IL Decreto legislativo n.80 del 1998

Redazione 27/08/00
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di Filippo Satta, Professore di Diritto Amministrativo all’Universita’ Tor Vergata di Roma

Relazione all’incontro di studio organizzato dalle Associazioni Magistrati del Consiglio di Stato e dei Tribunali Amministrativi il 5.6.98 a Palazzo Spada a Roma

1. Il d. l.vo 31 marzo 1998 pone una serie di problemi, i primi dei quali riguardano niente meno che l’ambito della nuova giurisdizione esclusiva. All’art. 33 il decreto parla di tutte le controversie in materia di pubblici servizi ivi compresi (si noti il maschile) i servizi afferenti al credito, alla vigilanza sulle assicurazioni, al mercato mobiliare, al servizio farmaceutico ai trasporti, alle telecomunicazioni, nonchè di quelle aventi ad oggetti atti, provvedimenti e comportamenti delle p.a. in materia urbanistica ed edilizia, dove per materia urbanistica si considerano tutti gli aspetti dell’uso del territorio. Rimangono fuori le controversie in materia di commercio, industria, agricoltura, sanità, stranieri, lavoro, cooperazione, demanio, etc. etc. Un mondo assai vasto.

Servizi pubblici ed uso del territorio sono dunque i due terreni, se così si può dire, cui si rivolge la nuova giurisdizione esclusiva. Sorgono però subito dubbi. Come possano essere compresi tra i servizi pubblici quelli afferenti al credito, alla vigilanza, (perchè solo la vigilanza?) sulle assicurazioni ed al mercato mobiliare è un autentico mistero. Tra i servizi pubblici sono inserite le telecomunicazioni: perchè non i servizi relativi all’energia, per i quali già esiste una giurisdizione esclusiva?

Come deve essere risolto il problema degli appalti di lavori, servizi e forniture? La lett. e) comprende nella giurisdizione esclusiva le controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, svolte da soggetti comunque tenuti all’applicazione delle norme comunitarie della normativa nazionale o regionale. La lett. e) è però pur sempre una specificazione del principio generale, secondo cui sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie in materia di servizi pubblici: a rigore dunque la giurisdizione esclusiva dovrebbe darsi solo se ed in quanto la stazione appaltante sia un gestore di servizio pubblico.

Non credo che ci possano essere dubbi. A pena di creare intollerabili disparità di trattamento, la legge deve essere interpretata, comprendendo nella nuova giurisdizione esclusiva tutte le controversie che essa elenca, oltre a quelle, non espressamente menzionate, che vi rientrano ratione materiae.

2. Questa nuova giurisdizione richiede qualche riflessione. La prima è che si tratta realmente di una giurisdizione esclusiva, nel senso che comprende cause che sarebbero state del tutto estranee alla giurisdizione amministrativa e vi sono attratte solo ratione materiae: istituzione, modificazione o estinzione di soggetti gestori di servizi pubblici, ivi comprese le aziende speciali, le istituzioni o le società di capitali anche di trasformazione urbana; le controversie riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento i pubblici servizi, escluse solo quelle relative ai rapporti individuali di utenza con soggetti privati, quelle meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona e le controversie in materia di invalidità.

Essa ha tre caratteristiche salienti, da cui si può tentare di ricostruire un quadro organico.

3. L’art. 34 dice che sono devolute alla sua giurisdizione esclusiva le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistiche ed edilizia.

Per gli atti e provvedimenti nulla quaestio. Il problema sorge per i comportamenti. Comportamento tipico è il silenzio, ma il silenzio è ormai da tempo immemorabile concepito e costruito come provvedimento. Non per nulla, si dà solo quando vi è obbligo di provvedere; deve essere provocato; e, quando ha valore di rigetto, la giurisprudenza più recente ne ha evidenziato il valore sostanziale, da quando ammette che contro di esso siano deducibili i motivi sostanziali, legati al rigetto dell’istanza. Il comportamento cui si riferisce la legge, quindi, se le sue parole hanno un senso, deve necessariamente essere qualche cosa di più -o di diverso- rispetto ad un comportamento cui, in un modo o in un altro, sia attribuito valore di provvedimento.

Di che cosa può dunque trattarsi? Collocato in una materia qualificata come “tutti gli aspetti dell’uso del territorio” e nell’ambito di una giurisdizione “globale” -esclusiva- nei confronti della pubblica amministrazione, i comportamenti di cui si parla non possono non comprendere tutto ciò che, secondo la lingua italiana, costituisce comportamento: fare, non fare, atteggiarsi in un certo modo. Questo atteggiarsi deve avere una sola caratteristica: essere produttivo o potenzialmente produttivo di conseguenze giuridiche.

I campi di applicazione cui si può pensare in una prima lettura della legge sono almeno due.

Il primo riguarda le situazioni lato sensu precontrattuali che sorgono nei rapporit tra amministrazione e cittadini. Si pensi alla proposta di una convenzione di lottizzazione avanzata da un proprietario. Certamente non vi è obbligo di provvedere; certamente si intrecciano diritti, aspettative, interessi, obblighi e poteri. Di fronte al comportamento che non è atto amministrativo, che non è provvedimento, ma pure non consente la soddisfazione dell’interesse privato, sembra palese che la legge abbia previsto la possibilità di adire il giudice, per far accertare che, ad es., visto il piano regolatore generale, nulla osta alla possibilità di stipulare la convenzione.

Il secondo campo riguarda i c.d. interessi diffusi e quindi essenzialmente le associazioni ambientalistiche. Si pensi alle volte in cui viene sollecitato un intervento attivo dell’amministrazione, vuoi per far cessare un abuso, vuoi per finalità di tutela del territorio. Di fronte all’inerzia dell’amministrazione non vi è possibilità di adire il giudice, perchè non vi è obbligo di provvedere. Nel momento in cui la legge estende la giurisdizione amministrativa esclusiva anche alle controversie relative a comportamenti (necessariamente privi, come si è detto, di valore provvedimentale), non può non derivarne anche l’attrazione in essa di queste esigenze di tutela.

4. La seconda nuovissima caratteristica della giurisdizione esclusiva introdotta dal d. l.vo n.80/98 riguarda i poteri del giudice amministrativo. Nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, egli può disporre il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.

Di che cosa debba intendersi per danno ingiusto e del suo risarcimento per equivalente si dirà in seguito. Qui occorre fermare l’attenzione sulla reintegrazione in forma specifica.

Il primo rilievo da fare – confermato esplicitamente dal 4° e dal 5° comma dell’art. 35- è che è sono venuti meno tre classici capisaldi della giustizia amministrativa: vale a dire, la riserva dell’annullamento al giudice amministrativo, la riserva di esecuzione delle sentenze di annullamento all’amministrazione ed infine la riserva di risarcimento al giudice dei soli c.d. diritti soggettivi. Il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, è sempre attribuito al giudice amministrativo nell’esercizio della giurisdizione esclusiva. L’annullamento finisce con lo svolgere una funzione meramente strumentale rispetto alla pronuncia di merito, che rende cioè effettiva ed immediata giustizia.

Si tratta dunque di capire che cosa significhi non solo reintegrazione in forma specifica (ciò che può essere relativamente semplice) quanto risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. In altre parole, di fronte ad un provvedimento che nel 1998 ha disposto qualche cosa, e nel 2000 verrà ritenuto illegittimo, come può darsi una reintegrazione in forma specifica con efficacia risarcitoria?

Reintegrazione in forma specifica certo significa che il giudice amministrativo ha il potere di adottare un provvedimento, con cui si pone rimedio alla situazione determinata da quello ritenuto illegittimo. Si può correttamente pensare ad es. che il giudice amministrativo possa direttamente rilasciare la concessione edilizia negata ovvero che la sentenza di accoglimento equivalga ad essa. Non vi è dubbio che questa sia una reintegrazione in forma specifica; altrettanto certamente non è una reintegrazione con effetti risarcitorii. Un danno ingiusto, legato al mero decorso del tempo, rimane a carico del vincitore.

Si può andare più innanzi ed ipotizzare che il giudice amministrativo possa spingere la sua pronuncia di reintegrazione in forma specifica fino ad impegnare l’amministrazione su un piano o su un terreno diverso da quello oggetto del giudzio. Si può dare libero corso alla fantasia -ed in realtà avventurarsi in autentiche sabbie mobili-, immaginando che il giuidce amministrativo ordini al comune di far partecipare il vincitore ad un’altra società o di affidargli un lavoro equivalente a quello per cui ha fatto ricorso. Qui il risarcimento potrebbe esserci: sembra però sufficiente formulare ipotesi di questo genere, per concludere che questa è una via pressochè impraticabile.

La reintegrazione in forma specifica, dunque, non può che essere un elemento, e solo un elemento, del risarcimento del danno ingiusto. Nella complessità che il danno può avere, il ricorso al risarcimento per equivalente sembra assolutamente ineludibile.

5. La terza caratteristica riguarda i mezzi istruttori. Escluso l’interrogatorio formale ed il giuramento, tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile sono esperibili. E’ dunque consentita la prova testimoniale; è espressamente prevista la c.t.u. (che in verità non è proprio un mezzo di prova).

Sappiamo tutti che il processo amministrativo non ha mai posto veri problemi di prova. Nessun ha mai lamentato di non essersi potuto difendere; ed anche dopo la celebre sentenza della Corte costituzionale a propostio della prova testimoniale nella giurisdizione esclusiva, se ne è soltanto sentito parlare. Sotto questo profilo, il terzo comma dell’art. 35 parrebbe quasi inutiliter datum.

Sennonchè queste disposizioni si inseriscono in un contesto completamente nuovo: oggetto del giudizio non sono soltanto atti e provvedimenti, ma anche comportamenti, con tutto ciò che questo comporta; il giudice dispone il risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. Per valutare i comportamenti occorre accertare una serie di circostanze, insuscettibili di prova documentale, esattamente come essa può non essere sufficiente per determinare l’ingiustizia del danno, la sua entità, e definire i criteri in base al quale liquidare il risarcimento (secondo la singolare soluzione adottata dal 2° comma).

Le disposizioni sulla prova riguardano dunque proprio il cuore della giurisdizione esclusiva, ed il suo investire non solo la legittimità di un provvedimento, ma i diritti del cittadino nei suoi rapporti con le amministrazioni ed i gestori di pubblici servizi: diritti del cittadino, la cui struttura elastica, vorrei dire, aperta a mille forme di lesione, richiede altrettanto elastici mezzi istruttori e poteri decisori del giudice. In altre parole, la giurisdizione esclusiva non è più soltanto un accorto strumento tecnico per evitare problemi di regolamento di confini tra giudice amministrativo ed ordinario, ma è esplicitamente descritta come una giurisdizione generale, in cui il giudice amministrativo è chiamato a pronunciare su tutto ciò che può nascere da un rapporto con certe amministrazioni ed i gestori di pubblici servizi.

6. Tutto ciò è al tempo stesso straordinariamente affascinante ed irto di problemi.

Il primo problema riguarda i rapporti con le altre materie in cui è data la giurisdizione esclusiva, non previste dagli artt. 33 e 34. Ad es., che cosa accade in una materia in cui certamente si discute solo di diritti -la tutela della concorrenza- devoluta alla giurisdizione esclusiva dalla legge del 1990, ma non compresa tra le materie descrite dagli artt. 33 e 34? L’impresa, cui sia stata vietata una concentrazione, può chiedere e addirittura pretendere una c.t.u. per dimostrare che la concentrazione non ha effettivi distorsivi della concorrenza e quindi chiedere il risarcimento del danno? Fino ad oggi, a mio avviso erroneamente, si è ritenuto che la giurisdizione esclusiva in materia di concorrenza non si differenziasse dalla giurisdizione generale di legittimità e si è valutata la legittimità dei provvedimenti dell’Autorità in chiave di eccesso di potere per difetto di istruttoria o di motivazione, senza sottoporli al vaglio di economisti indipendenti, veri ausiliari del giudice. Sarà ancora possibile? E sarà possibile farlo per i provvedimenti dell’Autorità per l’energia (non per le telecomunicazioni, espressamente contemplate dal d. l.vo n.80/98), impropriamente detta indipendente, perchè appunto ha poteri regolatori? Sarà possibile evitare una c.t.u. per contestare le conclusioni di una autorità in materia, ad es. di prezzi, solo perchè per queste materie è data la giurisdizione esclusiva, ma all’infuori delle materie previste dagli artt. 33 e 34? Si pensi alla complessità dei meccanismi di determinazione dei prezzi, previsti dalla l. n.581/95 per comprendere la delicatezza del problema.

La soluzione del quesito mi sembra ovvia: non si può che interpretare gli artt. 33 e 34 in senso sistematico, per evitare una insuperabile censura di illegittimità costituzionale.

7. Il secondo problema riguarda l’antica distinzione e contrapposizione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi. Per chi vi parla il problema non esiste, perchè se è vero che si possono distinguere diverse posizioni del cittadino nei confronti dell’amministrazione (e dei privati tra loro), altrettanto vero è che questa distinzione non ha nulla di essenziale. E’ stata utilizzata solo per creare aree di privilegio a favore dell’amministrazione, esentando da responsabilità vastissimi settori di attività dell’amministrazione. Essa è del resto ignota all’ordinamento comunitario (per il quale vige la regola che a potere corrisponde responsabilità) e quindi, in quanto inutilmente limitatrice dei diritti del cittadino, incompatibile con esso. Esiste però nella cultura giuridica e nella giurisprudenza della Cassazione, che, come tutti sappiamo, ha sempre contrapposto giurisdizione ordinaria ed amministrativa in nome dei diritti e degli interessi, per negare accesso al giudice ordinario a chi, dopo la lesione di un interesse legittimo, osasse invocare il risarcimento del danno. Dopo aver negato per oltre un secolo la sussistenza della giurisdizione, adesso dice che la domanda è ammissibile, ma deve essere respinta per carenza di situazione giuridica tutelata.

Ora tutto cambia, perchè “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt. 33 e 34, dispone anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto” (art. 35, 1° co.); non solo; ma sono abrogati l’art. 13 della l. n. 142/92 ed ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi; nè ancora basta, perchè sono stati eliminati i diritti patrimoniali conseguenziali dalla riserva di giurisdizione all’autorità giudiziaria ordinaria.

L’illegittimità di un provvedimento, dunque, in quanto provochi un danno che non si aveva il dovere di subire (secondo la definizione usuale dell’ingiustizia del danno), dà ingresso al suo risarcimento. Come si accennava sopra, l’annullamento dell’atto è meramente strumentale rispetto a questo fine, perchè non ha molto senso mantenere in vita un provvedimento che si dichiara illegittimo e dal quale si fa derivare un diritto al risarcimento.

Quid iuris, dunque? Ad ogni danno, che possa qualificarsi ingiusto, dovrà essere accordato il risarcimento, senza indugiare a valutare se la situazione lesa è di diritto o interesse legittimo?

La risposta è obbligata. Prevedere che nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva il giudice dispone il risarcimento del danno ingiusto; aver cancellato la figura dei diritti patrimoniali conseguenziali e soppresso l’annullamento dell’atto, quale condizione amministrativa si esercita anche attraverso il risarcimento. E, quindi, la differenza tra diritti soggettivi ed interessi legittimi può finire in qualche cupa stanza del museo del diritto amministrativo.

8. Appartiene strettamente al diritto sostanziale ogni discorso sul danno, sulla sua ingiustizia, sul rapporto tra illegittimità ed illiceità, sul rapporto tra atti e provvedimenti amministrativi e la “condotta” dell’art. 2043. Per questo motivo qui non ne tratto. Auspico però vivamente che le due associazioni dei magistrati amministrativi vogliano organizzare un convegno nel prossio autunno, per discuterne a fondo.

9. Mi premono ancora due temi, lontanissimi tra loro ed al tempo stesso strettamente connessi.

Il primo riguarda il rapporto tra questa legge, con le specifiche materie cui si riferisce, e tutte le altre. Ci troviamo in una situazione veramente anomala: in tutte le materie diverse da quelle elencate nei primi due commi dell’art. 33 resta ferma la giurisdizione generale di legittimità, resta la delimitazione della giurisdizione amministrativa fondata sugli interessi legittimi, resta la risarcibilità del danno recato ai soli diritti soggettivi.

Non ci si può non chiedere perchè. Per quale motivo il provvedimento del Ministero dell’industria nei riguardi di una compagnia di assicurazioni deve essere sottoposto al vaglio di una giurisdizione esclusiva mentre l’analogo provvedimento adottato dal Ministero del lavoro nei confronti di una cooperativa ricade nella tradizionale giurisdizione di legittimità, e quindi esclude qualsiasi ipotesi di risarcimento del danno?

A me pare che non ci siano motivi per giustifcare questa disparità di trattamento. E quindi è facile prevedere che, appena se ne presenterà l’occasione, verrà portata all’attenzione di qualche TAR ed eventualmente del Consiglio di Stao la questione se in realtà la giurisdizione esclusiva del d. l.vo n.80/98 non debba essere estesa a tutte le situazioni sostanziali simili a quelle, cui il decreto si applica: e poichè il decreto legislativo copre uno spettro vastissimo, non tanto di materie, quanto di situazioni sostanziali, non è irragionevole pensare che, prima o poi, tutta la giurisdizione amministrativa si convertirà in giuridizione esclusiva.

10. E così si può affrontare l’ultimo problema, lontanissimo da questo di legittimità costituzionale del sistema, di cui ho appena detto, e pur vicinissimo ad esso.

Siamo dunque entrati in un’era in cui il giudice amministrativo potrà condannare l’amministrazione al risarcimento del danno. Mi tornano alla memoria le parole del procuratore generale presso la Cassazione nell’audizione di fronte alla Bicamerale, con cui denunciava, terrorizzato, gli effetti devastanti che prevedere la risarcibilità del danno provocato da provvedimenti amministrativi avrebbe avuto sulle finanze pubbliche.

E’ facile dire che è lo stesso discorso che si faceva un secolo fa e che è stato ripetuto in sede di lavori per la riforma della costituzione come se nulla fosse cambiato ed un paese civile non dovesse porsi il problema di porre rimedio ai danni che la propria amministrazione reca ai propri cittadini. I due problemi coesistono: occorre garantire la possibilità del risarcimento; è penoso pensare che il risarcimento si traduca in un pregiudizio delle finanze pubbliche e quindi sottragga risorse destinate a soddisfare bisogni generali per risarcire un singolo. Sembra un dilemma insolubile: o si ammette il risarcimento e si pregiudicano le finanze pubbliche; o lo si nega e si nega così giustizia.

A me pare che, in questi termini, il problema sia mal posto, ovvero che sia posto in termini troppo parziali. Non c’è dubbio che, consumato il danno questo debba essere risarcito. Senonchè noi non parliamo del danno provocato da uno qualsiasi degli infiniti, intrinsecamente atipici eventi posti in essere dal vivere umano. Parliamo di un danno dotato, vorrei dire, di una tipicità strutturale, perchè è provocato da quella tipicissima attività, che è l’esercizio di una funzione amministrativa. Noi sappiamo bene quando l’attività amministrativa reca un danno che la coscienza, prima assai del diritto, sente come ingiusto. Questo accade quando i provvedimenti sono adottati vuoi sciattamente, vuoi con vero e proprio dolo; quando si trascurano i fatti, o si perseguono finalità indirette, che trascendono la posizione del destinatario; quando la motivazione non regge, perchè in realtà svela che si è fatta qualche cosa, che non si doveva fare. Sono cose notissime. In queste aule si sono messse a punto le celebri figure sintomatiche dell’eccesso di potere; l’art. 97 della Costituzione ha prescritto che l’agire amministrativo fosse “imparziale”.

L’espressione è indecifrabile nel suo significato concreto, come tutti sanno, ma tuttavia espressiva di un’aspirazione alla correttezza, alla razionalità, alla non arbitrarietà -in una parola, ad un modo, come oggi si direbbe, trasparente e razionale di agire e di esercitare la funzione amministrativa.

Ora il punto cruciale è proprio questo: l’imparzialità -o la trasparenza, o la razionalità, o l’adeguatezza, o tutte queste cose insieme- esprime un’aspirazione. Si vuole che l’attività amministrativa si svolga in un certo modo. Si vuole che sia accettabile ed accettata e non arbitraria.

Si vuole che le scelte compite siano comprensibili e quindi razionali. La domanda è una sola: come ci si può avvicinare al massimo a questo risultato? E’, superfluo ricordarlo, risultato fondamentale, perchè esclude a priori, in radice l’esigenza del cittadino di invocare ed ottenere una giustizia risarcitoria.

Io penso che non ci siano dubbi sulla via da percorrere. L’amministrazione, le amministrazioni nel senso più ampio del termine, devono aprirsi alla società. Devono adottare regole procedimentali che consentano a tutti gli interessati di partecipare, di far sentire la propria opinione e di comprendere che cosa si fa e perchè. La legge n.241/90 ha abbozzato una strada, enunciando solo un paio di principi e di regole a proposito della partecipazione al procedimento. E’ certo poco, ma qualche cosa sono. Sono sicuro che se la giustizia amministrativa farà leva su queste norme, per pretenderne sempre l’osservanza, l’effetto di prevenzione del danno e quindi del risarcimento sarebbe fortissimo. Chi ha fatto valere le proprie ragioni ele ha viste discutere e valutare può dolersi della scelta compiuta, ma non del modo in cui è stata accolta: può dolersi del merito, non del cattivo esercizio della funzione. E quindi penso che un accorto uso della sospensiva -accordata al solo fine di far esperire il procedimento contraddittorio-; una sollecita fissazione dei ricorsi in cui si deduce violazione delle norme sul procedimento contraddittorio; costituirebbero lo strumento di elezione, con cui il giudice amministrativo potrebbe realizzare la “giustizia nell’amministrazione”, lasciando al risarcimento del danno il ruolo suo proprio, di estremo garante.

Roma, 5 giugno 1998

Prof. Filippo Satta

Redazione

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