 del TFUE e art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE);

Coerente con il diritto europeo è anche la normativa internazionale (applicabile in via residuale, rilevato che la materia in esame risulta di competenza esclusiva dell’Unione) e, in particolare, la Legge n. 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, e la Legge n. 180/2011, c.d. Statuto delle imprese. Sul punto, giova ricordare che i principi sanciti dalla normativa europea e da quella internazionale si impongono, in virtù degli artt. 11 e 117 Cost., quali criteri di interpretazione dell’art. 2598 c.c..

Del resto, a seguito del cospicuo intervento del diritto dell’Unione Europea, il principio di libera concorrenza si è progressivamente imposto come libertà costituzionalmente tutelata, espressione del più generale principio di libertà nell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost., quindi, suscettibile di essere garantita non solo nei confronti dello Stato, ma erga omnes.

In quest’ottica, la repressione degli atti di concorrenza sleale si pone a garanzia di tale precetto costituzionale, offrendo tutela nei confronti di quei comportamenti che siano lesivi, non solo del funzionamento dell’economia generalmente intesa, ma anche dell’altrui libertà di iniziativa economica e dell’altrui diritto a inserirsi nel mercato in condizioni di libera concorrenza.

Quest’ultimo orientamento giurisprudenziale, che possiamo considerare di mediazione rispetto ai richiamati indirizzi tradizionali, tende, quindi, a ricomprendere tutte quelle condotte contrassegnate dai requisiti della contrarietà ai canoni della correttezza professionale e della idoneità a danneggiare l’altrui azienda, richiamate nella formula “aperta” di cui all’art. 2598 n. 3 c.c. (dal boicottaggio economico, al c.d. dumping, allo storno dei dipendenti, alla concorrenza parassitaria, alla pubblicità menzognera, ecc.), senza, però, tralasciare l’importanza delle ragioni che storicamente hanno determinato la nascita dell’art. 513 bis c.p.

La decisione delle Sezioni Unite e i principi di diritto in essa affermati

In assenza di una definizione, anche penalistica, di concorrenza, al fine di addivenire ad una corretta interpretazione dell’espressione “atti di concorrenza” è doveroso tenere in considerazione, sia il mutato contesto normativo interno, sia quello europeo e internazionale.

In particolare, le Sezioni Unite hanno, così, delineato gli elementi di tipicità dell’art. 513 bis c.p.:

  • l’elemento oggettivo della fattispecie de qua si incentra sulla qualità concorrenziale degli atti oggetto di incriminazione e non sulla loro direzione teleologica. Sul punto, occorre sottolineare che la locuzione al plurale di “atti di concorrenza” non è casuale, ma postula che l’accertamento di un’attività concorrenziale sleale si fondi su un’analisi complessiva dei fatti e non sul singolo atto che, isolatamente considerato, può essere anche lecito.
  • Il soggetto attivo del reato deve rivestire la qualità di imprenditore (si tratta, infatti, di reato proprio, nonostante l’espressione “chiunque” possa trarre in inganno) e deve sussistere un rapporto di competizione economica tra costui e il soggetto passivo: entrambi devono, cioè, operare all’interno del mercato in maniera competitiva, offrendo beni o servizi destinati a soddisfare lo stesso o affini bisogni, tenendo altresì conto che, il rapporto di concorrenza può instaurarsi anche tra operatori che agiscono a livelli economici diversi. Le Sezioni Unite precisano, inoltre, che la qualifica dei soggetti, attivo e passivo, non deve essere intesa in senso formalistico, ma in senso sostanzialistico: non occorre accertare la sussistenza dei requisiti civilistici idonei ad attribuire la qualifica di imprenditore, ma il concreto svolgimento di un’attività commerciale, industriale o produttiva[8].
  • I beni giuridici tutelati dalla norma, trattandosi di delitto pluri-offensivo, sono sia il corretto funzionamento del sistema economico (la norma, si ricorda, è inserita nel titolo relativo ai delitti contro l’economia pubblica), sia la libertà di autodeterminazione individuale nell’esercizio di un’attività economica (le condotte di violenza o di minaccia sono, infatti, in grado di condizionare la volontà del soggetto passivo e pertanto di limitarne la libertà).

Valorizzando proprio quest’ultimo aspetto, gli Ermellini, inoltre, precisano, in un obiter dictum della pronuncia[9], che il peculiare contenuto del bene giuridico tutelato dall’art. 513 bis c.p. impedisce di ritenere tala condotta assorbita nel più grave delitto di estorsione in base al principio di specialità, previsto ex art. 15 c.p.; in presenza dei relativi elementi costitutivi, dunque, il delitto di cui all’art. 513 bis c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. potranno concorrere. Il reato di estorsione, infatti, incide sul patrimonio del soggetto passivo attraverso la previsione di un ingiusto profitto con altrui danno, senza tradursi in una violenta manipolazione dei meccanismi di funzionamento dell’attività economica concorrente.

Le Sezioni Unite addivengono, così, alla conclusione che il disvalore della fattispecie di cui all’art. 513 bis c.p. si concentra proprio sulle note modali rappresentate dall’utilizzo di forme violente o minatorie nei comportamenti competitivi (posti in essere sia in forma attiva che impeditiva) i quali, altrimenti, si inserirebbero legittimamente nell’esercizio dell’attività concorrenziale che, come detto, configura una libertà riconosciuta e tutelata dall’ordinamento.

E’ evidente, quindi, che l’interpretazione della Suprema Corte si distacca dal summenzionato indirizzo teleologico, poiché l’idoneità della condotta violenta o minacciosa ad arrecare un pregiudizio all’impresa concorrente e a pregiudicarne la libera autodeterminazione economica non attiene al fine perseguito dell’agente, ma all’elemento materiale della condotta delittuosa. L’idoneità a recare un pregiudizio all’impresa concorrente connota, quindi, la fattispecie in esame nella sua oggettività, poiché costituisce un elemento costitutivo della condotta, a sua volta accompagnata dalla coscienza e volontà di compiere un atto di concorrenza inficiato dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, ossia di determinare una situazione di concorrenzialità illecita che rischia, obiettivamente, di alterare o compromettere l’ordine giuridico del mercato.

Entro tale prospettiva va, dunque, letto il principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite, in base al quale «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente».

 

In conclusione, la soluzione interpretativa proposta dalle Sezioni Unite, pur distaccandosi dall’indirizzo teleologico prospettato dal secondo degli orientamenti analizzati, condivide con questo una concezione estensiva della nozione di “atti di concorrenza”: il summenzionato principio di diritto porta, infatti, ad includere nel campo della norma anche condotte violente o minacciose che non accedano ad atti di esercizio dell’attività economico-produttiva.

 

Tuttavia, l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite dell’art. 513 bis c.p., pur apparendo coerente con la ratio legis e maggiormente pregnante sotto il profilo criminologico, lascia aperti profili problematici con riferimento al principio di legalità e, in particolare, al principio di tassatività: questo, in particolare, laddove l’atto violento o minaccioso finalizzato a inibire la concorrenza viene equiparato all’atto di concorrenza commesso con violenza o minaccia, unico espressamente punito dalla norma.

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Note

[1] La Corte di appello di Napoli ha, infatti, confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Nola il 14 gennaio 2016.

[2] Si tratta dell’indirizzo giurisprudenziale che di seguito verrà analizzato come “primo orientamento”.

[3] Cfr. Cass. Sez. 6, n. 3492 del 09/01/1989.

[4] Cfr. Cass. Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995.

[5] Sostenuto anche dalla sezione remittente e, ex multis, da Cass. Sez. 3 n. 46756 del 3 novembre 2005.

[6] Ex plursi, Cass. sez. 2 n. 9513 del 18 gennaio 2018.

[7] Cass. sez. 3 n.3868 del 10 dicembre 2015, sez. 2 n. 18122 del 13 aprile 2016.

[8] Sul punto, Cfr. Cass. sez. 6 n. 6055 del 24 giugno 2014.

[9] Cfr. pag. 27 della sentenza in esame.

Susanna Maderna

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