La Corte costituzionale non ritiene costituzionalmente illegittimo l’art. 16, co. 7, d.lgs. n. 286 del 1998 (espulsione alternativa alla detenzione): vediamo il perché. Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione.
Indice
1. Il fatto: l’espulsione alternativa alla pena
Il Tribunale ordinario di Pesaro era chiamato a giudicare su una richiesta di rinvio a giudizio, esercitata dal pubblico ministero nei confronti di un cittadino nigeriano imputato del reato punito dall’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.
Ebbene, all’udienza, prima dell’inizio della discussione, l’imputato era stato dichiarato assente, in quanto espulso dal territorio italiano in esecuzione del decreto, con il quale il Magistrato di sorveglianza di Ancona, avendo riscontrato i presupposti richiesti dall’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, ne aveva ordinato l’espulsione quale sanzione alternativa alla pena residua della reclusione, relativa a un diverso procedimento esecutivo avviato dalla Procura della Repubblica presso lo stesso Tribunale.
Il pubblico ministero e il difensore, quindi, a fronte di ciò, avevano chiesto l’emissione di sentenza di non luogo a procedere, invocando l’applicazione analogica dell’art. 13, comma 3-quater, dello stesso testo unico. Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione.
Immigrazione, asilo e cittadinanza
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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: illegittimità costituzionale
In relazione alla vicenda giudiziaria suesposta, il Tribunale ordinario di Pesaro sollevava, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del decreto legislativo delegato 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui (diversamente da quanto previsto dall’art. 13, comma 3-quater, con riferimento all’analoga situazione processuale del soggetto nei cui confronti sia stata eseguita l’espulsione amministrativa ai sensi dell’art. 13, comma 3), non prevede che nei confronti dello straniero sottoposto a procedimento penale, nei casi previsti dal comma 5, acquisita la prova dell’avvenuta esecuzione del decreto di espulsione e rilevata l’insussistenza di inderogabili esigenze processuali, se non è ancora stato emesso il decreto che dispone il giudizio, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere».
Nel dettaglio, in punto di rilevanza, il giudice a quo osservava come l’accoglimento della questione prospettata avrebbe consentito all’imputato di beneficiare della speciale declaratoria di improcedibilità dell’azione penale rispetto alla prosecuzione del processo a suo carico, tenuto conto che l’ordine di espulsione, impartito dal Magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 16, comma 7, t.u. immigrazione, era stato definitivamente confermato con ordinanza collegiale ed era stato eseguito.
Ciò posto, quanto invece alla non manifesta infondatezza, il rimettente escludeva di potere procedere a una interpretazione costituzionalmente orientata atteso che la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che l’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, facendo espresso riferimento ai commi 3, 3-bis e 3-ter, può trovare applicazione solo nei casi di espulsione amministrativa e non è estensibile per analogia alle ipotesi di espulsione sostitutiva o alternativa alla detenzione.
L’ordinanza in questione, quindi, ripercorreva la giurisprudenza costituzionale e della Corte di legittimità relativa alla ratio e alla portata applicativa del suddetto art. 13, individuato quale tertium comparationis, al fine del vaglio di compatibilità con il principio di uguaglianza sostanziale e di ragionevolezza delle scelte del legislatore in relazione all’art. 3 Cost., ricordandosi a tal proposito che, nella formulazione originaria, l’indicato art. 13 nulla disponeva con riferimento alla procedibilità dell’azione penale per eventuali reati commessi dall’immigrato irregolare sicché l’intervenuta espulsione dello straniero e la sua conseguente assenza dal territorio italiano non costituiva un impedimento alla procedibilità dell’azione penale, che seguiva le regole ordinarie, fermo restando che l’esercizio del diritto di difesa era garantito dall’art. 17 t.u. immigrazione il quale, anche attualmente, consente allo straniero, sottoposto a procedimento penale, di rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario a partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza.
Si esponeva, poi che, successivamente, con le modifiche introdotte dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), la disciplina di contrasto all’immigrazione irregolare è stata inasprita, favorendo il più possibile l’espulsione dell’immigrato irregolare imputato di un reato e, nello stesso tempo, limitandone il rientro per presenziare al processo a suo carico posto che, da un lato, sono state ridimensionate le «inderogabili esigenze processuali» che possono impedire il rilascio del nulla osta all’espulsione da parte dell’autorità giudiziaria, salvi comunque i casi del particolare rilievo dell’interesse della persona offesa, e, dall’altro, è stato introdotto all’art. 13 t.u. immigrazione il comma 3-quater, il quale stabilisce che il giudice, acquisita la prova dell’avvenuta esecuzione del decreto di espulsione, se non è stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia una sentenza di non luogo a procedere. Inizialmente, tale meccanismo aveva un’operatività più limitata, poiché il comma 3-sexies del medesimo art. 13 impediva l’esecuzione dell’espulsione quando il procedimento penale riguardava reati particolarmente gravi, ossia uno o più dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nonché dall’art. 12 t.u. immigrazione, essendo stato, quindi, lo stesso legislatore che, nel bilanciamento tra la ritenuta esigenza di tenere fuori dal territorio dello Stato l’immigrato irregolare già espulso e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ad affermare la prevalenza di quest’ultimo in presenza di reati particolarmente gravi e dei reati tipici dell’immigrazione, considerato però che il comma 3-sexies è stato, tuttavia, abrogato dall’art. 3, comma 7, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155.
Oltre a ciò, l’ordinanza de qua rimarcava, altresì, che il comma 3-quater ha introdotto una fattispecie di sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale per il reato commesso nel territorio dello Stato dall’immigrato irregolare, allorché l’esecuzione della sua espulsione amministrativa intervenga prima dell’emissione del decreto che dispone il giudizio, sempre che non sussistano le condizioni ostative previste dal comma 3 del medesimo art. 13 e non risulti prevalente l’interesse della persona offesa dato che, ad avviso del giudice rimettente, non si tratterebbe di una sorta di immunità dalla giurisdizione, bensì della risultante di un bilanciamento, operato dal legislatore, tra l’esigenza di limitare il rientro dell’immigrato irregolare nel territorio dello Stato una volta che l’espulsione è stata eseguita e la necessità che i reati da esso commessi nel medesimo territorio siano puniti (richiamando, a tal fine, l’ordinanza n. 142 del 2006 e la sentenza n. 270 del 2019 di questa Corte, nonché Corte di cassazione, quinta sezione penale, sentenza 7 maggio-12 luglio 2021, n. 26519).
Il giudice a quo passava, poi, a ricostruire l’istituto dell’espulsione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, ripercorrendo la consolidata giurisprudenza di legittimità, stabilmente assestata nel ritenere che essa abbia natura sostanzialmente amministrativa e non trattamentale, essendo finalizzata alla diminuzione del sovraffollamento carcerario e restando, perciò, estranea al finalismo rieducativo (si richiama il filone interpretativo espresso dall’ordinanza della Consulta n. 226 del 2004, nel senso dell’estraneità di questo strumento al sistema delle misure alternative alla detenzione, nonché Corte di Cassazione, Prima Sezione penale, sentenza 14 settembre 2021-10 febbraio 2022, n. 4645).
In particolare, tale provvedimento è adottato dal magistrato di sorveglianza nei confronti dello straniero condannato (anche con sentenza non definitiva) per uno dei reati previsti dal testo unico in materia di immigrazione e dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., fatte salve una serie di eccezioni espressamente indicate, e destinato a scontare una pena detentiva non superiore a due anni, previo riscontro delle condizioni che, ai sensi dell’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione, legittimano l’espulsione amministrativa, oltre a essere disposto che la pena si estingue dopo dieci anni, a condizione che lo straniero non sia rientrato illegittimamente nel territorio dello Stato, poiché in tal caso, in forza dell’art. 16, comma 8, lo stato di detenzione è ripristinato e riprende l’esecuzione della pena.
Dal complesso delle disposizioni dettate dall’indicato art. 16, il rimettente desumeva dunque la natura ibrida dell’espulsione in esame, osservando che essa condivide con le ordinarie misure alternative alla detenzione il solo carattere di intervento modificativo della pena nella fase dell’esecuzione penitenziaria, ma è subordinata ai medesimi presupposti dell’espulsione amministrativa, trattandosi di una mera anticipazione della stessa, cui dovrebbe, comunque, darsi corso al termine dell’esecuzione della pena.
In particolare, dalla rilevata natura formalmente giurisdizionale, ma sostanzialmente amministrativa, della suddetta misura, il rimettente evinceva che l’art. 16, comma 7, nella parte in cui non prevede che l’intervenuta esecuzione della stessa determini l’improcedibilità dell’azione penale nei confronti del suo destinatario, «di fatto, consente un trattamento differenziato di situazioni processuali sostanzialmente identiche», con conseguente obliterazione del bilanciamento, operato dal legislatore, tra l’esigenza di limitare il rientro dell’immigrato irregolare nel territorio dello Stato una volta eseguita l’espulsione (stante anche la concreta difficoltà di dar seguito ai rimpatri forzati) e la necessità che i reati commessi dallo straniero nello stesso territorio siano puniti, da cui la dedotta violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza tutelato dall’art. 3 Cost..
A sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale, tra l’altro, il giudice a quo poneva il sostanziale parallelismo tra le rationes della condizione di procedibilità atipica introdotta dall’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione e i casi di espulsione previsti dal successivo art. 16, attesa la coincidenza dei presupposti e delle garanzie procedurali, evidenziando che l’auspicato intervento additivo non si risolverebbe in un’inammissibile invasione degli spazi di discrezionalità riservati al legislatore, trattandosi di una soluzione ricavabile in termini certi e inequivoci dal dato normativo vigente. L’intervento additivo, infatti, consisterebbe nell’inserire anche nell’art. 16 la «possibilità di emettere una sentenza di improcedibilità (temporanea e sottoposta a una sorta di “condizione risolutiva”) in termini sovrapponibili a quanto espressamente previsto dall’art. 13, comma 3-quater», tenuto conto altresì del fatto che la prospettata soluzione, peraltro, sempre ad avviso del rimettente, non determinerebbe alcun vuoto di tutela in caso di reingresso illegale dello straniero espulso prima del termine decennale dall’esecuzione dell’espulsione, poiché tale evenienza è disciplinata espressamente dal comma 13 del medesimo art. 13 (che punisce il reingresso con la reclusione da uno a quattro anni) e dal comma 8 dell’art. 16 (che dispone il ripristino dello stato di detenzione e la ripresa dell’esecuzione della pena).
Processualmente, poi, troverebbe applicazione l’art. 345 cod. proc. pen., secondo cui la sentenza di non luogo a procedere, anche se non più impugnabile, non impedisce il nuovo esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona, qualora sopravvenga la condizione di procedibilità originariamente mancante, da individuare appunto nel reingresso illegittimo del soggetto espulso nel territorio dello Stato.
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3. La soluzione adottata dalla Consulta
La Corte costituzionale – dopo avere disatteso l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri – stimava la questione suesposta infondata.
In particolare, il Giudice delle leggi – dopo avere compiuto una disamina della normativa di riferimento – osservava che, se è vero che, secondo il costante orientamento della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, fondato sui testuali rinvii operati dallo stesso art. 16, l’espulsione alternativa alla detenzione ha natura amministrativa al pari dell’espulsione prefettizia disciplinata dall’art. 13, comma 2, e presenta elementi comuni alle altre misure espulsive disposte dall’autorità amministrativa, quali: a) l’adozione del provvedimento in forma di decreto motivato; b) le modalità di esecuzione, affidate al questore e non al pubblico ministero; c) gli effetti, ossia l’allontanamento dal territorio nazionale e l’obbligo di non farvi rientro entro un certo termine.
Del resto, per il Giudice delle leggi, se proprio la natura amministrativa consente di distinguere l’istituto espulsivo in questione dalle altre misure alternative alla detenzione, non innestandosi nel percorso trattamentale finalizzato alla rieducazione e risocializzazione del condannato, ma configurandosi, piuttosto, come un’anticipazione dell’espulsione amministrativa, di cui all’indicato art. 13, comma 2, che comunque sarebbe stata disposta al termine dell’espiazione della pena detentiva, tuttavia, pur essendo accomunati dalla medesima natura amministrativa, i due istituti espulsivi presi in considerazione dal giudice rimettente non sono completamente sovrapponibili, presentando rilevanti aspetti di diversità, che riguardano in particolare tre profili.
E segnatamente, un primo profilo attiene agli effetti visto che, nella recente sentenza n. 73 del 2025, il Giudice delle leggi ha sottolineato che l’espulsione di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione pur avendo natura amministrativa, anticipando gli effetti dell’espulsione prefettizia per l’irregolarità del soggiorno e condividendone i presupposti, comporta anche la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva in carcere e, per questo motivo, deve essere adottata dal magistrato di sorveglianza e non dal prefetto, in guisa tale che i due profili si integrano, dunque, in una «fattispecie complessa», che produce effetti ulteriori, e non prettamente amministrativi, rispetto all’ordinaria espulsione amministrativa, potendo, come visto, comportare anche l’estinzione della pena.
Orbene, per la Corte, tali peculiarità si ricollegano al secondo profilo di differenziazione, costituito dalla particolare platea dei destinatari e dalla situazione in cui costoro si trovano dato che essa non opera per qualsiasi cittadino straniero irregolare, ma solo per quelli che sono ristretti in carcere per l’espiazione di una pena, all’esito di una sentenza definitiva di condanna, anche residua, non superiore a due anni.
La misura, dunque, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, rivolgendosi esclusivamente a soggetti che già hanno manifestato un profilo di pericolosità sociale, definitivamente accertato dal giudice penale, non è completamente sovrapponibile all’ordinaria espulsione amministrativa, che invece riguarda soggetti stranieri sui quali non gravano condanne definitive di tal tipo.
Ciò posto, per la Consulta, un ulteriore elemento di distinzione attiene al perimetro applicativo della condizione di improcedibilità prevista dall’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione visto che, come sopra osservato e come chiarito anche dalla Corte di Cassazione, la sentenza di non luogo a procedere, ivi disciplinata, si pone quale segmento conclusivo del procedimento penale eventualmente pendente per il medesimo fatto in relazione al quale sia stata disposta ed eseguita l’espulsione e non preclude l’inizio di altri procedimenti penali per fatti precedentemente commessi. Diversamente, si perverrebbe al risultato irragionevole di ritenere che lo straniero espulso benefici di una generale condizione di non procedibilità per qualsiasi reato, anche particolarmente grave, commesso prima della propria espulsione (Cass., n. 29396 del 2018 e, nella stessa linea, Corte di Cassazione, Terza Sezione penale, sentenza 20 aprile 2023-22 febbraio 2024, n. 7713), essendo stato, in tal senso, chiarito che il testo dell’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, il quale riferisce espressamente la condizione di improcedibilità ai casi previsti dai commi 3, 3-bis e 3-ter, che appunto disciplinano le ipotesi in cui, nei confronti dello straniero espellendo, penda un procedimento penale e, previo nulla osta dell’autorità giudiziaria, egli sia stato effettivamente espulso, tenuto conto altresì del fatto come non vada trascurato che la legge n. 189 del 2002 è intervenuta contestualmente su entrambi gli articoli – 13 e 16 – considerati, cosicché l’esplicito riferimento, nell’art. 13, comma 3-quater, ai casi previsti dai commi 3, 3-bis e 3-ter, appare dal legislatore voluto, come appare voluta la mancanza di richiami ad altre disposizioni e, segnatamente, all’art. 16 del medesimo testo unico.
Dal canto suo, la sequenza procedimentale tratteggiata, e interamente definita, dall’art. 13, nell’ambito della quale è destinato a operare il suo comma 3-quater, per la Corte costituzionale, non può evidentemente verificarsi ove lo straniero sia destinatario non già dell’ordinaria espulsione amministrativa di cui all’art. 13, comma 2, bensì dell’espulsione alternativa alla detenzione di cui all’art. 16, comma 5, essendo diversi i rispettivi presupposti applicativi posto che quest’ultima fattispecie espulsiva interviene quando il processo penale è già concluso in via definitiva e lo straniero si trova nella fase di espiazione della pena, mentre la condizione di improcedibilità per avvenuta espulsione è destinata a operare in una fase ben anteriore e, precisamente, prima che sia emesso il provvedimento che dispone il giudizio o altro provvedimento equipollente o il decreto di citazione diretta a giudizio.
Sicché, per la Corte, una pronuncia additiva, nei termini indicati dal giudice a quo, comporterebbe considerevoli ricadute sul perimetro applicativo della condizione di improcedibilità in esame, poiché ne estenderebbe l’operatività a procedimenti penali per reati diversi da quelli per i quali il provvedimento espulsivo è stato disposto ed eseguito, fermo restando che comunque non va trascurato che la regola di settore concernente la sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale, quale conseguenza dell’avvenuta esecuzione dell’espulsione dell’immigrato irregolare, risulta attualmente formulata in termini generali, con riferimento a tutti i reati, essendo venuta meno l’eccezione, originariamente contemplata dal comma 3-sexies dello stesso art. 13, per reati particolarmente gravi.
Sussiste, dunque, ad avviso del Giudice delle leggi, il rischio, già paventato dalla Corte di Cassazione e che la Consulta condivideva nella pronuncia qui in commento, di giungere al risultato irragionevole di ritenere lo straniero espulso beneficiato da una generale condizione di non procedibilità per qualsiasi fatto di reato, anche particolarmente grave, precedentemente commesso.
In effetti, per la Corte costituzionale, se è vero che nell’ordinanza di rimessione si afferma che la valutazione sottesa al rilascio del nulla osta potrebbe essere effettuata dallo stesso giudice che deve decidere sul rinvio a giudizio dello straniero espulso ai sensi dell’art. 16, comma 5, sulla base dei medesimi presupposti richiesti dall’art. 13, comma 3, cioè l’assenza di specifiche e inderogabili esigenze processuali legate all’accertamento di eventuali responsabilità di concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, nonché l’assenza del preminente interesse della persona offesa, tuttavia, tale valutazione ex post, peraltro relativa solo a profili endoprocessuali, non risulta sufficiente a controbilanciare l’ampio raggio di applicazione della condizione di improcedibilità, che non andrebbe più a operare quale segmento conclusivo del procedimento penale nell’ambito del quale è stato adottato il provvedimento espulsivo.
Ebbene, tutte le suesposte considerazioni, dalle quali emergeva la disomogeneità delle situazioni raffrontate dal giudice rimettente, giustificavano per la Consulta la diversa disciplina dettata dal legislatore, che, nella sua discrezionalità, ha deciso di limitare l’ambito di applicazione della condizione atipica di improcedibilità, di cui all’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, ai soli casi in cui lo straniero irregolare sia stato espulso ai sensi dell’art. 13, comma 2, e sia stato poi effettivamente allontanato dal territorio italiano ai sensi dei commi 3, 3-bis e 3-ter del medesimo articolo, senza estenderla all’ipotesi in cui egli sia stato espulso ai sensi dell’art. 16, comma 5 dal momento che si stima non irragionevole che, ove l’espulsione sia intervenuta nei confronti di uno straniero già condannato in via definitiva alla pena della reclusione in carcere, il legislatore abbia ritenuto prevalente l’esigenza di punire gli ulteriori reati da questi commessi nel territorio dello Stato.
In conclusione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, prospettata in riferimento all’art. 3 Cost., non era reputata fondata.
4. Conclusioni: infondatezza della questione suesposta
Fermo restando che l’art. 16, co. 7, d.lgs. n. 286 del 1998, come è noto, dispone, da un lato, che l’“esecuzione del decreto di espulsione di cui al comma 6 è sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o della decisione del tribunale di sorveglianza e, comunque, lo stato di detenzione permane fino a quando non siano stati acquisiti i necessari documenti di viaggio” (primo periodo), dall’altro, che l’“espulsione è eseguita dal questore competente per il luogo di detenzione dello straniero con la modalità dell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica” (secondo periodo), con la decisione qui un esame, la Corte costituzionale ha dichiarato non illegittimo costituzionalmente questo precetto normativo nella parte in cui non prevede che nei confronti dello straniero sottoposto a procedimento penale, nei casi previsti dal comma 5[1], acquisita la prova dell’avvenuta esecuzione del decreto di espulsione e rilevata l’insussistenza di inderogabili esigenze processuali, se non è ancora stato emesso il decreto che dispone il giudizio, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere
Pertanto, per effetto di tale pronuncia, il giudice continua a non essere obbligato a emettere una sentenza di questo genere in presenza di una situazione di codesto genere.
Questa è dunque la novità che connota il provvedimento qui in commento.
Note
[1]Ai sensi del quale: “Nei confronti dello straniero, identificato, detenuto, che si trova in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni, è disposta l’espulsione. Essa non può essere disposta nei casi di condanna per i delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del presente testo unico, ovvero per uno o più delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) del codice di procedura penale, fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli articoli 628, terzo comma e 629, secondo comma, del codice penale. In caso di concorso di reati o di unificazione di pene concorrenti, l’espulsione è disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena relativa alla condanna per reati che non la consentono”.
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