Il danno non patrimoniale da fatto illecito: dalla tecnica del travaso all’ingiustizia costituzionalmente qualificata

Chiara Savazzi 16/11/20
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Breve excursus sulla evoluzione.

Secondo l’art. 2043 del codice civile, qualsiasi fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto, comporta necessariamente il risarcimento di quest’ultimo. Senza dubbio, definire in termini di esistenza – an – e di entità – quantum – un danno patrimoniale, risulta di gran lunga più agevole rispetto ad un danno non patrimoniale, afferente ad una sfera più intima ed altresì soggettiva dell’essere umano; in quanto tale, infatti, una sofferenza non attinente al patrimonio si estrinseca in modo differente da persona a persona. Ciò dà adito al rischio di pretestuose istanze per sofferenze c.d. bagatellari, facenti fisiologicamente parte della vita all’interno di una società, composta da una moltitudine di soggetti, più o meno perfettibili. Per le suddette ragioni accennate, dal 1942 ad oggi, l’iter evolutivo del danno non patrimoniale – specificamente di cui all’art. 2059 c.c. – non è stato affatto semplice, richiedendo più volte l’intervento della Suprema Corte, su questioni inerenti la sua qualificazione.

Per una maggiore chiarezza introduttiva, si precisa che il Titolo IX c.c., occupandosi di ciò che concerne i fatti illeciti, prevede, all’art. 2043 c.c., una tipologia di responsabilità che si estende sia su un piano patrimoniale sia su quello non patrimoniale; la conclusione del Titolo, prevede, all’art. 2059 c.c., un’ulteriore precisazione per quanto riguarda il danno non patrimoniale, specificando che esso possa essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Se ne deduce la caratteristica dell’atipicità dell’art. 2043 c.c., in quanto clausola generale, e quella della tipicità dell’art. 2059 c.c.

Il codice del 1942 subordinava la risarcibilità del danno non patrimoniale da fatto illecito, alla sussistenza di un fatto costituente reato, in base all’art. 185 c.p., così da poter ristorare la persona offesa di ogni tipo di conseguenza negativa subita. Ne derivava la perfetta trasposizione delle regole probatorie del diritto penale, nel processo civile, richiedendo dunque la sussistenza della piena prova di entrambi gli elementi, oggettivo e soggettivo, per far sì che si potesse procedere alla liquidazione del risarcimento. Inevitabilmente, in tal modo, rimanevano escluse dal novero delle situazioni prese in considerazione, un numero molto elevato di sofferenze – non derivanti da reato né patrimoniali – non debitamente tutelate; si pensi a lesioni inerenti il diritto alla salute, talmente importante quanto, tuttavia, poco considerato, quantomeno fino agli anni ’80. È in questa falla del sistema che si inserisce l’importantissima pronuncia della Corte Costituzionale[1], con la quale si sostiene l’impossibilità di legare la tutelabilità delle lesioni del diritto alla salute, al combinato disposto di cui agli art. 2059 c.c. e 185 c.p., ritenuto insoddisfacente. La Corte fa transitare il suddetto risarcimento del danno nella disposizione di cui all’art. 2043 c.c., creando un’estensione del danno patrimoniale, non più solo prettamente economico; si parla al riguardo, di “tecnica ermeneutica del travaso”. L’art. 2059 c.c., in tale frangente, rimane così vigente solo per quanto riguarda i danni morali puri derivanti dalla commissione di un reato.

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Tuttavia, anche tale scelta ermeneutica, risulta negli anni poco esauriente, per due specifici motivi. In primis, l’art. 2059 c.c. continuava a risultare esageratamente connesso ad una rigida tipicità, la quale non consentiva di apprestare tutela a situazioni meritevoli della stessa; in secundis, il danno alla salute, ormai tutelato ad ampio raggio mediante l’art. 2043 c.c., non poteva essere considerato l’unico diritto foriero di aspetti risarcitori importanti.

Due sentenze[2] della Corte di Cassazione, nel 2003, danno avvio ad una “nuova era” del danno non patrimoniale, definendolo come “danno da lesione di valori inerenti alla persona” e non più come danno morale puro. In tale contesto il concetto della “non patrimonialità” abbraccia ogni tipo di “danno-conseguenza”, derivante da un’offesa arrecata ad un diritto costituzionalmente ritenuto fondamentale. Anche il tipo di accertamento probatorio muta, lasciando spazio ai criteri civilistici, basati anche sulle presunzioni[3].

Definizione odierna di danno non patrimoniale

Dalla tecnica ermeneutica del travaso nell’art. 2043 c.c., ci si indirizza sempre più verso un’autonomia dell’art. 2059 c.c., che inizia ad operare in modo meno rigido, fornendo tutela a sempre più diritti considerati inviolabili dall’art. 2 della Carta Costituzionale. Due ulteriori famose sentenze[4] delle Sezioni Unite, c.d. “di San Martino”, continuano a solcare il percorso avviato dalle sentenze del 2003.
La riserva di legge di cui al contenuto dell’art. 2059 c.c. riceve un’attenuazione, non facendo più esclusivo riferimento al diritto alla salute né tantomeno ai diritti lesi a causa della commissione di una fattispecie di reato. Il predetto art. 2 – norma di cornice del danno non patrimoniale – inizia ad assumere significati concreti e tangibili attraverso l’aggiornamento costante della lista dei diritti ritenuti fondamentali in un particolare periodo storico ed in un preciso contesto sociale. Non rappresentando un numerus clausus, l’insieme dei diritti involabili, ad oggi, viene costantemente rivisto ed aggiornato dalla Giurisprudenza, tenendo conto delle esigenze dei consociati e della loro sensibilità, dando vita ad un sistema atipico ma non sconfinato, che dia prova di danni concreti, effettivamente pregiudizievoli. Il difficile compito del giudicante è quello di individuare quando l’offesa non sia rappresentata da un mero dolore, rispettabile ma non risarcibile su un piano giuridico, bensì da un vero e proprio danno, necessitante un ristoro in termini economici, poiché non rientrante in quel minimum di sopportazione richiesto dall’ordinamento, per il vivere sereno tra consociati. La valutazione non avviene in modo discrezionale, ma facendo riferimento a parametri individuabili nelle note Tabelle milanesi, che da anni costituiscono uno strumento efficace per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione della integrità psico-fisica.

Unitarietà giuridica e duplicità fenomenica

Il danno non patrimoniale è stato considerato, fin dagli albori, una categoria unitaria, contenente al suo interno svariate forme di espressione delle singole lesioni patite; si pensi al danno relazionale, a quello estetico, e così via. La scelta dell’unitarietà non rappresenta una mera convenzione, piuttosto il preciso intento di non incorrere in eventuali duplicazioni del risarcimento di medesime offese chiamate con nomi differenti. Invero, in una delle c.d. sentenze di San Martino, si sostiene l’unitarietà sia giuridica sia fenomenologica del danno non patrimoniale, considerando le svariate ulteriori definizioni dello stesso, quali modi diversi di manifestarsi, che non possono condurre ad una struttura sfaccettata, bensì unica.

Non sono mancate pronunce di orientamento opposto, anche di recente[5]. La Cassazione ha optato per una descrizione unitaria solo da un punto di vista giuridico e non anche fenomenico, valutando la liquidazione del danno in due declinazioni, una relativa alla sofferenza prettamente interiore del soggetto leso, l’altra connessa all’ambito della vita di relazione dello stesso. Da ciò ne consegue una duplicità risarcitoria, l’una riguardante il danno morale da sofferenza interiore, l’altra afferente al danno biologico; una fenomenologia doppia, dunque, volta al risarcimento integrale del danno cagionato. Al di là della scelta di una liquidazione unitaria, doppia o molteplice, la Cassazione è univoca nel ritenere che il pregiudizio patito dalla vittima nella sua sfera interiore vada risarcito così come quello riguardante la sua vita nella dimensione dinamico-relazionale, competendo al giudice una valutazione specifica del caso concreto, così da non tralasciare nessuna possibile offesa e da ristorare pienamente le perdite.

Diritti tutelabili

Come già accennato, l’art. 2059 c.c. è un contenitore abbastanza ampio per poter accogliere nuovi diritti emergenti, a livello sia nazionale sia comunitario, traendo altresì spunto dalla normativa sovranazionale, sebbene questa non abbia efficacia immediata e diretta nell’ordinamento interno. Nonostante l’attuale capacità espansiva, nettamente diversa dalla caratterizzazione rigida di circa cinquant’anni fa, il danno non patrimoniale non può inglobare in sè qualsiasi tipo di richiesta soggettiva. Il danno, per essere considerato risarcibile, infatti, deve essere serio e grave, in base ad una valutazione in concreto dell’incidenza che l’azione altrui ha avuto nella sfera personale del soggetto leso. Richieste arbitrarie o pretestuose non possono ricevere accoglimento dalla giurisdizione, non potendosi ritenere, qualsiasi molestia, un affronto ingiustificabile da punire.

A proposito della fenomenologia del danno non patrimoniale, per completezza, si menzionano i principali pregiudizi che il sistema civilistico italiano considera: il danno biologico, il danno esistenziale, il danno morale.

Il primo è definibile come la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica del soggetto, suscettibile di accertamento medico-legale, che incide sulla quotidianità e sulle relazioni della persona.

Il secondo è rappresentato da un peggioramento della qualità della vita, dovuto a lesioni di diritti diversi da quello alla salute.

Il terzo non è altro che la sofferenza interiore momentanea.

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Note

[1] C. Cost. 14 Luglio 1986, n. 184.

[2]Cass., sez. III, 31 Maggio 2003, nn. 8827 e 8828.

[3] A titolo di esempio, si pensi alla responsabilità del proprietario di un animale che abbia cagionato un danno, di cui all’art. 252 c.c.

[4]Cass., SS.UU., 11 Novembre 2008, nn. 26972 e 26975.

[5] Cass., sez. III, 11 Novembre 2019, n. 28988.

Chiara Savazzi

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