Ex moglie condannata a restituire l’immobile ricevuto in comodato dal suo ex marito.

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Corte di cassazione civile sez. III, 18 novembre 2014, N° 24468.

Massima.

“La circostanza che nell’immobile dato in comodato sia svolta un’attività commerciale non basta per ritenere quel comodato soggetto ad un termine implicito, ai sensi dell’art. 1810 c.c., e di conseguenza che il comodante non possa chiedere la restituzione dell’immobile sino a che non cessi l’attività in esso svolta”.

La questione.

Il sig. CG concesse un immobile in comodato alla Sig.ra TP (sua moglie) per consentirle lo svolgimento dell’attività di estetista. Successivamente i due si separarono e cessarono di vivere insieme. Il Sig. CG chiese la restituzione dell’immobile ma la TP si rifiutò continuamente.

Il CG convenne la ex moglie dinnanzi al tribunale di Avellino per sentir pronunciare condanna alla restituzione dell’immobile, oltre al risarcimento del danno per l’occupazione senza titolo. Il Tribunale rigettò la domanda dell’attore sul presupposto che alla ex moglie furono affidati i figli e l’attività di estetista era essenziale per il loro mantenimento. Inoltre, dato che l’immobile fu concesso senza la previsione espressa di un termine, la restituzione non poteva avvenire se non dopo cessato l’uso cui fu destinato.

La Corte d’Appello conferma tale decisione.

Il Sig. CG propone dunque ricorso per cassazione al quale la Sig.ra  TP resiste con controricorso.

Dinnanzi alla Corte di cassazione il CG espone che l’immobile fu concesso in comodato di tipo precario perchè non venne fissato alcun termine per la restituzione la quale, pertanto, poteva essere richiesta “ad nutum”.

La Corte dichiara fondato il motivo. La Sig.ra TP viene condannata a restituire al suo ex marito (Sig. CG) l’immobile di cui si discute libero da persone e cose.

Il giudice di legittimità ha cura di precisare che il punto inerente la restituzione può essere deciso in sede di legittimità perché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto.

La disciplina codicistica.

Chi riceve la cosa in comodato, che può essere mobile o immobile, deve rispettare almeno uno dei limiti imposti dall’art. 1803 c.c.: d’uso o di tempo. Dispone infatti tale norma che il contratto di comodato viene stipulato “Affinché [la parte che la riceve] se ne serva per un tempo o per un uso determinato”.

Dunque se nel contratto è previsto un termine problemi per la restituzione non se ne pongono perché in tal caso la cosa deve essere restituita alla scadenza pattuita. Qualche difficoltà potrebbe invece sorgere quando tale termine non è stato pattuito.

A tale riguardo soccorre il primo comma dell’art. 1809 c.c., secondo cui se nel contratto di comodato non è stato apposto alcun termine, il comodatario deve restituire la cosa “quando se ne è servito in conformità del contratto”. Pertanto, se manca il parametro tempo si deve fare riferimento all’uso  in base al quale è stato pattuito il contratto. Può essere interessante notare come tale norma si ponga in modo coerente con il criterio di scelta alternativa tra l’uso e la scadenza di cui al sopramenzionato articolo 1803 c.c..

Se così stanno le cose, a questo punto ci si può domandare: come si fa a ricavare un termine da quello specifico uso pattuito con il contratto? In altre parole, si può dall’uso ricavare, nel momento della stipula del contratto, un termine per la restituzione così che colui che dà la cosa possa a priori sapere quando poi potrà riottenerla indietro?

Proprio questo importante aspetto viene affrontato dalla sentenza in esame.

Il giudizio in cassazione.

In effetti, ci sono alcune attività che di per sé forniscono a priori un termine più o meno certo di durata, scaduto il quale il comodatario ha diritto alla restituzione.

A tale riguardo il giudice di legittimità fa due utilissimi esempi: l’immobile concesso per accatastare il raccolto, e quello concesso ad uso abitativo destinato nello specifico al soggiorno per studi universitari. In questi due casi dal particolare tipo di uso è possibile ricavare il termine: la fine del raccolto nel primo caso, il termine degli studi nel secondo.

Oltre questi esempi riportati dalla Corte, si potrebbe anche immaginare un comodante  che concede un macchinario il cui uso pattuito è “la produzione di gelati per il periodo estivo”. Anche in questo caso si può a priori ricavare un termine: la fine dell’estate. Scaduto questo momento il comodatario potrà sicuramente richiedere la cosa. Senz’altro nel mese di novembre il comodatario ha diritto alla restituzione.

Ma tornando all’attività di estetista di cui si è occupata la sentenza in esame, come si fa a stabilire  quando cesserà? È possibile per il comodante stabilire, nel momento in cui redige il contratto, il termine scaduto il quale potrà riottenere indietro il proprio immobile?

A tale riguardo la Corte di cassazione fornisce un’utilissima interpretazione dell’art. 1810 c.c. a norma del quale “Se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede”. Questo è il cd comodato precario.

Da un lato il giudice di legittimità precisa che quando non viene espressamente fissato un termine questo può essere appunto dedotto dall’uso cui il bene è destinato. Ciò lo si può immaginare astrattamente possibile quando il termine è implicito all’uso medesimo. Dal altro lato, difatti, lo stesso giudice però precisa che con l’espressione “termine implicito” si vuole indicare che può non essere apposto espressamente, ma non anche che debba essere incerto. Da ciò non può conseguire che che la restituzione possa essere domandata solo dopo cessato l’uso cui l’immobile fu destinato. In buona sostanza, bisogna evitare di giungere ad un comodato perpetuo, perché nella sostanza si configurerebbe come una sorta di espropriazione del comodante. E questo può accadere quando l’immobile venga adibito per quelle attività per le quali non si può ricavare un momento in cui cesseranno.

La particolare natura che connota l’attività di estetista non contiene un termine intrinseco manifestato all’esterno dallo svolgimento dell’attività medesima. Da ciò ne consegue che la determinazione del termine per la restituzione resterebbe affidata non alle specifiche caratteristiche che sottendono l’uso sopra indicato, ma al mero arbitrio del comodatario.

Ad avviso del tribunale di Avellino (decisione poi confermata dal tribunale di appello di Napoli) la mancanza del termine comporta invece che si può esigere la restituzione solo dopo esaurito l’uso cui l’immobile fu adibito. Nel giudizio del merito si evidenzia in particolare come muovendo dal presupposto dell’affidamento dei figli alla ex moglie, l’immobile è stato ritenuto essenziale per lo svolgimento della sua attività di estetista la quale, a sua volta, è stata considerata come necessaria per il mantenimento dei figli suddetti.

In definitiva, la Corte di cassazione decide in conformità al principio da essa più volte espresso (Cass. civ., sez III, 25 giugno 2013, n. 15877, Cass. Civ., sez un., 9 febbraio 2011, n. 3168) secondo cui “il termine del comodato può risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata solo se tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo” o che possa quanto meno essere prestabilita sulla base di “criteri certi ed oggettivi”. In caso contrario il bene risulta destinato ad un uso generico, con la conseguenza che il contratto di comodato è a tempo indeterminato il quale ai sensi dell’art. 1810 c.c. si connota per essere a titolo precario con la conseguenza che può essere revocato ad nutum.

L’attività di estetista non consente di stabilire a priori un termine.

In conclusione, la sentenza viene cassata con rinvio alla corte di appello di Napoli e la signora TP condannata alla restituzione dell’immobile libero da persone e cose entro 30 giorni dal deposito della sentenza.

Pugliese Marcello

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