Il contratto. Definizione.

Carfora Luigi 06/12/07
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Il contratto è definito dall’art. 1321 c.c. come “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. A differenza delle esperienze vissute da altri ordinamenti giuridici, il legislatore del codice civile del 1865, in omaggio alla tradizione del codice Napoleone del 1804, intese accogliere una nozione dal taglio più pratico degli atti di autonomia privata, facendo del contratto il centro motore di tutto il sistema dell’attività con cui i privati, di norma, regolano i loro interessi.
Tuttavia, mentre nella visione del codice abrogato il contratto costituiva solo uno dei modi per acquistare o trasmettere la proprietà, nella più ampia prospettiva del legislatore del 1942 esso è una delle fonti di obbligazioni, insieme alla legge, ai fatti illeciti e ad ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.). L’antica funzione di trasferire la proprietà o altro diritto reale è stata, invece, relegata ad una sola norma – l’art. 1376 c.c. – il quale individua nel consenso delle parti legittimamente manifestato il momento in cui il diritto passa da un soggetto ad un altro nell’ambito delle loro relazioni giuridiche[1].
Una nota dottrina (Bianca) spiega la scelta di non riprodurre nel testo del codice civile la categoria del negozio giuridico in base alla eccessiva latitudine del concetto e nella constatazione che il contratto costituiva, ormai, la principale forma di manifestazione dell’autonomia privata. Ciò posto, la tradizione manualistica italiana seguita a far precedere la trattazione della materia contrattuale da una esposizione analitica delle problematiche relative al negozio giuridico. Ad ogni modo, mentre a parere di alcuni (Bianca, Gazzoni, Bigliazzi-Geri) il contratto costituisce la principale anche se non unica figura di negozio giuridico, altri (in particolare, Santoro-Passarelli) ritengono che il legislatore abbia considerato il contratto come strumento esclusivo e generale per la esplicazine dell’autonomia privata.
Dalla definizione fornita dall’art. 1321 c.c. si possono trarre le seguenti considerazioni. Il contratto è un negozio necessariamente bi o plurilaterale, poiché con esso si compongono interessi che all’inizio erano opposti o quanto meno non coincidenti. Dal punto di vista funzionale, poi, con esso si possono costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici. Più precisamente, costituire significa incidere sulla situazione e sugli interessi delle parti introducendo un nuovo rapporto. Regolare implica la possibilità di introdurre una qualsivoglia modificazione ad un rapporto già esistente. Estinguere, invece, significa porre termine ad un rapporto preesistente. Il contratto, infine, assume sempre una valenza patrimoniale.
Proprio la patrimonialità consente di distinguere il contratto da altri schemi negoziali, come quelli relativi al diritto di famiglia, che, per il loro carattere personale, assumono la qualifica più pregante di convenzioni. Così disponendo, il legislatore esclude dall’ambito dell’autonomia contrattuale quegli atti che la comune coscienza vuole sottratti alla logica del danaro.
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Il contratto, dunque, è al centro del sistema dell’autonomia privata e se, come precisato, nella visione del codice abrogato del 1865 veniva concepito come uno strumento essenzialmente dedicato alla trasmissione della proprietà e degli altri diritti reali, il legislatore del 1942, nel rinnovato assetto dei rapporti sociali ed economici, ne accoglieva una considerazione rispettosa dei tempi, ponendolo al centro della complessa realtà in cui muoveva i primi passi l’esercizio in forma d’impresa delle attività economiche. Va, inoltre, aggiungo che nella stessa epoca viene attuata la fusione dei codici civile del 1865 e di commercio del 1882: secondo le intenzioni originarie, doveva emergere un sistema unitario delle regole dei rapporti privati, privo di quelle manifestazioni di diritto singolare che avevano tanto caratterizzato il regime previgente. Invece, ne derivò un sostanziale disegno di commercializzazione del diritto privato, in cui furono accentuate anziché sfumate le differenze tra le classi, disegnando una disciplina prettamente di favore per il nuovo soggetto elevato a protagonista incontrastato della nuova materia dei rapporti privati, vale a dire l’imprenditore.
Nel regime previgente, infatti, erano emerse diverse difficoltà insite nel rapporto, non sempre tanto lineare, tra il codice civile e il codice di commercio. Da più parti, infatti, si denunziava come fosse problematico, talvolta, stabilire se un dato rapporto fosse sottoposto all’imperio delle leggi civili o delle leggi di commercio. Non meno signficativa apparve la stranezza di sottoporre alla disciplina di queste ultime, atti compiuti non da commercianti ma da soggetti privati, e la prassi invalsa di vedere riconosciuta la cognizione dei tribunali di commercio in ordine ad atti che non figuravano nella serie dimostrativa degli atti di commercio. Questi ultimi, poi, venivano considerati non già come atti giuridici, ma come “affari” capaci di generare commerciali obbligazioni, di cui era difficile dare una ratio unitaria. Per questo motivo, l’elenco degli atti di commercio ex art. 3 del codice abrogato di commercio, venne considerato esemplificativo e non tassativo.
L’intento, nelle intenzioni iniziali, era quello di dare vita ad una materia civilistica in cui avrebbe trovato spazio la materia commerciale estesa nel contenuto, enfatizzando i principi corporativi. In realtà, a differenza di quello che si era verificato sul piano pubblicistico, attraverso la creazione della camera dei fasci e delle corporazioni, le interferenze del nuovo ordinamento si ridussero a ben poca cosa, concretandosi in manifestazioni più di forma che di sostanza, come l’introduzione in alcune norme del codice dell’espressione “economia nazionale” e nella creazione di istituti tanto velleitari che nei tre anni scarsi di vigenza dell’ordinamento corporativo non ebbero alcuna forma di attuazione.
Come ebbe a denunziare il Messineo, il motivo della unificazione dei codici fu l’opposto di quello reso pubblico: non enfatizzazione del ceto commerciale e della sua natura produttiva, ma accesa dimostrazione della persistente ostilità versol’attività commerciale, considerata ancora parassitaria in quanto tesa solo al perseguimento del lucro. A dimostrazione che le intenzioni non fossero quelle in pro della unificazione delle materie privatistiche, si legittimò l’autonomia scientifica e normativa del diritto della navigazione, le cui norme furono racchiuse in un codice apposito. Comunque, la svolta decisiva tra il codice di commercio del 1882 e il codice civile del 1942 si compendiò, da un lato, nel passaggio dal sistema dell’atto di commercio (isolatamente considerato) a quello fondato sull’attività d’impresa (cioè di una serie di atti tra loro coordinati in vista di uno scopo comune, in cui era irrilevante la natura giuridica dell’atto singolo, la cui rilevanza si perdeva nella natura riconosciuta all’attività nel suo complesso); dall’altro, nel passaggio dalla figura del commerciante a quella dell’imprenditore.
Se, dunque, il nuovo codice civile era stato pensato come un corpus organico di norme attento alle esigenze di una società capitalistica che allora muoveva i suoi primi, incerti passi, non può essere sottaciuto come la disciplina del contratto, o, per meglio dire, dell’autonomia privata, rappresentò il settore del diritto che più di tutti, per le sue indubbie peculiarità, si prestava a subire i più importanti cambiamenti. Orbene, nella vasta categoria dei fatti giuridici si distinguono per importanza i fatti umani, ai quali, più propriamente, viene dato il nome di “atti giuridici”. Questi ultimi si distinguono in “fatti giuridici in senso stretto” o meri atti giuridici che consistono in comportamenti consapevoli e volontari che rilevano quali meri presupposti di effetti giuridici. In questi casi, la volontà gioca un suo ruolo solo nella assunzione della decisione di compiere o di non compiere l’atto, ma i cui effetti sono predeterminati dalla legge. Atti di autonomia negoziale, o negozi giuridici sono anch’essi atti consapevoli e volontari, le cui conseguenze giuridiche sono, invece, determinate dai soggetti che li compiono entro i limiti stabiliti dalle norme imperative.
La parola autonomia (che compare nella rubrica dell’art. 1322 c.c.) viene specificata con l’aggettivo negoziale per indicare che essa si manifesta attraverso il compimento di negozi. Proprio il termine “negozio”, che significa “affare”, ha una lunga tradizione nella dottrina del diritto privato, sebbene, come sopra anticipato, esso non figuri in alcuna parte del codice civile in vigore, come del resto nel codice abrogato del 1865. La scelta non fu casuale e si poneva come il riflesso che sulla cultura giuridica italiana esercitava la tradizione rappresentata dal codice Napoleone. Il negozio, invece, costituiva e costituisce ancor oggi l’istituto centrale della parte generale del codice civile tedesco, benchè anche in Germania appare palese il disagio insito nell’affrontare un discorso tendente alla costruzione di un concetto unitario di questa figura. Per questo motivo, è apparso molto più agevole discorrere di atti di autonomia negoziale per indicare subito che, in realtà, non esiste una figura unitaria di negozio giuridico, ma vi sono diversi schemi elaborati dalla attività creativa dei privati, come espressione di libertà loro riconosciuta dall’ordinamento. Uno studio degli elementi essenziali del negozio può rivelarsi utile nella misura in cui tenda alla sottolineatura di quegli aspetti dai quali non si può assolutamente prescindere per attribuire ad un determinato atto la qualifica di “negozio”, ma questo non autorizza a ritenere di avere circoscritto un unicum al quale riferire una pretesa teoria generale del negozio. Anzi, il contenuto comune si risolve a ben poca cosa, così come nei contratti, nonostante una corposa disciplina generale (artt. 1321-1469 c.c.).
Ad una superficiale osservazione, dunque, nel caso del negozio giuridico, il soggetto crea la regola che disciplina gli interessi perseguiti (ed, in effetti, di negozio si parla anche come autoregolamento impegnativo), mentre nel caso degli atti non negoziali, l’autonomia privata si esplica, non già dando vita alla regola, ma nella scelta del mezzo offerto dall’ordinamento giuridico, poiché è del tutto esclusa la partecipazione dei consociati nella elaborazione della disciplina. In realtà, un esame più attento del fenomeno consente di cogliere taluni momenti dai quali si può trarre la conclusione che la volontà, ove opera sul piano della creazione della regola, non è affatto aliena da controlli. Anzi, è proprio l’insieme delle norme dettate per la disciplina dell’attività negoziale dei soggetti che avalla questo tipo di considerazione.
Opportuno si presenta distinguere tra due momenti fondamentali: il procedimento strutturale per mezzo del quale la regola viene creata dai privati; la regola che dal procedimento strutturale prende vita. La struttura presuppone la presenza di taluni elementi richiesti per la configurabilità dello schema a livello di fattispecie (nella compravendita, ad esempio, è necessario che sia presente un bene di proprietà di un soggetto, che poi sarà scambiato per un dato prezzo). Essa, inoltre, implica necessariamente un accordo tra le parti che devono convenire al fine del componimento dei loro contrapposti interessi.
Fino a questo momento, il potere di autonomia dei privati non si è ancora manifestato ed un negozio non è ancora nato. Infatti, i privati non possono che dar vita ad uno schema astrattamente delineato dal legislatore e, benchè ai sensi dell’art. 1322 c.c. possano dar vita a negozi non tipici, si nota come anche in questo caso limite essi devono, pur sempre, rispettare le norme generali in materia di accordo e di forma. Deve, allora, osservarsi come anche il contratto atipico si forma, dal punto di vista del procedimento strutturale, secondo quanto stabilito dagli artt. 1326 ss. cc. Questo principio viene cristallizzato dall’art. 1323 c.c., ai sensi del quale “tutti i contratti, ancorchè non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali contenute in questo titolo”.
Il legislatore, quindi, esclude che l’autonomia dei privati si manifesti attraverso la predisposizione delle regole per mezzo delle quali l’attività giuridica può essere svolta. Dette regole, che delineano la struttura generale di ogni negozio, sono necessariamente predeterminate e devono essere ubbidite da tutti i consociati. Più concretamente, non è il negozio ad essere inventato dai privati, ma è la regola che viene inventata dai privati ed è a questa regola che bisogna guardare ove si affronti un discorso incentrato sull’autonomia dei privati. Autonomia negoziale, allora, significa possibilità per i consociati di dar vita a delle regole peculiari per la regolazione del loro assetto di interessi, mercè l’osservanza di principi generali in ordine alla formazione ed alla manifestazione della loro volontà di agire.
Una volta acclarato che l’autonomia negoziale non è nella posizione della struttura bensì nella formazione della regola, deve dirsi che questa volontà può intanto essere manifestata non solo dai privati, ma anche dal legislatore, specie ove si tratti di soddisfare o tutelare interessi facenti capo alla collettività, attraverso la predisposizione di regole che vengono imposte ai privati, mediante strumenti anch’essi privatistici, nei loro commerci giuridici anche se da essi non volute. Si pensi, ad esempio, al contratto di locazione: esso è certamente frutto della volontà privata, tuttavia, se si considerano, per un momento, i rilevanti interessi in gioco (tra i quali, l’esigenza di assicurare un’abitazione a condizioni accessibili a tutti), che riguardano da vicino delicati equilibri dei rapporti sociali, si comprende perché la legge interviene direttamente fissando talune delle regole che le parti devono rispettare (specie per quanto riguarda la durata del rapporto). Questa circostanza, però, non deve far pensare che nei casi in cui la legge detti delle regole dell’attività giuridica, venga meno l’autonomia negoziale dei privati. La volontà privata, infatti, costituisce pur sempre il centro motore della vicenda giuridica, tanto che ove risulti viziata ovvero simulata incide sulla validità del negozio o sulla sua efficacia. Essa, inoltre, forgia la regola in tutti quegli aspetti che non sono predeterminati attraverso norme imperative ed anzi, ove le regole legislative siano derogabili, è anche possibile che le regole dettate dai privati per un più conveniente assetto dei loro interessi possano prevalere sulle stesse.
Ciò implica che volontà negoziale dei privati e volontà della legge sono in un costante rapporto dialettico, poiché la legge fissa gli schemi che i privati devono osservare per dar vita a quelle regole usate per conferire ad un contrapposto volume di interessi una sistemazione definitiva ovvero detta le regole che sovrintendono alla creazione della struttura negoziale. Disegnati i confini entro i quali muoversi ed agire, i privati possono, avvalendosi dei mezzi e degli ambiti di autonomia fissati dal legislatore, dar vita alla regola considerata più opportuna per la composizione dei loro contrapposti interessi.
Il discorso è diverso per gli atti giuridici in senso stretto. Come anticipato sopra, in questo caso non si registra alcun momento dialettico tra la volontà della legge e la volontà dei privati, alla quale non viene assegnato un ruolo partecipativo, sia in ordine alla posizione di struttura sia con riguardo alla elaborazione della regola. Infatti, l’intento del soggetto non penetra nella disciplina dell’atto, non la modella né la condiziona, risolvendosi, a differenza di un atto negoziale, come un mero presupposto degli effetti previsti dalla legge. Questo è il motivo per il quale l’atto giuridico in senso stretto è sempre tipico, dovendo rispondere in ogni occasione allo schema predisposto dalla legge, sia come struttura sia come effetti, mentre il negozio giuridico, se anche risulta condizionato dalla disciplina legale dal punto di vista del suo procedimento di formazione, viene assunto nel suo valore di regola, cioè di autoregolamento impegnativo voluto dalle parti al fine di perseguire interessi meritevoli di tutela.
Considerato sotto la particolare ottica quale strumento per mezzo del quale comporre interessi, il negozio giuridico si pone come atto dispositivo, cioè come un atto con cui le parti dispongono di una data situazione giuridica, predeterminandone, nella misura consentita, gli effetti. Viceversa, l’atto giuridico in senso stretto non è mai dispositivo, poiché con il suo compimento i soggetti non dispongono di alcunchè. Così, ad esempio, la promessa di matrimonio è un atto in senso stretto dal momento che le parti non attuano alcuna disposizione di interessi, specie per quanto riguarda il contrarrre matrimonio. L’art. 79 c.c. esclude, infatti, che le parti, pur se intendevano diversamente, siano obbligate in questo senso e, ove il matrimonio non segua, nasce esclusivamente l’obbligo di risarcire il danno (art. 81 c.c.), ma non come conseguenza dell’inadempimento della promessa bensì per effetto di un dato comportamento tenuto in precedenza. Ne deriva che la promessa non vincola sul piano dispositivo, ma solo sul piano delle conseguenze fissate dalla legge per il caso di recesso di una delle parti.
Un altro aspetto che conviene sottolineare concerne la difficoltà di inquadrare un atto nell’ambito della categoria degli atti giuridici in senso stretto ovvero in quella negoziale. Molto spesso, infatti, un atto si presta ad essere considerato sia nell’uno che nell’altro caso a seconda del contesto in cui esso viene preso in considerazione. Così, ad esempio, si ritiene che l’intimazione della licenza di sfratto (con cui il locatore notifica al conduttore la propria volontà di riavere per sé il godimento dell’immobile, invitando il conduttore stesso a restituirlo) sia un atto negoziale qualora si disponga del rapporto locativo, facendolo venire meno quando è ancora pendente (così avviene quando si intima la licenza per finita locazione in ordine ad un contratto che non è ancora scaduto ex art. 657 c.p.c. ovvero quando il conduttore non paga i canoni e viene costituito in mora, intimandogli, in tal caso, ex art. 658 c.p.c., lo sfratto per morosità), ma viene in rilievo in termini di atto giuridico in senso stretto ove il contratto sia già scaduto, escludendone la tacita rinnovazione (art. 657, comma 2, c.p.c.), poiché non si dispone di alcunchè.
Questo esempio è utile per comprendere come la negozialità di un atto possa essere affermata con certezza solo in presenza di un accordo tra due o più parti – tale è non solo il contratto, ma anche il matrimonio. Se, invece, l’atto è unilaterale, i dubbi permangono se esso rientra in uno schema tipico mentre nell’ipotesi di un atto atipico la negozialità sarebbe insita nel fatto stesso della creazione dell’atto, essendo quella di dar vita a negozi atipici la massima espressione di libertà dell’autonomia privata.
Un’altra questione da affrontare concerne la disciplina dell’atto non negoziale. Ci si chiede, infatti, quale regime debba essere applicato per gli atti giuridici in senso stretto, non esistendo, come per i contratti e, più in generale, per il negozio giuridico, un riferimento normativo. Il codice civile si occupa di questo problema esclusivamente per gli atti unilaterali di contenuto patrimoniale, per i quali l’art. 1324 c.c. opera un rinvio alla disciplina generale del contratto. Nulla viene specificato per gli atti non patrimoniali, per i quali pare eccessivo richiamare in toto la disciplina dettata per i negozi giuridici. Una soluzione potrebbe, allora, essere trovata facendo ricorso all’analogia. Così, ad esempio, ove venga in rilievo un atto che può essere compiuto per il tramite di un rappresentante può richiamarsi l’art. 1399 c.c., secondo cui qualora un soggetto abbia contrattato senza averne il potere, il contratto può essere ratificato dall’interessato, con osservanza delle forme richieste per la sua conclusione. Non può applicarsi, invece, l’art. 1392 c.c., attesa l’eccezionalità della forma vincolata relativa alla procura.
In ordine alla consapevolezza, al pari degli atti leciti, la legge richiede per essi solo la capacità di intendere e di volere, salvo taluni casi (ad esempio: artt. 81, 250, comma 5, 2731 c.c.). Per quanto riguarda, invece, i vizi della volontà, taluni estendono analogicamente agli atti giuridici in senso stretto la disciplina dei negozi giuridici, altri adottano una soluzione differente a seconda dei casi. Va, peraltro, osservato che la legge, talvolta, detta regole specifiche; così, ad esempio, in ordine al riconoscimento del figlio naturale è possibile solo l’impugnativa per violenza (art. 265 c.c.) o per difetto di veridicità (art. 263 c.c.). La confessione è impugnabile, invece, solo per errore di fatto o per violenza (art. 2732 c.c.).
La dottrina del negozio giuridico cominciò a svilupparsi intorno alla fine del secolo XXVIII, come principale espressione della libertà patrimoniale dei privati, ma trovò una compiuta espressione solo nella seconda metà del secolo XXIX in Germania. Era quella l’epoca della formazione dei grandi diritti nazionali, ormai staccati dal diritto comune ed orientati ad affidare alle codificazioni il regime dei rapporti privati. Inoltre, per la prima volta, si prese atto che il diritto romano non costituiva più un sistema organico di norme vigenti, ma un ordinamento storico non più in vigore, ormai destinato a lasciare lo spazio al diritto positivo, alla cui ricognizione gli studiosi iniziarono a dedicarsi. Ciò, peraltro, diede vita ad una contrapposizione, non solo sul piano degli studi, ma anche di impegno e vocazione, tra coloro che non persero di vista gli insegnamenti dei classici e coloro che, al contrario impiegarono le loro energie nell’approfondimento del diritto vigente. Da questo contrasto seppero trarre preziosa linfa coloro che, non mancando di assegnare all’uno e all’altro ambito di attività la giusta attenzione, furono in grado di svolgere, con eguale competenza ed acutezza, la ricerca del passato e il disegno del nuovo sistema.
Nonostante il contrasto tra le opposte scuole – quella del diritto naturale incentrata sul primato della ragione e quella della scuola storica, che rivalutava lo spirito popolare – divise sia sull’origine che sulla funzione del diritto – palese appariva il riconoscimento in capo al privato del potere di creare diritto, al pari, sebbene con differente ambito ed efficacia, del legislatore nazionale. Questo potere, di diretta discendenza dei mutamenti nella struttura sociale seguiti alla rivoluzione francese, si poneva come la determinazione più ovvia della libertà del volere, ormai penetrata stabilmente nella concezione degli studiosi e degli stessi governanti. Abbattuto il regime aristocratico ed affermato il principio fondamentale per cui tutti sono uguali, si affermò il concetto di autodeterminazione e del potere riconosciuto ad ogni individuo di regolare da se la propria sfera di interessi, creando egli stesso la regola che li avrebbe disciplinati, regola, che, a seconda dei casi, avrebbe trovato il conforto e la tutela dell’ordinamento giuridico.
Riconosciuta alla volontà il ruolo di centro motore dell’intero sistema dei rapporti privati, divenne naturale, presso gli autori di ogni formazione intellettuale, la definizione di negozio giuridico come “dichiarazione di volontà”. Questa volontà doveva, però, essere orientata verso il raggiungimento di uno scopo garantito dalla legge, ponendosi il problema (peraltro, ancora attuale) del rapporto tra il volere del singolo e l’ordinamento generale della comunità. Se, infatti, lo Stato si impegnava a riconoscere e tutelare la libertà dei privati di regolare da se i propri interessi e di perseguire i propri scopi, attraverso la elebarazione di una regola nuova che avrebbe avuto vigore solo tra le parti del rapporto, tanto lo scopo quanto la regola stessa dovevano rispondere ad un canone circoscritto dalle regole generali, a loro volta determinate per il soddisfacimento di fini generali della collettività. Palese appariva, infatti, come questo potere riconosciuto ai privati, qualora fosse stato attribuito senza preoccuparsi di frapporre dei limiti alla sua espressione, ben avrebbe potuto contrastare con gli interessi collettivi, che l’ordinamento giuridico si impegnava a tutelare in egual misura, creando e rafforzando il nuovo equilibrio in via di consolidazione tra le diverse classi espressione del nuovo tipo di società, nata dalle ceneri della rivoluzione.
Almeno all’inizio, però, l’espressione “dichiarazione di volontà” venne interpretata nel senso di attribuire peso decisivo al contenuto del volere, poco curandosi del modo in cui essa sarebbe stata manifestata all’esterno, trascurando il momento della dichiarazione. E, d’altra parte, questo non deve stupire più di tanto se si considera che i tempi in cui la dottrina del negozio giuridico muoveva i primi passi risultavano caratterizzati dalla considerazione come una grande conquista il riconoscimento della libertà del volere, che per la prima volta riceveva consensi, approvazione e tutela da parte dell’ordinamento giuridico.
Con il tempo, però, e, soprattutto, con l’incremento dei traffici e delle operazioni tra gli operatori nell’ambito del commercio, ci si rese conto che anche il profilo della dichiarazione poteva apparire meritevole di una maggiore attenzione. Lo sviluppo del mercato, i successivi mutamenti della realtà economica, il rapido passaggio da una economia fondata su un ristretto mercato ad una economia quasi globale, rese indispensabile rivedere i dettami fondamentali intorno ai quali il negozio giuridico era stato originariamente ideato.
Ciò posto, soprattutto in base alla riflessione sul contratto – vale a dire l’atto di autonomia privata di maggiore rilevanza, che ha sempre dominato il discorso sull’autonomia negoziale – prevalse la considerazione dell’oggettivo significato o valore della dichiarazione, in specie sotto il peculiare aspetto di come essa veniva accolta ed interpretata dal destinatario, per come cioè quest’ultimo era in grado di intenderla. Furono, dunque, le necessità del primo capitalismo della società industriale a favorire la nascita di una posizione mentale nuova.
Spostata l’attenzione dal contenuto del volere a quella della dichiarazione, si richimava l’autore del negozio alla responsabilità – o, per meglio dire, all’autoresponsabilità – derivante dall’avere posto in essere il negozio, anzi per il solo fatto di avere partecipato al commercio giuridico. Dalla nuova considerazione per il modo in cui l’atto veniva manifestato all’esterno e delle conseguenze che ne derivavano per la sfera giuridica dei destinatari, emerse un altro profilo di rilevante importanza nel cammino della evoluzione del negozio giuridico: vale a dire, la “tutela degli affidamenti”, essendo abbastanza evidenti le disfunzioni cui sarebbe andato incontro il mercato e lo stesso meccanismo dei traffici, qualora l’affidamento ingenerato in un soggetto per la validità di una dichiarazione venisse in un secondo momento tradito.
Come poc’anzi illustrato, il trascorrere dalla teoria della volontà a quella della dichiarazione venne determinato dalla mutata struttura dei rapporti di affari. Questi ultimi, infatti, crescendo di intensità e di numero, rendevano indifferente la figura dell’occasionale contraente di fronte agli operatori economici ed irrilevanti le condizioni di inferiorità psicologica ed intellettuale o sociale (in specie, la paura, il bisogno, la sprovvedutezza o la falsa rappresentazione delle circostanze attuali e di quelle future) in cui il contraente poteva trovarsi. Ne derivò l’abbandono per una concezione solo individualistica del diritto a favore di una cognizione incentrata, essenzialmente, sulla solidarietà e sulla collaborazione, benchè pare opportuno precisare come questo tipo di evoluzione, piuttosto che sollecitare o provocare le costruzioni rese intorno al concetto di negozio giuridico, servì invece a far rivestire esse di dignità e coerenza.
Con il tempo si delineò una ulteriore evoluzione del modo in cui il concetto di negozio giuridico poteva essere inteso. La classica definizione come “dichiarazione di volontà”, sia nel senso di dare peso al contenuto del volere, sia nel senso di richiamare la tutela dell’affidamento altrui ingenerato dal modo attraverso il quale la volontà veniva manifestata, era apparsa insufficiente, poiché, spesso, si avvertiva la difficoltà di specificare in cosa essa effettivamente si delineava. Si rendeva, allora, necessario procedere ad una complessa operazione di ricerca di indole psicologica al fine di arrivare alle radici del volere, con il serio rischio di innescare una reazione a catena, favorente il riemergere in termini aggiornati di un “pericoloso formalismo”, tale da rendere vincolante il negozio per il solo fatto esteriore della dichiarazione.
Nel tentativo di porre rimedio a questa perigliosa deriva, si affermò la c.d. teoria precettiva, per la quale assumeva decisiva rilevanza la natura di comando, che i negozi giuridici assumevano per la condotta dell’autore o degli autori, oltre a quella dei destinatari, nei limiti in cui la legge consentiva ad essi di incidere nella sfera giuridica dei terzi. Della nuova impostazione di pensiero vennero formulate diverse interpretazioni, poichè anche se le espressioni “precetto” o “comando” sono state ripetute, apparentemente, in termini similari, nel corso degli anni sono state fornite – e il fenomeno non accenna a diminuire – toni e significati diversi.
Agli albori della formulazione della teoria in esame, il negozio giuridico o, per meglio dire, la stessa autonomia dei privati, sotto il delicato profilo della creazione della regola, si poneva in strettissima relazione con l’ordinamento giuridico, riflettendone una matrice spiccatamente ispirata alla logica del positivismo giuridico. La regola, generata attraverso il negozio, diveniva vincolante per l’autore e, ove consentito, per i terzi, attraverso la mediazione, se non addirittura l’assorbimento definitivo nell’ordinamento generale dello Stato. Secondo questa impostazione, quindi, i privati davano vita ad un precetto, il quale acquistava natura di un impegno vincolante solo perché una legge statuale ciò specificava e a ciò obbligava.
Questa costruzione era influenzata, essenzialmente, dalla visione tradizionale dell’autonomia dei privati come forma di concessione del potere centrale, che ne circoscriveva entro un ambito più o meno delimitato, i suoi confini e la sua efficacia. I privati divenivano, quindi, essi stessi non legislatori del caso concreto, attraverso la creazione di una regola valida solo per essi e per i loro destinatari, ma meri “suggeritori” di una data disciplina di regolazione di un assetto di interessi, che intanto veniva tutelato dalla legge in quanto risultava apprezzabile e meritevole di essere protetto e sempre che non si ponesse in contrasto con altri interessi privati e, in particolare, con il supremo interesse pubblico.
Con il trascorrere del tempo e con l’evoluzione del pensiero giuridico, questa impostazione del negozio è stata integrata da altri elementi, che precedentemente non erano stati ritenuti meritevoli di attenzione. Sono stati, così, sottolineati gli aspetti sociali del fenomeno, che ne precedono sia il riconoscimento sia la sanzione nel diritto, mentre, da un altro angolo visuale, viene richiamato l’inquadramento dell’attività dei privati, sia in forma individuale che in forma collettiva, nella c.d. pluralità degli ordinamenti.
La ricostruzione della vicenda evolutiva del negozio giuridico dimostra come, al pari di altri termini e concetti del mondo del diritto, esso sia suscettibile dei mutamenti intervenuti nel comparto sociale e di come il concetto stesso di negozio sia un concetto, per sua natura, relativo, suscettivo di essere delineato in base alle espressioni dei bisogni dell’essere umano. Come accennato poc’anzi, anche oggi il fenomeno è abbastanza attuale e non sono poche le definizioni che si son cercate di dare del fondamento dell’autonomia dei privati.
Così, ad esempio, gli autori più moderni sono attenti nel ricercare e nel mettere in evidenza gli aspetti sociali del negozio, favorendo la considerazione del fenomeno in termini di stretta rilevanza oggettiva. Secondo i sostenitori di questa impostazione, al centro dell’attenzione non può porsi una entità indefinibile ed inattaccabile come la volontà (che, come abbiamo visto, appariva basilare per i fautori della teoria della soggettiva della volontà), né, tanto meno la sua esteriorizzazione in una dichiarazione (secondo i fautori della teoria dichiarazione), bensì il fatto sociale del negozio, ovvero la sua rilevanza oggettiva. Secondo Bianca, questo fenomeno viene identificato, dal punto di vista normativo, nella disposizione con la quale il soggetto regola da sé i propri interessi in rapporto ad altri, secondo una logica di autoregolamento. Corollari indefettibili di questa costruzione sono, da un lato, il comportamento e, dall’altro, la sua imputabilità agli autori del negozio. Con ciò non si vuol, però, affermare che la volontà e la ricerca del suo effettivo, reale contenuto non appaiano in quale modo rilevanti. Invero, la ricerca dell’intenzione del volere appartiene, più propriamente, al piano della interpretazione del comportamento.
Ne deriva un capovolgimento della impostazione classica del negozio. Non più, dunque, un assetto che pone la volontà dell’individuo come centro motore dell’intera vicenda, bensì analisi di un fatto posto in essere dall’uomo, meritevole di attenzione e protezione da parte dell’ordinamento giuridico e produttivo, nei limiti stabiliti dalla legge, di determinati effetti. Ciò che il soggetto autore intende volere sarà rilevante in un secondo momento, quando si tratterà di precisare meglio i confini della regola da lui posta in essere, attraverso l’analisi del suo comportamento, come indizio per giungere alla conoscenza del suo intimo volere.
 Dott. Luigi Carfora
  

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[1] Nei luoghi in cui tuttora è consevato il sistema tavolare, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali sui beni immobili non si acquistano per atto tra vivi se non con la iscrizione del diritto nel libro fondiario (art. 2, regio decreto n. 499/1929).

Carfora Luigi

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