Il divieto del curatore-avvocato di difendersi da sé e il procedimento di mediazione (Nota a Tribunale Varese, decreto 19 gennaio 2020)

Redazione 25/03/20
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di Massimiliano Bina*

* Avvocato

Sommario

1. Il principio affermato dal decreto in commento. La mediazione facoltativa

2. La possibilità di estendere il principio oltre i limiti del decreto

3. L’avvocato-curatore e la mediazione obbligatoria

1. Il principio affermato dal decreto in commento. La mediazione facoltativa

Tribunale Varese, decreto 19 gennaio 2020

Con decreto del 19.1.2020, il Giudice Delegato del Tribunale di Varese ha autorizzato il curatore/avvocato a rappresentare l’amministrazione fallimentare in un procedimento di mediazione volontaria, ritenendo che il divieto per il curatore di assumere il ruolo di difensore di cui all’art. 31 l.fall. trovi applicazione ai soli giudizi civili e che il fine di limitare i costi a carico della procedura, dichiarato nella fattispecie dal curatore, rispetti la ratio della norma, che è proprio quella di impedire che il curatore possa prospettare la necessità di agire o resistere in giudizio al solo fine di conseguire i compensi spettanti per l’attività professionale da espletare.

Non risultano precedenti editi sul punto e il principio affermato è certamente condivisibile per una ragione, se si vuole, ancor più radicale rispetto a quelle richiamate nel provvedimento in commento e che costituiscono l’ortodossia dell’interpretazione dell’art. 31 l.f.: il curatore può rappresentare l’amministrazione fallimentare in un procedimento di mediazione volontaria, perché in tale procedimento il ministero del difensore non è necessario e la parte, di conseguenza, ben può difendersi da sola[1].

Dall’impianto normativo del d.lgs. 28/2010, infatti, appare che l’assistenza dell’avvocato è prescritta per le sole mediazioni obbligatorie, atteso che l’art. 5, comma 1-bis, dispone che colui che intende promuovere un giudizio “è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione“, e che l’art. 8, comma 1, dispone che “al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato“. Ciò perché, come abitualmente si dice, la previsione dell’assistenza legale obbligatoria è necessaria per consentire alla parte di compiere scelte e valutazioni adeguate e consapevoli in un procedimento destinato ad avere conseguenze rilevanti sul piano dell’effettività della tutela dei diritti dei soggetti coinvolti[2]. Dall’art. 12 – nella parte in cui stabilisce che “ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna (…)”, mentre “in tutti gli altri casi l’accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale (…)” – emerge che nella mediazione facoltativa, che per natura è facilitativa e non aggiudicativa, l’assistenza del professionista non è più necessaria.

L’argomentazione sembrerebbe reggere anche nell’ipotesi in cui i regolamenti degli Organismi di mediazione prevedessero l’assistenza obbligatoria di un difensore tecnico pure nella mediazione facoltativa: è la natura peculiare di questo procedimento di composizione stragiudiziale delle controversie a costituire la garanzia che le scelte e le valutazioni delle parti non possano incidere sui diritti delle stesse e sull’effettività della loro tutela; si capisce, quindi, perché, in questo caso, non sia necessaria l’assistenza tecnica.

1 Abete,sub art. 31, in Jorio (dir. da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna 2006, p.564; Cantillo, Il curatore difensore del fallimento nei giudizi innanzi alle commissioni tributarie, in Rass. Trib., 1998, 247 ss., affermano che tale divieto non ha carattere generale in quanto non opera nei giudizi in cui la parte è abilitata a stare in giudizio personalmente senza l’assistenza del difensore (ad esempio nelle controversie innanzi al giudice di pace per le cause il cui valore non ecceda il milione) o quando non sia necessaria l’autorizzazione del giudice delegato.

2 Trib. Vasto 9 aprile 2018, in www.judicium.it, ha affermato che la disciplina italiana che impone l’assistenza legale nella mediazione obbligatoria rispetta il requisito di non eccessiva onerosità dal punto di vista economico, richiesto dalla Corte di Giustizia (da ultimo nella sentenza n. 475 del 14.06.2017) affinché il tentativo obbligatorio di conciliazione risulti compatibile con il principio comunitario della tutela giurisdizionale effettiva

2. La possibilità di estendere il principio oltre i limiti del decreto

La motivazione del decreto in commento induce a ritenere, in prima approssimazione, che il principio affermato sia applicabile anche all’ipotesi della mediazione obbligatoria, ma gli argomenti svolti, per quanto si inseriscano nel solco della tradizionale interpretazione dell’art. 31 l.f., non superano un attento vaglio critico.

In primo luogo, non ritengo che la ratio della norma sia quella di impedire che il Curatore possa prospettare la necessità di agire o resistere in giudizio al solo fine di conseguire i compensi spettanti per l’attività professionale[3]. Se così fosse, il divieto non sussisterebbe qualora il curatore rinunciasse al proprio compenso – facoltà oggi consentita dall’art. 13, 1° comma della l. n. 247/2012 (“legge professionale”)[4], – ma non pare che, per ciò solo, sia permesso derogare al divieto dell’art. 31 l.f. Si consideri, poi, che il pericolo paventato dalla supposta ratio della norma possa essere superato dal controllo del giudice delegato in sede di autorizzazione all’azione, dovuta ai sensi dell’art. 31, 2° comma, l.f., le cui disposizioni conducono, altresì, ad escludere che la norma possa essere stata dettata da ragioni di ordine pubblico, volte ad evitare che l’amministrazione fallimentare venga coinvolta in giudizi infondati[5].

Invero, la ratio del divieto non risulta così pacifica, essendo stata prospettata, a volte, l’opportunità di scongiurare disarmonie di interessi e di pareggiare le condizioni di curatori che, come è noto, vengono scelti tra appartenenti a diverse categorie professionali[6]; altre volte, si è detto che tale divieto sia strettamente connesso alla figura ed ai poteri attribuiti al curatore[7], al fine di assicurare che costui possa correttamente amministrare il patrimonio dell’impresa fallita[8]; altre volte ancora, si è ricondotto il divieto alla “convinzione” del legislatore che l’unione della funzione di curatore con quella di difensore sia inopportuna[9].

In secondo luogo, non sono convinto che l’art. 31, 3° comma, l.f. sia una norma speciale rispetto a quella generale dell’art. 86 c.p.c.; ritengo, piuttosto, che il divieto per l’avvocato-curatore di patrocinare l’amministrazione fallimentare costituisca la riaffermazione di un principio fondamentale, che impone di tenere distinti il ruolo del difensore da quello della parte.

La vulgata, infatti, attribuisce all’art. 31, 3° comma, l.f. carattere eccezionale[10], affermando che l’art. 86 c.p.c., che consente all’avvocato di stare in giudizio senza il ministero di difensore[11] – sia quando agisca in proprio sia quando abbia la rappresentanza di altri soggetti, anche collettivi, sia quando amministri un patrimonio[12] – rappresenti la regola generale, che trova la propria ragione nel fatto che, quando la parte possiede le cognizioni tecniche per difendere altri in giudizio, non appare necessario obbligarla ad avvalersi del patrocinio di un altro soggetto abilitato.

L’argomento, tuttavia, non convince. L’esigenza che sottende il divieto di autodifesa non si risolve solamente nel garantire alla parte un’assistenza tecnico-giuridica, poiché: da un lato, il ministero del difensore, esercitato da un soggetto privato, costituisce un’esigenza originaria del giudizio, che è legata alla struttura dialettica del processo ed all’attuazione del precetto costituzionale dell’art. 24 Cost.[13]; dall’altro, l’ordinamento pretende dall’avvocato una professionalità che va oltre la conoscenza del diritto e la capacità di utilizzare concretamente tale conoscenza. L’avvocato, e non la parte, ad esempio, è tenuto al rispetto del dovere di verità nel processo, come disciplinato dall’art. 50 codice deontologico forense; o, ancora, l’avvocato “deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti di ogni genere anche riguardanti la propria sfera personale“, come dispone l’art. 24, 2° comma, o, in negativo, l’art. 23, 3° comma, del codice deontologico forense; o, infine, l’avvocato garantisce che la funzione giurisdizionale possa svolgersi con serenità e distacco, costituendo un filtro all’animosità ed alla passionalità dei protagonisti della lite[14]. In tal modo, allorquando l’ordinamento attribuisce all’avvocato, e non ad ogni cittadino, il diritto di essere ascoltato dal giudice, vuole assicurare che il processo si svolga nel rispetto di alcuni standard etici, propri della predetta categoria professionale, e che ritiene imprescindibili in quanto contribuiscono all’efficienza della procedura, all’effettività della tutela giurisdizionale[15] e, soprattutto, a far in modo che la sentenza possa essere più facilmente ratificata dalla collettività, nel cui nome viene emessa.

In questa prospettiva, è l’art. 86 c.p.c. a rappresentare la norma eccezionale, tipica del processo civile, rispetto al divieto generale di autodifesa[16] che pervade l’ordinamento[17], da ricondurre al fatto che non solo la parte-avvocato, in questo caso, è in possesso di tutte le cognizioni tecniche per meglio tutelare i propri diritti, ma anche perché le regole deontologiche che si applicano all’avvocato – non solo al difensore nel processo – sono tali da assicurare gli scopi che il divieto di autodifesa si prefigge.

Per l’avvocato-curatore, le cose stanno diversamente: da qui, la necessità di ribadire la vigenza della regola generale. Il curatore, per natura, è il titolare di un ufficio multiforme che fa dell’indipendenza o, se si vuole, dell’equidistanza tra i vari interessi, la caratteristica imprescindibile della sua amministrazione e che l’ordinamento è chiamato a garantire in ogni suo aspetto. Il curatore non è un rappresentante del fallito o della massa dei creditori e non è chiamato a tutelare gli interessi dell’uno o dell’altro dei soggetti coinvolti nel fallimento: a volte, è il contraddittore dei creditori che chiedono il riconoscimento del diritto al concorso; altre volte, nelle cause derivanti dal fallimento, aziona una situazione giuridica di vantaggio di tutela della massa; altre ancora, subentra nella posizione giuridica del fallito.

Insomma, è la natura stessa dell’ufficio del curatore, come titolare dell’amministrazione del patrimonio dell’impresa fallita, a sconsigliare che l’avvocato-curatore possa difendersi da solo ed a prevederne l’incompatibilità con il ruolo di difensore. In altro modo, si pretenderebbe dall’avvocato una condotta “bi-” o financo “multipolare”, ma l’avvocato è tenuto ad “adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa” (art. 10 codice deontologico forense) e ad “esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza” (art. 9 codice deontologico forense).

In terzo luogo, mi pare che il richiamo alle norme processuali che disciplinano la difesa tecnica non siano dirimenti, a fronte della diversa natura del processo civile (aggiudicativo) e della mediazione obbligatoria (che resta un procedimento facilitativo di soluzione delle controversie).

3 V. Abete,sub art. 31, cit., 563.

4 Sia consentito il rinvio, per la discussione sulla portata della norma, a Bina, Sulla gratuità in senso “debole” del mandato professionale: la convenzione tra associazione sindacale e avvocato per la difesa dei lavoratori (Nota a Cassazione civile, sez. II, 16 ottobre 2019, n. 26212), in www.aulacivile.it.

5 Così, Ferrara, voce Curatore del fallimento, in Enc.dir., XI, Milano 1962, 523, che fa conseguire anche la nullità degli atti processuali per difetto di rappresentanza. Contra, v. Ricci E.F., Lezioni sul fallimento, Milano 1997, p. 261 ss.;Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 1, 719.

6 Cass. 7.10.1954 n.3379 in Foro it. 1955, cc. 1345 ss.

7 Cantillo, Il curatore difensore del fallimento nei giudizi innanzi alle commissioni tributarie, in Rass. Trib, 1998, 247 ss.

8 Così, in motivazione, Cass., 13.09.2004, n. 18419

9 Ricci E.F., op.cit., p. 261;

10 All’eccezionalità della norma consegue l’ammissibilità del ricorso alla sola interpretazione, come ricordato da Cass. 25.02.2010, n. 4560, in Fallimento, 2010, 12, 1463 e Cass., 13.09.2004, n. 18419 che hanno affermato che “l ‘incompatibilità del curatore fallimentare a prestare assistenza tecnica nei giudizi che riguardano il fallimento, stabilita dall’art. 31, terzo comma , l. fall. , deve intendersi riferita, per i giudizi tributari, non solo ai soggetti che rivestano la qualifica d’avvocato (o procuratore), ma anche agli appartenenti alle altre categorie professionali (dottore commercialista, ragioniere, perito commerciale etc.) abilitate, a norma dell’art. 12 , D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 , a prestare assistenza tecnica in quei giudizi“.

11 Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, XXV ed., Torino 2016, vol.I, 397, nota 6.

12 V. Cass. 05.06.1992, n. 6947, per l’amministratore di condominio; Cass. 22.12.1998, n. 12784 per il curatore dell’eredità giacente; SS.UU., 10.5.1984, n. 2846 per il legale rappresentante di un ente pubblico; Cass. 12.8.2002, n.12384; Cass. 25.6.1966 n. 1626; Cass. 16.10.1956 n. 3647, per il legale rappresentante di una società.

13 Così, testualmente, Punzi, Il «ministero» dell’avvocato , in Riv.dir.proc. 2009,p. 598, che ribadisce il ruolo dell’avvocato nel garantire il diritto di difesa e la tutela dei diritti contro le contestazioni di altri privati, ma anche contro l’abuso dei pubblici poteri

14 Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, XXV ed., Torino 2016, vol.I, 395 ss.; Liebman E.T., Manuale di diritto processuale civile. Principi, VIII ed., Milano 2012, 93 s.

15 V. art. 2, comma 2, l. 31.12.2012 n. 247. Punzi, Il «ministero» dell’avvocato , in Riv.dir.proc. 2009,p. 596, ritiene che l’intermediazione dell’avvocato è necessaria per l’attuazione dell’art. 24 Cost.

16 Patelli, La difesa tecnica, in Dittrich L.(dir.), Trattato Omnia, Milano 2019, p. 718.

17 Cfr. Cass. 24.11.2000, n. 15176, in Foro It., 2001, I, 1429 “La facoltà, previst a dall’art. 86 c.p.c. per c hi abbia la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, di stare in giudizio personalmente e senza il ministero di altro difensore non può trovare applicazione al di fuori dell’ambito del processo civile per cui è dettata. Non esiste, invero, alcuna norma analoga nel codice di procedura penale; e la diversa natura degli interessi che vengono in considerazione nel procedimento penale non ne consentirebbe comunque un’applicazione analogica (si è sempre escluso, per questo, che l’avvocato possa difendere sé stesso in un procedimento in cui sia imputato)” e Cass. 03.07.2000, n. 2064; Cass. 25.03.2003, n. 18395; Cass.18.09.2008, n. 37629; Cass. 21.09.2017, n. 48601.

3. L’avvocato-curatore e la mediazione obbligatoria

Resta, comunque, da verificare se il principio affermato dal Tribunale di Varese sia estensibile alle mediazioni diverse da quelle facoltative e, cioè, se il curatore-avvocato ben possa partecipare al procedimento di mediazione ab origine obbligatoria, o delegata, senza l’assistenza di un altro avvocato. Qui si tratta di verificare quale sia il ruolo dell’avvocato in mediazione per valutare se vi siano delle ragioni che inducano a ritenere la vigenza di una regola analoga a quella esistente nel processo, che vieta l’autodifesa.

A me pare che, nella mediazione obbligatoria prevista dal nostro ordinamento, il ruolo di attore principale sia svolto dalla parte personalmente e che l’avvocato si limiti a svolgere due funzioni ancillari: quella di conoscitore delle tecniche di negoziazione e quella tipica del giureconsulto, cioè del soggetto che è in grado di fornire al proprio assistito una previsione dell’esito della lite. In quest’ottica, non mi sembra vi siano ragioni per vietare al curatore-avvocato di rappresentare l’amministrazione del patrimonio fallimentare nel procedimento di mediazione obbligatoria.

Redazione

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