ABSTRACT
La ragione di differenti modelli di amministrazione trova la propria spiegazione nel complesso rapporto intercorrente tra la politica e l’amministrazione che, da una canto postula, (per il principio di democraticità), il mantenimento di un collegamento dell’attività amministrativa al potere di direzione politica e di controllo delle istituzioni rappresentative del corpo elettorale; dall’altro rende necessario garantire l’imparzialità della p.a. al fine di evitare favoritismi e discriminazioni dovuti all’appartenenza politica dei cittadini.
L’attuale modello normativo sembra tendere ad una separazione tra politica ed amministrazione, basata sull’attribuzione del potere di indirizzo politico-amministrativo al Governo e della gestione amministrativa ai vertici dirigenziali della p.a. Tuttavia, le tuttora esistenti ipotesi di spoil system fanno propendere per una attenuazione del principio di separazione tra politica ed amministrazione.
Con queste brevi note si intende fare il punto sulle più interessanti posizioni che la giurisprudenza amministrativa e la dottrina hanno manifestato nella materia in esame.
Gli atti di alta amministrazione si configurano come una speciale categoria di atti amministrativi, la cui peculiarità risiede nella funzione di collegamento tra indirizzo politico, di competenza dello Stato-comunità, e l’attività amministrativa in senso stretto, di pertinenza dello Stato-amministrazione.
La loro posizione è dunque intermedia tra gli atti di scelta dei fini da perseguire, ossia gli atti politici, e gli atti con i quali si attuano tali scelte, ossia gli atti amministrativi in senso stretto.
In sostanza, dunque, gli atti di alta amministrazione attengono alle scelte di fondo dell’attività amministrativa e costituiscono manifestazioni di impulso all’adozione di atti amministrativi funzionali all’attuazione dei fini della legge.
Il fondamento normativo di tali atti può rinvenirsi già in disposizioni antecedenti l’entrata in vigore della Costituzione. Infatti, l’art. 1 del R.D. 466/1901 riservava la competenza in materia di alta amministrazione al Consiglio dei ministri, con la partecipazione collegiale di tutti i componenti del Consiglio allo svolgimento dell’attività.
Successivamente, la Costituzione, all’art.95, ha attribuito al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di assicurare l’unità dell’indirizzo amministrativo.
In attuazione di tale norma, la L.400 del 1988, sull’ordinamento della presidenza del Consiglio dei ministri, indica il consiglio dei ministri quale organo competente a fissare l’indirizzo generale dell’azione amministrativa, conferendo al Presidente del Consiglio dei ministri il potere di impartire le relative direttive.
Da queste disposizioni si ricava, quale principio di carattere generale, che il potere di alta amministrazione è attribuito ai vertici dell’amministrazione statale.
Gli atti in parola si caratterizzano inoltre per il contenuto altamente discrezionale.
Nonostante la peculiarità della funzione svolta da questi atti, di raccordo tra gli atti di indirizzo politico e gli atti amministrativi, gli stessi restano pur sempre soggetti alla disciplina degli atti amministrativi. Per questo, essi devono essere emanati sulla base di un’adeguata conoscenza della situazione di fatto, evidenziando le ragioni che hanno condotto alla loro assunzione.
In particolare, al pari degli altri atti amministrativi, gli atti de quo necessitano di adeguata motivazione.
L’obbligo di motivazione, che in passato era stato da alcuni escluso sulla base del carattere discrezionale di questi atti, trova oggi conferma nella previsione generale di cui all’art. 3 della L.241/90, che esclude dall’osservanza dell’obbligo i soli atti normativi e generali.
Tali caratteristiche degli atti di alta amministrazione hanno indotto parte della dottrina a negare validità sistematica ad una classificazione autonoma degli atti de quibus rispetto agli atti amministrativi ordinari.
Tale tesi va tuttavia incontro a delle obiezioni.
In primo luogo, c’è il dato testuale dell’art.95 della Costituzione, il quale prevede espressamente la funzione di alta amministrazione. In secondo luogo, negli ultimi anni si è registrata un’evoluzione dell’organizzazione amministrativa da una struttura tipicamente piramidale, in cui gli enti pubblici erano per lo più sotto l’influenza dei ministeri vigilanti, ad una struttura maggiormente decentrata. In tale ottica devono ad esempio essere considerate le autorità amministrative indipendenti, cui vengono affidate funzioni di regolazione, controllo e vigilanza di settori fondamentali dell’economia, e che si collocano in una posizione di imparzialità e indipendenza rispetto al Governo e alla PA in generale.
Rispetto all’operato di tali autorità, gli atti di alta amministrazione esplicano la loro funzione di coordinamento tra gli obiettivi fissati dalla politica e la loro realizzazione concreta.
Tra i principali provvedimenti di alta amministrazione si annoverano l’emanazione dei regolamenti, gli atti di nomina e di revoca dei più alti funzionari dello Stato e dei massimi dirigenti di alcuni enti pubblici, le decisioni dei comitati interministeriali, le decisioni dei ricorsi straordinari assunte in contrasto con il parere del Consiglio di Stato, le decisioni con cui il Consiglio dei ministri risolve i conflitti di competenza.
Ipotesi controversa è invece quella dell’annullamento governativo di atti amministrativi illegittimi.
Il potere è previsto dall’art.2 comma 3 lett.p della legge 400 del 1988 in via generale, e, per quanto riguarda gli atti degli enti locali, dall’art.138 del D.Lgs. 267del 2000.
Sulla natura giuridica di tale atto si è registrata una disputa dottrinale: infatti, si è indifferentemente qualificato come atto di autotutela della PA, come atto di controllo o come atto di alta amministrazione.
La corte Costituzionale, in particolare, ha ritenuto trattarsi di un atto di controllo, sulla base del rilievo secondo cui il potere è attribuito ad un soggetto diverso da quello che ha emanato l’atto, ed inoltre perché oggetto di valutazione sarebbe la legittimità dell’atto stesso.
La tesi favorevole alla qualificazione di questo atto in termini di atto di alta amministrazione fa invece leva sulla discrezionalità dell’intervento governativo e sull’assenza di sbarramenti temporali al suo esercizio.
Dalla riconducibilità degli atti di alta amministrazione nella più ampia categoria degli atti amministrativi discende poi la loro assoggettabilità ai normali mezzi di tutela per questi previsti.
In concreto, però, si deve osservare che tali atti presentano un contenuto piuttosto generico, trattandosi di atti di indirizzo o di programmazione, quindi difficilmente vanno ad incidere in modo diretto su situazioni giuridiche dei destinatari.
Pertanto, almeno nella maggioranza dei casi, sarà consentita l’impugnazione solo degli atti esecutivi degli atti di alta amministrazione, dinanzi al giudice amministrativo.
Fanno eccezione gli atti di nomina e di revoca di cariche dirigenziali, che si ritiene abbiano un contenuto abbastanza puntuale, tale da arrecare pregiudizio a situazioni giuridiche individuali.
Di ancor più difficile configurazione appare la possibilità di impugnare tali atti dinanzi al giudice ordinario, trattandosi di atti a carattere ampiamente discrezionale, e quindi inidonei a ledere in via diretta situazioni di diritto soggettivo perfetto.
Con riferimento ai ricorsi amministrativi, è sicuramente da escludere il ricorso gerarchico, proponibile avverso atti emanati da organi in posizione di subordinazione rispetto ad altri, laddove invece gli atti di alta amministrazione sono emanati da organi di vertice della PA, come tali superiorem non recognoscentes.
Potrà invece essere proposto il ricorso straordinario al capo dello Stato, trattandosi si rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale.
Gli atti di alta amministrazione vanno distinti dagli atti politici.
La distinzione è di particolare rilievo in quanto costituisce il riflesso della distinzione tra politica e amministrazione, consacrata dall’art. 97 della Costituzione e confermata poi, a livello di legge ordinaria, dalla normativa sulla dirigenza pubblica, di cui al D.lgs. 165/2001.(1)
Tale normativa esclude infatti che gli organi di vertice delle pubbliche amministrazioni siano espressione delle forze politiche, ammettendo solo, da parte di questi ultimi, la prefissione di obiettivi e la conseguente verifica dei risultati.
La distinzione risulta essere invece più attenuata nell’ambito del meccanismo dello spoil system, così come disciplinato dall’art. 19 del D.lgs. 165/2001 e dall’art. 6 della L. 145/2002, nonché da alcuni ordinamenti regionali.
Il meccanismo pone uno stretto vincolo fiduciario tra organo politico e alcuni organi di vertice espressamente menzionati, di tal che tali incarichi cessano decorso un certo lasso di tempo dal voto di fiducia al nuovo governo, e devono essere confermati o revocati.
Dalla disciplina normativa si desume che gli incarichi de quibus vengono affidati intuitu personae, e non sulla base di rigidi meccanismi valutativi.
Con riferimento a tale tipologia di atti, la dottrina ha individuato due criteri discretivi, l’uno di carattere soggettivo, l’atro di carattere oggettivo.(2)
Il primo criterio qualifica l’atto in base al tipo di organo che lo emana, a seconda che si tratti di organo costituzionale o costituzionalmente rilevante. Tuttavia, il criterio non appare del tutto conferente, atteso che spesso organi politici svolgono anche funzioni di alta amministrazione.(3)
Il criterio oggettivo si basa invece sulla diversa natura degli interessi curati dai due tipi di atti. L’atto politico realizzerebbe una sintesi di tutti gli interessi della collettività, mentre l’atto di alta amministrazione sarebbe caratterizzato dalla settorialità degli interessi presi in considerazione dall’organo emanante.(4)
Funzione precipua degli atti politici è quella di esprimere l’indirizzo politico, esercitando altresì un’attività di controllo e coordinamento delle singole manifestazioni in cui tale indirizzo si esplica.
Essi sono pertanto espressione del potere politico dello Stato.
Occorre tuttavia dare atto delle teorie più datate in materia, inclini a collocare l’atto politico nell’ambito del potere amministrativo.
Si tratta delle teorie sulla causa oggettiva o sul fine dell’atto politico, che fanno discendere dalla finalità di tutela di interessi supremi dello Stato perseguita da tali atti, la loro qualificazione in termini di atti amministrativi.(5)
La politicità dell’atto si desume da due requisiti, l’uno di carattere soggettivo, consistente nel fatto che l’atto deve provenire da Autorità cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica, l’altro di carattere oggettivo, consistente nella necessità che l’atto sia emanato nell’esercizio di un potere politico, e non meramente amministrativo.
Sotto il primo profilo, si distinguono atti di indirizzo politico costituzionale, posti in essere da organi statali super partes, preposti a garantire l’osservanza della Costituzione, e atti politici di maggioranza, posti in essere da organismi statali espressione della sovranità.
Rientrano nel primo gruppo gli atti emanati dal Presidente della Repubblica, quali l’indizione delle elezioni politiche, i messaggi alle camere, la nomina dei senatori a vita e dei giudici della Corte Costituzionale. Secondo un orientamento non pacifico, poi, rientrerebbero in questa categoria anche le sentenze della Corte Costituzionale, in quanto, incidendo sulla vigenza delle leggi, sarebbero in grado di esprimere un indirizzo politico.
Appartengono invece al secondo gruppo gli atti emanati dal Parlamento, quali l’approvazione delle leggi, l’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale, nonché dal Governo e dal corpo elettorale.
Sotto il profilo oggettivo, gli atti politici si distinguono in base al loro contenuto e ai loro effetti, classificandosi in atti aventi forza di legge, atti aventi forza giurisdizionale e atti aventi contenuto formalmente amministrativo.
Fra i primi rientrano la legge e atti equiparati. Fra i secondi si collocano le sentenze e le ordinanze della Corte Costituzionale, in quanto idonee ad esprimere un indirizzo politico. Nella terza categoria rientrano invece gli atti amministrativi emanati da organi di vertice dell’apparato amministrativo, aventi carattere formalmente amministrativo, ma sostanzialmente politico, in quanto non mirano alla cura concreta degli interessi pubblici, quanto piuttosto alla determinazione dell’indirizzo politico generale.
Tuttavia, tale criterio di classificazione non è accolto dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che tende a qualificare come atti politici i soli atti emanati da organi del potere esecutivo.
Questi atti, una volta armonizzati con i principi costituzionali, sono fondamentalmente liberi, perché attraverso di essi vengono individuati gli obiettivi fondamentali della Pubblica Amministrazione.
Essi, pertanto, si pongono al di fuori della gerarchia delle fonti, essendo sottoposti solo al rispetto dei limiti fissati dalla costituzione. In ciò si ravvisa un’ulteriore differenza rispetto agli atti amministrativi generali, soggetti alla legge ordinaria, nonché agli stessi atti politici, per quanto riguarda l’individuazione dei fini da raggiungere.
L’obbligo di rispettare la Carta fondamentale fa sì che tali atti costituiscano un numerus clausus, e come tali siano ammissibili solo nei casi esplicitamente o implicitamente previsti dalla Costituzione.
Dalla discrezionalità e dalla libertà nella determinazione dei fini da perseguire, che caratterizza questi atti, discendono due conseguenze.
In primo luogo gli atti politici, a differenza degli atti di alta amministrazione, non necessitano di motivazione espressa.
In secondo luogo, e sempre in contrapposizione agli atti di alta amministrazione, questi atti sono sottratti al sindacato dell’autorità giurisdizionale.
Infatti, prima l’art. 31 del R.D. n. 1054 del 1924, che richiama l’art. 24 della l. 5992 del 1889, e poi l’art.7 del c.p.a., hanno escluso la ricorribilità degli atti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico.
Già la vecchia norma aveva suscitato dubbi in seguito all’entrata in vigore della Costituzione, che all’art.113 sancisce la piena tutela avverso gli atti della PA.(6) Inoltre, parte della dottrina aveva evidenziato come l’art. 31 citato non sia stato riproposto nella legge istitutiva dei TAR.
Pertanto, in un primo momento, gli interpreti hanno tentato di giustificare l’esclusione degli atti politici dal novero dell’art.113 sulla base del rilievo che la norma parrebbe riferirsi solo agli atti espressione del potere amministrativo della PA.(7)
Tuttavia, la dizione letterale dell’art.113 si riferisce in senso lato agli atti della PA e non agli atti amministrativi, quindi non fa riferimento alcuno al tipo di potere esercitato di volta in volta dalla PA.
Appare quindi prevalente la tesi che giustifica l’insindacabilità degli atti politici sulla base del carattere ampiamente discrezionale di questi atti, che non sarebbero dunque idonei a ledere alcuna situazione giuridica soggettiva dei privati. Pertanto, difetterebbe lo stesso interesse a ricorrere.
Per lo stesso motivo è da escludere l’ammissibilità del ricorso al giudice ordinario, limitato alle sole ipotesi di lesione di un diritto soggettivo.
Anche l’esperibilità dei ricorsi amministrativi avverso tali atti è esclusa. In particolare: il ricorso in opposizione non è proponibile per mancanza di una apposita previsione di legge; il ricorso gerarchico è escluso dalla posizione apicale rivestita dagli organi emananti tale tipologia di atti, il ricorso al Presidente della Repubblica è inammissibile in conseguenza della sua alternatività al ricorso giurisdizionale.
Rispetto a tali atti opera tuttavia un sistema di controlli e di sanzioni di carattere politico, di competenza del corpo elettorale e del Parlamento, i quali possono, rispettivamente, non riconfermare gli organi che abbiano posto in essere atti meritevoli di censura, ovvero esprimersi con un voto di sfiducia.
Trattandosi poi di atti a carattere legislativo, sarà proponibile l’eccezione di incostituzionalità
Il carattere dell’insindacabilità degli atti politici è stato messo in discussione dall’avvento del diritto comunitario, in particolare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia sulla responsabilità dello Stato membro per mancata attuazione del diritto comunitario, con conseguente obbligo al risarcimento del danno qualora l’inadempimento provochi la lesione di situazioni giuridiche soggettive dei singoli riconosciute a livello comunitario.
Una simile ricostruzione induce l’interprete a mettere in dubbio l’insindacabilità degli atti politici di matrice legislativa.
Tuttavia, tale principio comunitario non ha trovato unanime accoglimento nella giurisprudenza nazionale, la quale ha evidenziato da un lato il carattere discrezionale del potere politico, dall’altro l’incompatibilità dell’assunto con il modello di responsabilità fondato sull’art.2043 del codice civile.
Infatti, affinché vi sia responsabilità aquiliana, occorre il danno ingiusto, identificabile nella lesione di una situazione giuridica soggettiva, che non è ravvisabile a fronte dell’atto politico.
Queste perplessità danno conto della tendenza, emersa nella giurisprudenza, a restringere notevolmente l’ambito di operatività degli atti politici, in favore della categoria degli atti di alta amministrazione.
Ricorre infatti l’affermazione secondo cui la categoria degli atti politici, rappresentando una deroga al principio costituzionale della tutela giudiziale, deve essere definita in termini restrittivi, andando limitata ai soli atti che costituiscono espressione della fondamentale funzione di indirizzo politico.(8)
Pertanto, nel dubbio, si è soliti inquadrare l’atto che viene in esame nella categoria degli atti di alta amministrazione, sempre sindacabili in sede giurisdizionale. La tendenza ha trovato espressa conferma in alcune pronunce in materia di spoil system, nonché con riferimento all’atto di revoca della carica di assessore comunale (Cfr. ad es. Cons. Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983; Cons. St., sez. V, 21 gennaio 2009, n. 280, cit.; Cons. St., sez. V, ordinanza n. 4015 del 30 luglio 2009; Cons. St., sez. V, ordinanza n. 4378 del 27 agosto 2009; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 9 novembre 2001 n. 914).
(1) Con l’affermarsi dello Stato costituzionale si impone, infatti, da un lato, la necessità di preservare agli organi elettivi una sfera di autonomia funzionale e insindacabile, derivante dalla rappresentanza democratica; dall’altro, di garantire il rispetto della legge da parte dell’amministrazione, sottoposta, invece, al controllo giurisdizionale. Cfr. A. CERRI, voce Poteri (divisione dei), in Enc. giur., vol. XXIII, Roma 1991.
(2) Per una compiuta ricostruzione delle tesi sostenute dalla dottrina si veda E. CHELI, Atto politico e funzione d’indirizzo politico, cit., pp. 6 ss. In particolare secondo l’A., le teorie soggettive sembrano volte ad assicurare l’efficienza dell’azione governativa; l’impostazione oggettiva mira a garantire la certezza della norma e la stabilità del limite posto al controllo degli organi di giustizia amministrativa; quella storicista, infine, sembra volta ad assicurare flessibilità e adattabilità dell’atto politico alle diverse contingenze della vita costituzionale (spec. p. 38-39).
(3) In Italia sostenuta da U. FORTI, Diritto amministrativo: parte generale, Napoli 1931, vol. I, pp. 25 ss
(4) Cfr. E. CHELI, Atto politico e funzione d’indirizzo politico, cit., pp. 29 ss.;. E. GUICCIARDI, L’atto politico, in Arch. dir. pubbl. 1937, pp. 277 ss;
(5) Cfr. O. RANELLETTI, Teoria degli atti amministrativi speciali, Milano 1945, p. 49. Secondo l’A. sono politici quegli atti dettati «dalle supreme esigenze della vita dello Stato», a fronte dei quali tutte le situazioni soggettive attive nascenti dal diritto pubblico sono destinate ad essere sacrificate. Cfr. S. ROMANO, Corso di diritto amministrativo, Padova 1930, pp. 175 ss. E. PRESUTTI, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, Messina 1931, vol. III, pp. 203 ss. A. M. SANDULLI, Atto politico ed eccesso di potere, in Giur. compl. Cass. civ. 1946, XXII, pp. 517 ss. C. VITTA, Diritto amministrativo, Torino 1948, vol. I, pp. 288 ss. G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, Milano 1958, vol. II, pp. 191 ss. In giurisprudenza, cfr. Cons. St., sez. IV, 13 marzo 1942 n. 96; Cons. Stato, 14 aprile 1951 n. 362; Cons. Stato, 21 giugno 1952 n. 273; Cons. Stato, 20 febbraio 1954 n. 171; Cons. Stato 18 dicembre 1959 n. 1204.
(6) In particolare, l’art. 113 Cost. fu introdotto dall’Assemblea costituente per reagire al sistema invalso di sottrarre alla tutela giurisdizionale determinate categorie di atti: ne consegue che occorre indagare la sua estensione quando viene posto in relazione agli atti politici. Cfr. G. BERTI, Art. 113 Cost., in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, tomo IV, Bologna 1987, pp. 85 ss. S. BARTOLE, R. BIN, Art. 113 Cost., in Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, pp. 1030 ss. L. CARLASSARE, Legalità (principio di), in Enc. giur., XVIII, 1990. O. RAGOZZINO, Brevi riflessioni in tema di criteri identificativi dell’atto politico alla luce della recente giurisprudenza amministrativa, in L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, Vol. I, Napoli 2010, pp. 687 ss. A. R. TASSONE, «Atto politico» e interesse pubblico, in L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, cit, pp. 311 ss.
(7) Cfr. G. ROEHRSSEN, Ancora sull’art. 113 Cost. e l’abrogazione delle norme che limitano le impugnative, in Nuova rass. 1949, pp. 601 ss. C. CARBONE, L’atto politico e l’art. 113 Costituzione, in Rass. Avv. Stato n. 5/1950, pp. 121 ss, secondo l’A. «statuendo questa norma la tutela giurisdizionale contro gli atti della p.a., evidentemente ha inteso occuparsi degli atti rientranti nell’attività amministrativa, non di quelli della funzione di governo, la cui autonomia non permette che venga compresa in quella amministrativa».
(8) Con le parole della la Corte costituzionale: «la categoria degli atti politici, da individuare con criteri restrittivi, stante il principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 della Costituzione), include gli atti che attengono alla direzione suprema e generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali». Corte cost. n. 103/1993, Punto 2 del Considerato in diritto. Cfr. T. MARTINES, voce Indirizzo politico, in Enc. dir.,vol. XXI, Milano 1971, pp. 134 ss. M. DOGLIANI, voce Indirizzo politico, in Dig. disc. pubbl., pp. 244 ss
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