È nulla la sentenza che non si pronuncia sulle spese della c.t.u. (Commento a Cass. civile Sez. III, 5 giugno 2020, n. 10804)

Redazione 06/07/20
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di Mirco Minardi

Sommario

1. Introduzione

2. Lo stato della giurisprudenza della Suprema Corte

3. Le argomentazioni dell’ordinanza n. 10804/2020

4. Esemplificazioni in materia di anticipazioni e ripartizione finale delle spese di c.t.u.

5. La necessità di una condanna espressa o inequivoca

1. Introduzione

L’ordinanza in commento della Corte di Cassazione (Cass. civile Sez. III, 5 giugno 2020, n. 10804) affronta e risolve in maniera convincente il rapporto esistente tra il decreto di liquidazione delle spese di c.t.u. (exart. 168, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) e la sentenza definitiva con cui dette spese vengono ripartite tra le parti (ex artt. 91-92 c.p.c.), affermando i seguenti princìpi:

(a) Il decreto di liquidazione delle spese di c.t.u. regola il rapporto tra l’ausiliare e le parti, mentre la regolamentazione delle spese all’esito del giudizio è affidata alla sentenza[1] ex artt. 91 e 92 c.p.c.

(b) Le parti sono sempre responsabili in solido del pagamento dei compensi del c.t.u., a prescindere dall’imputazione contenuta nel decreto di liquidazione e della ripartizione definitiva delle spese.

(c) Il giudice deve sempre pronunciarsi in maniera espressa, o quanto meno inequivoca, sulla ripartizione delle spese di c.t.u., non potendo questa ricavarsi per implicito né dalla statuizione sulle spese processuali, né dal decreto di liquidazione ex art. 168, D.P.R. cit. È pertanto «affetta dal vizio di omessa pronuncia la sentenza d’appello che, accogliendo il gravame e accollando le spese di lite alla parte soccombente, taccia sulla sorte delle spese della consulenza tecnica d’ufficio eseguita nel primo grado di giudizio, a nulla rilevando che tali spese abbiano già formato oggetto di liquidazione con decreto motivato».

Il caso nasce da una sentenza della Corte di appello di Roma che, nel regolare le spese del doppio grado di giudizio a seguito di riforma integrale, aveva omesso di provvedere sulle spese di consulenza tecnica disposta in primo grado. La società ricorrente (appellante vincitrice nel giudizio di secondo grado) esponeva, infatti, che in primo grado le spese di consulenza erano state poste provvisoriamente a carico delle parti in solido e che in sede di gravame la Corte d’appello, pur condannando i soccombenti alla rifusione delle spese di lite in favore della stessa, nulla aveva stabilito in merito alle spese di consulenza. Da qui, la conclusione che la ripartizione di dette spese operata dal primo giudice fosse rimasta ferma anche dopo la sentenza d’appello e che di conseguenza la Corte d’appello, addossandole una frazione delle spese di lite, avesse violato l’art. 91 c.p.c.

La Suprema Corte, nell’accogliere il motivo, seppure sotto un diverso profilo, ha colto l’occasione non solo per affermare espressamente il principio sopra riportato (sub c)), ma anche per precisare il rapporto esistente tra il decreto di liquidazione e la regolazione delle spese contenuta nella sentenza conclusiva del giudizio. Il primo, infatti – ha affermato – è un provvedimento destinato ad incidere esclusivamente nei rapporti tra queste e l’ausiliario; la seconda, invece, regola i rapporti tra le parti, rispetto ai quali il c.t.u. resta del tutto estraneo.

[1] Ovviamente anche dall’ordinanza ove il provvedimento conclusivo assuma detta forma.

2. Lo stato della giurisprudenza della Suprema Corte

La decisione in commento prende motivatamente le distanze rispetto a due orientamenti formatisi in seno alla giurisprudenza della stessa Corte, definiti “opposti” dalla decisione in commento, ma in realtà “autonomi”, in quanto disciplinanti ipotesi tra loro diverse.

In base il primo, la compensazione per giusti motivi delle spese giudiziali non può travolgere il pregresso decreto di liquidazione che abbia posto le spese a carico della parte risultata soccombente. Pertanto, quest’ultima dovrà sopportarle integralmente, pur a fronte della disposta compensazione[2]. In buona sostanza, secondo questo orientamento il decreto di liquidazione, almeno nei casi in cui abbia posto le spese a carico del soccombente, prevale sulla statuizione finale che abbia disposto la compensazione delle spese di lite.

Il secondo, invece, afferma che la decisione sulle spese del giudizio sia omnicomprensiva, pertanto qualora nella statuizione sulle spese di lite non venga indicata la parte sulla quale graveranno definitivamente quelle relative alla consulenza tecnica d’ufficio, non si configura il vizio di omessa pronuncia[3].

Nella decisione in commento questi due orientamenti vengono ritenuti superati per una serie di stringenti considerazioni che appaiono difficilmente contestabili e che si esamineranno nel prossimo paragrafo.

[2] In tal senso, v. Cass. civ. sez. III, 23/04/2001, n. 5976.

[3] V. Cass. civ. sez. III, 17/01/2013, n. 1023; Cass. civ. sez. III, 31/10/2017, n. 25817.

3. Le argomentazioni dell’ordinanza n. 10804/2020

In un processo civile, allorquando venga disposta una consulenza tecnica, solitamente il giudice individua con decreto la parte che deve anticipare le spese. Al termine dell’incarico, con altro decreto motivato comunicato alle parti ed al c.t.u., suscettibile di autonoma opposizione nelle forme prescritte dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 15, il giudice liquida le spese di consulenza.

Nella decisione in esame, la S.C. precisa che tanto il provvedimento con cui si accorda al c.t.u. un’anticipazione (c.d. “fondo-spese”), quanto il decreto di liquidazione definitiva delle spese di consulenza, non hanno nulla a che vedere col provvedimento di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c., avendo l’unico scopo di consentire al c.t.u. di disporre d’un titolo esecutivo nei confronti delle parti e di individuare, nel rapporto interno, chi debba farsene provvisoriamente carico. Difatti, le statuizioni sul riparto delle spese di consulenza contenute nel decreto di liquidazione di cui al D.P.R. cit. non sono opponibili al c.t.u., il quale ha diritto di pretendere il compenso da qualunque delle parti in causa; e qualora la parte di fatto escussa dal c.t.u. per il pagamento non fosse quella onerata delle spese di consulenza nel decreto di liquidazione, tale circostanza non potrà essere certamente opposta all’ausiliario. Unica conseguenza sarà che la parte richiesta del pagamento da parte del c.t.u., se diversa da quella onerata (oppure se all’esito della lite le spese processuali saranno poste a carico di altre parti), potrà agire in regresso exart. 1299 c.c., nei confronti di queste ultime. Ciò in quanto il principio della soccombenza “opera solo nei rapporti con le parti e non nei confronti dell’ausiliare”[4].

Nell’ordinanza viene dunque rimarcato che la liquidazione del compenso dovuto all’ausiliario non ha nulla a che vedere con la regolazione delle spese di lite, atteso che la prima è disciplinata, come si è già detto, dal D.P.R. cit.; la seconda dagli artt. 91 e 92 c.p.c. La prima deve essere effettuata con decreto opponibile ex art. 15, D.Lgs. n. 150 del 2011, la seconda con la sentenza o con l’ordinanza che definisce il giudizio. La prima comporta il diritto del c.t.u. di pretendere il pagamento da qualunque parte, in solido con le altre; la seconda non regola i rapporti tra le parti ed il c.t.u., ma solamente i rapporti tra le parti del processo.

Si tratta, questo, di un passaggio fondamentale, in quanto da esso la Corte fa discendere due importanti corollari.

Il primo è che la liquidazione delle spese di c.t.u. va fatta con decreto motivato, modificabile solo dal Tribunale in sede di opposizione e non con il provvedimento che definisce il giudizio.

Il secondo corollario è che, quale che sia il modo in cui il giudice, nel decreto ex D.P.R. 150/2011, abbia ripartito le spese tra le parti, nella sentenza conclusiva del giudizio il giudicante dovrà, sempre e comunque, provvedere ex novo a regolare tra le parti le spese di consulenza: vuoi addossandole al soccombente, vuoi – ricorrendone i presupposti – compensandole[5].

Pertanto, la regolazione tra le parti delle spese di consulenza all’esito del giudizio prescinde totalmente dalle disposizioni eventualmente dettate nel decreto di liquidazione pronunciato ex art. 168, D.P.R. cit.. Di conseguenza, il silenzio serbato dalla sentenza circa la sorte delle spese di c.t.u. non può mai ritenersi un silenzio concludente, perché esso non consente di stabilire se il giudice abbia inteso regolare le spese di c.t.u. richiamando il principio stabilito nel decreto di liquidazione oppure abbia inteso compensarle, od ancora abbia inteso addossarle ad una delle parti.

[4] Cass. civ. sez. II, 10/10/2018, n. 25047; Cass. civ. sez. VI, 05/11/2014, n. 23522; Cass. civ. sez. II, 15/09/2008, n. 23586.

[5] Da ultimo, ma ex multis, Cass. civ. sez. VI, 21/10/2019, n. 26849; Cass. civ. sez. VI, 07/09/2016, n. 17739; Cass. civ. sez. VI, 13/05/2015 n. 9813.

4. Esemplificazioni in materia di anticipazioni e ripartizione finale delle spese di c.t.u.

La Corte, nell’intento di mettere ordine a fare chiarezza, esemplifica le ipotesi che in concreto possono verificarsi.

Anzitutto, prende in esame l’ipotesi che le spese di c.t.u. siano state anticipate, prima della fine del giudizio, dalla parte che poi risulterà soccombente. In tal caso, possono darsi questi casi:

(a) se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante applicherà la regola della soccombenza exart. 91 c.p.c., dovrà disporre che le spese di c.t.u. restino definitivamente a carico della parte che le ha sostenute;

(b) se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante compenserà le spese ex art. 92 c.p.c., dovrà dettare analoga previsione per le spese di c.t.u.; in tal caso la parte che le ha anticipate per intero avrà diritto di regresso, nella misura del 50%, nei confronti dell’altra;

(c) se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante compenserà le spese ex art. 92 c.p.c., addossando però al soccombente quelle di c.t.u., tale provvedimento andrà qualificato come una compensazione parziale delle spese[6].

La seconda ipotesi è invece quella dell’anticipazione effettuata prima della fine del giudizio, dalla parte che poi risulterà vittoriosa. Qui possono darsi i seguenti casi:

(a) se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante applicherà la regola della soccombenza ex art. 91 c.p.c., dovrà espressamente condannare la parte soccombente alla rifusione delle spese di c.t.u. in favore della controparte;

(b) se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante compenserà le spese ex art. 92 c.p.c., dovrà condannare la parte soccombente alla rifusione in favore della parte vittoriosa del 50% delle spese di consulenza da quest’ultima anticipate.

[6] Cass. civ. sez. III, 13/09/2019 n. 22868.

5. La necessità di una condanna espressa o inequivoca

Secondo la pronuncia in commento non ci sono pertanto dubbi: il provvedimento conclusivo del giudizio deve contenere in maniera espressa o quanto meno inequivoca una statuizione sulle spese della c.t.u., non essendo ammissibile una statuizione implicita, atteso che il decreto col quale il giudice, su istanza dell’ausiliario, liquida le spese di consulenza ponendole a carico d’una o d’ambo le parti in solido è un provvedimento che rileva unicamente nei rapporti tra le parti e il c.t.u. Nei rapporti tra le sole parti, invece, il riparto delle spese di consulenza non può che essere regolato da una statuizione espressa contenuta nella sentenza conclusiva del giudizio. Statuizione che necessariamente è destinata a travolgere, se non coincidenti con essa, le disposizioni sul riparto delle spese di consulenza contenute nel decreto di liquidazione.

Ciò posto, nel caso di specie nessuna rilevanza poteva avere il decreto di liquidazione ex art. 168 D.P.R. cit., siccome destinato a regolare i rapporti tra parti e c.t.u. Allo stesso tempo doveva escludersi che con la condanna alle spese fosse stata implicitamente regolata anche la questione delle spese di c.t.u. in quanto la statuizione deve essere inequivoca, mentre il silenzio, di per sé, non può ritenersi tale. Né, infine, poteva affermarsi che la sentenza impugnata avesse inteso, col proprio silenzio, addossare le spese di consulenza definitivamente alla parte che le aveva anticipate, cioè la ricorrente in via incidentale, in quanto tale pronuncia si sarebbe posta in contrasto con l’art. 91 c.p.c. ed osterebbe a tale conclusione l’universale principio ermeneutico, valido anche per l’interpretazione degli atti giudiziari, secondo cui tra più interpretazione tutte teoricamente plausibili, va scartata quella che renderebbe invalido l’atto da interpretare.

In conclusione, la sentenza d’appello, non avendo espressamente provveduto sulle spese di c.t.u., è stata cassata per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.

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