Nel tentativo di risolvere i profondi contrasti giurisprudenziali sulla nozione di infermità di mente, le Sezioni Unite hanno fissato il principio di diritto, secondo il quale
«ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di “infermità” anche i “gravi disturbi della personalità”, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa».
Secondo le Sezioni Unite, quindi, nessun dubbio permane sulla circostanza che anche i disturbi della personalità possano incidere sulla capacità di intendere e di volere.
Ma perché ciò abbia una qualche rilevanza giuridica ancorano il giudizio sull’esclusione dell’imputabilità derivante da vizio di mente a due presupposti.
In primo luogo occorre che i disturbi della personalità siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere. Dunque, un disturbo idoneo a provocare nel soggetto agente una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che lo rende incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, in una parola di autodeterminarsi. Ai fini di tale accertamento il giudice dovrà procedere avvalendosi, oltre che di una indispensabile consulenza tecnica, di ogni elemento di valutazione e giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali.
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In secondo luogo occorre, secondo la Cassazione, che il giudice, nell’accertare il fatto trovi la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale stesso. Risulta cioè necessario, perché si possa parlare di infermità di mente e di esclusione di capacità di intendere e
volere, che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso
eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.
E’, però, una frase contenuta nella sentenza della Sezioni Unite a racchiudere il senso del nuovo orientamento giurisprudenziale:
«Se un tempo si affermava che non tutte le malattie in senso clinico avessero valore di malattia in senso forense, oggi si pone soprattutto l’accento sul fatto che, viceversa, vi possono essere situazioni clinicamente non rilevanti o classificate che in ambito forense assumono valore di malattia in quanto possono inquinare le facoltà cognitive e di scelta».
Secondo il Giudice di Legittimità:
«..a conferma della maggiore ampiezza del termine di infermità rispetto a quello di malattia, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo».
Questo orientamento comporta la crisi del criterio della ritenuta necessaria sussumibilità dell’anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche lasciando contemporaneamente aperta la porta, ai fini del giudizio circa la configurabilità o meno del vizio di mente, sia esso totale o parziale, al concetto di disturbo della personalità.
Ora che anche i disturbi di personalità vengono considerati rilevanti ai fini della valutazione dell’imputabilità, probabilmente la nomina del perito ai fini della valutazione della capacità di intendere e volere dell’imputato vedrà come protagonista, accanto allo psichiatra, anche l’esperto psicologo, più adatto dello psichiatra a valutare se il disturbo della personalità del presunto reo sia così grave ed intenso da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, in relazione con la specifica azione criminosa (Paolo Della Noce, cit., 2004).
In Italia è richiesto non solo il riconoscimento dell’infermità, ma anche l’apprezzamento di come questa interagisca psicologicamente nel compromettere in misura più o meno cogente, la capacità di intendere e di volere. Oggi, in un’ottica responsabilizzatrice, la psichiatria sembra aver raggiunto un approdo: la necessarietà della valutazione della maggiore o minor conservazione dell’integrità dell’Io. Qualora sia possibile ravvisare la non globale destrutturazione della personalità, si può ammettere che residui uno spazio sufficiente per una scelta volontaria e consapevole.
La definizione che il Giudice deve dare del concetto di imputabilità deve avvenire, nonostante la presenza di una pluralità di paradigmi, attraverso la valorizzazione delle più aggiornate acquisizioni scientifiche (le Sezioni Uniti nel 2005 parlano a tal proposito di “necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza”), e quindi in definitiva, in tema di cause di esclusione dell’imputabilità, vanno ricomprese le nevrosi, le psicopatie ed in generale i disturbi della personalità.
Più in avanti, l’orientamento della Cassazione a Sezioni Unite trova conferma in un ulteriore più recente asserto (Cass. Pen., Sez. V, n. 8282 del 9 febbraio 2006) in cui i giudici di legittimità affermano che il disturbo antisociale della personalità può rientrare nella nozione di infermità e può incidere, escludendola o scemandola grandemente, sulla capacità di intendere e di volere.
Nella sentenza di legittimità n. 43285 del 2009 (confermata anche da sentenza degli Ermellini del Supremo Collegio n. 24535 del 2012) l’accento è posto ancora sulla consistenza, sull’intensità e sulla gravità che devono contraddistinguere il disturbo di personalità per l’applicazione degli artt. 88 e 89 c.p. (vizio totale e vizio parziale di mente); la sentenza n. 2774 sempre del 2009 definisce le peculiarità dello stato psichico incolpevolmente incontrollabile del soggetto che, di conseguenza, non può gestire le proprie azioni e non ne percepisce il disvalore.
La terza Sezione della Suprema Corte torna a parlare di disturbi della personalità e imputabilità con la sentenza n.17608 del 17 aprile 2013, che vede coinvolto un bambino, vittima di abusi sessuali in presenza della madre, ritenuta -secondo la difesa- parzialmente incapace. Così si pronuncia:
«Non può affermarsi in termini assolutistici che il disturbo di personalità ex se sia inidoneo ad integrare l’ipotesi della incapacità di intendere e di volere: l’esclusione di tale status, se non accompagnata da una vera propria patologia o infermità, abbisogna di una specificazione in merito alla portata di quella infermità che non necessariamente deve consistere in una patologia di tipo mentale o intellettivo-cognitivo, potendo discendere anche da altre forme morbose che possono incidere sul piano della capacità di intendere e di volere. Ne deriva la necessità, per il giudice di merito, laddove investito di una questione che involge comunque un disturbo caratteriale o relazionale di una determinata persona imputata (o imputabile) di accertare funditus se tale anomalia abbia un qualche collegamento con una situazione di malattia tale da compromettere la capacità intellettiva e volitiva del soggetto, esigenza tanto più insopprimibile, se riscontrata da dati clinici ricavabili ex actis o, comunque, da elementi tali da determinare una necessità di approfondimento specifico».
Avv. Maria Sabina Lembo
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