Falso “privato” per l’assenteista: Corte di cassazione, sezione V penale, 11 ottobre 2006, n. 34011

sentenza 11/01/07
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Corte di cassazione 
Sezione V penale 
Sentenza 11 ottobre 2006, n. 34011 
OSSERVA
 
La Corte di appello di Palermo, con sentenza 19 maggio 2005, ha confermato la pronunzia di primo grado con la quale R. Vito è stato condannato, con riconoscimento di attenuanti generiche, alla pena ritenuta di giustizia in quanto giudicato colpevole dei delitti di truffa aggravata e continuata, falso (diretto e per induzione) ideologico continuato in atti pubblici commesso da Pubblico ufficiale. Al R., dipendente del comune di S. M. Belice, è contestato di essersi allontanato dal servizio senza "marcare", con la apposita scheda magnetica, le uscite dal luogo di lavoro. In tal modo, secondo il capo di imputazione, egli indusse in errore il funzionario incaricato di redigere delibere e ordini di pagamento, così lucrando il compenso per un numero di ore lavorative superiore a quelle effettivamente prestate.

Ricorre per cassazione il difensore e deduce: a) violazione di legge non essendo ravvisabili artifizi e raggiri nella condotta dell’imputato, b) contraddittorietà e illogicità della motivazione. Argomenta come segue.

R. era proprio colui che, all’interno del settore cui era addetto, ere competente per il rilascio dei permessi. Lo stesso quindi era esonerato dalle modalità di segnalazione della presenza in ufficio previste per il personale. Inoltre l’assenza pretesamente ingiustificata addebitata al ricorrente è relativa a un lasso di tempo davvero esiguo, anche in considerazione del fatto che lo stesso aveva facoltà di gestire in maniera "elastica" il suo orario di lavoro, va anche considerato che nel gennaio dell’anno in questione R. era solito lasciare il luogo di lavoro alle ore 18,30 (orario in cui i Carabinieri operanti l’appostamento avevano probabilmente interrotto il loro servizio) per prestare assistenza durante i lavori di giunta e Consiglio. In realtà l’imputato svolgeva mansioni equivalenti ai dirigenti, tanto da maturare, nel mese, un monte-ore di servizio nettamente superiore alle 36, surplus mai remunerato. È quindi evidente che al R. non sono applicabili criteri rigidi e formalistici di conteggio delle ore lavorative.

Va poi rilevato che l’arco temporale oggetto di contestazione è quello immediatamente successivo alla attivazione del sistema di rilevazione elettronica delle presenze in ufficio; è chiaro quindi che, all’epoca, non era ancora stato attivato il "codice" che consentiva di segnalare gli allontanamenti relativi a ragioni di servizio; da ciò discende la mancata utilizzazione della scheda magnetica.

La Corte infine omette qualsiasi motivazione in ordine al diniego della attenuante del risarcimento del danno, dal momento che è stato provato documentalmente che l’imputato ha prestato lavoro oltre l’orario non percependo alcuna remunerazione. Al proposito scrivono erroneamente i giudici di secondo grado che «nessuna doglianza risulta formulata con l’atto di appello di guisa che la pena determinata dal primo giudice deve essere confermata».

La prima censura è infondata.

Invero giurisprudenza ormai risalente – ma condivisibile – di questa Corte (Sez. II, 30 gennaio 1990, n. 1121, ric. ******, Rv 183150) ha affermato che configura il delitto di truffa aggravata la condotta del Pubblico ufficiale che abbandona il posto clandestinamente, per compiere attività incompatibile, nell’orario impegnato, con le incombenze sue proprie, inducendo in tal modo la Pubblica amministrazione a ritenere erroneamente che le mansioni proprie del suo dipendente fossero da questi regolarmente espletate e che, quindi, avesse titolo alla retribuzione.

Nel caso in esame è rimasto accertato che R. si allontanò dal luogo di lavoro e che, in almeno un’occasione, si recò presso il suo studio professionale. Detti episodi di allontanamento non furono documentati con la apposita "marcatura" attraverso il cartellino elettronico.

Il fatto che R. avesse, come sostiene l’impugnante, proprio il compito di sorvegliare che altri impiegati osservassero l’orario di lavoro, se pur fosse vero, da un lato, non lo autorizzerebbe a non rispettare – egli per primo – detto orario, dall’altro aggraverebbe, quantomeno sotto l’aspetto della valutazione morale della vicenda, la sua posizione.

La Corte siciliana comunque afferma che il Segretario comunale ebbe a chiarire in udienza che il R. doveva, come gli altri, documentare la suo presenza in ufficio. Il ricorrente sostiene il contrario, formulando un assunto in frontale contrapposizione con quello fatto proprio dai giudici di merito, i quali, come premesso, lo fondano su di un preciso elemento di convincimento emerso nel corso della istruzione.

Non valutabili in questo sede sono poi le ulteriori affermazioni del ricorrente (avere egli, nell’ambito del suo rapporto di lavoro, possibilità di osservare un orario "elastico", avere prestato in altre occasioni lavoro straordinario non retribuito, essere i fatti addebitati risalenti a un’epoca in cui ancora non era possibile la rilevazione elettronica delle presenze), anche perché, in parte, meramente congetturali (non avere i Carabinieri rilevato che, a volte, egli si tratteneva in ufficio sino alle 18,30, in quanto i militari, all’ora indicato, avevano "probabilmente" interrotto il servizio di osservazione e pedinamento).

Come è agevole rilevare, trattasi di affermazioni che presuppongono (più che allegare) una diversa ricostruzione del fatto e quindi un diverso quadro probatorio, che l’imputato avrebbe dovuto tentare di costruire nelle fasi di merito.

Manifestamente infondata è la seconda censura, atteso che la sentenza impugnata motiva adeguatamente in ordine al diniego della attenuante del risarcimento del danno (pag. 3, settimo capoverso e ss.). Conseguentemente quando la Corte, poche righe dopo, afferma che «quanto al trattamento sanzionatorio, nessuna doglianza risulta formulata», intende evidentemente riferirsi a doglianze diverse da quella (appena esaminata) del diniego della attenuante ex art. 62, n. 6, c.p.

Quanto ai capi B) e C), tuttavia, va notato che le Sezioni unite, con la recente sentenza 10 maggio 2006, n. 15983, ric. **** e altro, Rv 233423, hanno escluso che la falsa attestazione della propria presenza in ufficio (cui può essere equiparata la omessa segnalazione della assenza) da parte del Pubblico ufficiale configuri il delitto ex art. 479 c.p. La condotta del R. potrebbe allora, a ben vedere, essere ricondotta alla fattispecie ex art. 485 c.p., per la quale tuttavia è prevista la procedibilità a querela (che, nel caso in esame, manca).

In ragione di tutto quanto finora scritto, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente ai delitti di falso (art. 479 e artt. 48-479 c.p.) perché il fatto non sussiste.

Nel resto il ricorso va rigettato. Va disposto rinvio alla Corte di appello di Palermo per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

 
P.Q.M.
 
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi B) e C) perché il fatto non sussiste; rigetta nel resto il ricorso e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Palermo per la determinazione della pena.
 

sentenza

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