Il delitto di Autoriciclaggio: profili problematici

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Il delitto di autoriciclaggio, che trova fondamento normativo nell’art. 648.ter 1 c.p., è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 15 dicembre 2014, n. 186, segnatamente dal suo art.3, il quale ha altresì inserito tale figura delittuosa all’interno dell’art. 25-octies del d.lgs. n. 231 del 2001, riconducendola al novero dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti da reato.

Sotto il profilo oggettivo, tale disposizione sanziona la condotta di colui il quale, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative dei proventi delittuosi, ostacolandone in concreto l’identificazione della provenienza illecita.

Da un punto di vista soggettivo, l’illecito in questione è punibile a titolo di dolo, essendo richiesta la consapevolezza dell’autore del reato della provenienza delittuosa dei beni, e la volontà di ostacolarne l’identificazione mediante un investimento a carattere economico-speculativo.

Tre i più importanti profili problematici della fattispecie, che hanno alimentato vivaci e controversi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali:

– la delicata questione del concorso nell’autoriciclaggio e conseguentemente i rapporti tra riciclaggio ed autoriciclaggio;

– il rilievo dell’autoriciclaggio ai fini della configurabilità in capo all’ente della responsabilità amministrativa da reato ex d.lgs. n. 231/2001;

–  la definizione della portata temporale della fattispecie.

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Condotte plurisoggettive nel reato di autoriciclaggio

Riguardo al primo punto, la Cassazione si è pronunciata con sentenza n.17235 del 17 gennaio 2018, statuendo che nei casi di realizzazione plurisoggettiva dell’autoriciclaggio, la soluzione sia da rintracciare nella differenziazione dei titoli del reato: l’autore o concorrente nel delitto presupposto risponderà di autoriciclaggio; il terzo il quale, non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica del reato proprio di autoriciclaggio, o contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648 ter 1 c.p., risponde del reato di riciclaggio ex art. 648 bis c.p. e non di concorso (a seconda dei casi, ex artt. 110 o 117 c.p.) nel meno grave delitto di autoriciclaggio ex art. 648 ter 1 c.p. . La genesi di tale soluzione risiede proprio nella ratio dell’intervento legislativo del 2014, che era quella di punire l’autoriciclatore e non certo quella di attenuare le pene per il riciclatore già sanzionato ex art. 648 bis c.p. . La nuova incriminazione è stata concepita, in ossequio ad obblighi internazionali, con la finalità di colmare la lacuna di irrilevanza penale delle condotte di autoriciclaggio poste in essere dall’autore di determinati reati non colposi: da ciò l’impossibilità di applicare la norma a chi non abbia preso parte al delitto presupposto. In estrema sintesi, nell’ipotesi di realizzazione plurisoggettiva di auto riciclaggio, a seconda che il soggetto abbia o meno preso parte alla commissione del delitto presupposto andranno a configurarsi alternativamente i delitti di riciclaggio o autoriciclaggio.

In merito alla seconda questione, premesso che la legge 15 dicembre 2014, n.186 ha inserito all’interno dell’art. 25-octies del d.lgs. n. 231 del 2001 l’autoriciclaggio (che diventa dunque presupposto della responsabilità dell’ente), sulla base del tenore letterale della formula, sembrerebbe che l’art. 648-ter 1, richiamandosi alla smisurata categoria dei delitti non colposi, introduca nel novero dei reati presupposto della responsabilità dell’ente tale categoria di reati. Tuttavia si è osservato che a costituire presupposto della responsabilità degli enti è il delitto di autoriciclaggio e non già i delitti non colposi che la norma penale richiama esclusivamente quali fonti di provenienza delle disponibilità economiche di cui si vieta l’autoriciclaggio stesso. L’ente dovrà solo controllare la provenienza lecita dei flussi economici e finanziari, garantirne la tracciabilità, e rafforzare gli strumenti per contrastare il rischio di investimento di proventi delittuosi, non essendo tenuto a preoccuparsi dell’area di rischio penale a monte del reato di autoriciclaggio.

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La responsabilità degli enti

E’ stata suggerita, in relazione al reato di autoriciclaggio, un’interpretazione volta a limitare l’applicazione della responsabilità degli enti a quelle sole ipotesi di fatto che abbiano come presupposto reati compresi nell’elenco di quelli idonei a generare la responsabilità degli enti ex d. lgs. n. 231/2001.

In relazione al terzo ed ultimo profilo ci si è chiesti se la nuova incriminazione possa essere applicata all’autoriciclaggio da “reati pregressi” o valga solo in relazione all’autoriciclaggio da “reati futuri”, ovvero quelli commessi dopo l’entrata in vigore dell’art. 648-ter.1 c.p. Se la previa commissione del “delitto non colposo” fosse da considerarsi quale mero “presupposto della condotta” non insorgerebbe problema alcuno in ordine all’operatività del divieto di retroattività, potendosi applicare la norma in relazione anche a reati pregressi. Tale soluzione ha altresì ricevuto l’avallo della Cassazione, la quale nella sentenza n. 3691 del 27 gennaio 2016 ha espressamente statuito «l’irrilevanza della realizzazione, in epoca antecedente l’entrata in vigore di tale normativa, delle condotte assunte ad ipotesi di reato presupposto», ed ancora, con riguardo al caso concreto, ha ritenuto «impropriamente invocato il principio di irretroattività della norma penale … in relazione ad un reato, quale quello dell’autoriciclaggio, nel quale soltanto il reato presupposto si assume commesso in epoca antecedente l’entrata in vigore della l. n. 186/2014, ma quando lo stesso reato era già previsto dalla legge come tale, mentre l’elemento materiale del reato di cui all’art. 648 ter1 risulta posto in essere … ben successivamente all’introduzione della predetta normativa». I sostenitori della tesi opposta, quella della irretroattività, ritengono invece che il reato a monte rappresenti un elemento costitutivo del fattispecie, e non un mero presupposto. Tale dottrina ha sostenuto l’impossibilità di applicare la norma con riferimento ai reati pregressi, considerando i delitti non colposi, generatori dei proventi illeciti, elementi costitutivi del fatto, integrativi del precetto penale di cui all’art. 648-ter 1, posto lo stretto rapporto logico-strutturale tra l’illecito a monte e l’impiego successivo dei proventi: la messa a reddito dei proventi costituirebbe in definitiva il «verosimile e frequente risultato avuto di mira con la commissione del reato a monte»[1], motivo per cui l’intero fatto (illecito a monte incluso), per potere avere rilievo penale è necessario si sia verificato dopo l’entrata in vigore della norma.

La prima tesi rappresenta invero quella dominante.

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Nota

[1] D. Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim. n. 1/2015, 93;

Dott. Di Gregorio Giuseppe

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