Il delitto di violenza sessuale

Redazione 08/05/04
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di Cristiano Brunelli

Il delitto di violenza sessuale è previsto dall’art. 609 bis c.p. il quale indica che “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”.

La legge 15 febbraio del 1996 n. 66, oltre a modificare sostanzialmente le ipotesi incriminatici in materia, ha disposto lo spostamento dei delitti sessuali all’interno del codice penale dagli artt. 519 ss. agli artt. da 609 bis a 609 decies,  e dal libro nono riservato “ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” al libro secondo dedicato ai “delitti contro la persona”.

 La suddetta normativa ha disposto l’ingresso nel codice penale del delitto di violenza sessuale avendo eliminato la distinzione tra quelli previgenti di violenza carnale, che  aveva come presupposto necessario una qualsiasi forma di compenetrazione carnale, e quello di atti di libidine violenti, creando tuttavia in più parti della dottrina sospetti di legittimità costituzionale per il difetto di determinatezza dell’inciso “atti sessuali”.

L’unificazione normativa operata dal legislatore è apparsa immediatamente ingiustificata per  tutto quanto attiene alle modalità di aggressione, al regime sanzionatorio e al suo rapporto con principi e norme costituzionali già vigenti.

Innanzitutto lo scopo ricercato di evitare al giudice indagini ed accertamenti sul corpo della persona offesa molto spesso umilianti e di scarso buon gusto non sembra possa essere perseguito evitando di conoscere in particolare le modalità di aggressione e punendo in egual modo tutti i comportamenti sessuali caratterizzati dalla violenza, dalla minaccia e dall’abuso di autorità (Cass. Pen., III sez., 10/6/96, n. 2561, Guardavalle).

Il solo vantaggio che sembra essere stato raggiunto, per di più di natura morale, è stato quello di una maggiore tutela a livello privato del diritto al libero esercizio delle proprie facoltà e qualità sessuali equiparando la gravità del congiungimento violento a quella di altri atti a sfondo sessuale.

Invero direttamente dalla parificazione delle sanzioni penali previste per il delitto in materia deriva il pericolo concreto che al soggetto, reo di un atteggiamento libidinoso, venga applicata una pena sproporzionata  adatta ad una condotta più grave.

I maggiori contrasti sono però da rilevare in riferimento ai principi di uguaglianza e ragionevolezza.

Autorevole dottrina ha osservato come l’art. 609 bis c.p. risulti incompatibile, in merito alla normativa sul casellario giudiziale, con l’art. 3 della Costituzione, laddove questo sottolinea “che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche di condizioni personali e sociali”.

L’unificazione legislativa dei reati di violenza carnale e atti di libidine violenti non consente infatti la menzione nel casellario dell’esatta condotta del reo e del danno subito dalla persona offesa poiché ogni comportamento viene indistintamente punito “ai sensi dell’art. 609 bis c.p.”.

Inoltre in riferimento alla presunta violazione del principio di ragionevolezza si è sostenuta l’inconciliabilità giuridica della riunione normativa col nostro ordinamento che prevede sanzioni di altro genere per fatti di cui agli artt. 519 e 521 c.p. ora abrogati.

L’elemento oggettivo consiste nel compimento volontario del reo di atti, non necessariamente di congiunzione carnale,  nei confronti di una persona assolutamente contraria ad ogni contatto, i quali offendano il bene giuridico della libertà personale.

Alla nozione di “atti sessuali” non sono da ricondurre unicamente i comportamenti antigiuridici  che riguardano l’apparato genitale ma tutte le altre parti del corpo considerate erogene ed in grado di stimolare un qualsivoglia sentimento di eccitazione dell’istinto sessuale.

Il dolo generico costituisce l’elemento soggettivo sufficiente per la sussistenza del reato; l’intenzionalità dell’atto deve tuttavia essere accertata ogni volta in relazione alla particolarità della condotta non potendo essere sempre presunta (Cass. pen., 28 gennaio 1997, Canicola).

Fondamentale dunque ai fini delle indagini per l’accertamento del reato di cui all’art. 609 bis c.p. è l’accertamento della premeditazione del soggetto agente; non può sussistere responsabilità penale nei confronti del medico il quale, nell’esercizio della propria professione, toccasse a scopo terapeutico parti intime del corpo altrui.

Il delitto di violenza sessuale non prevede ai fini della commissione il concorso materiale di altri soggetti perché tale condotta integrerebbe la figura autonoma del reato di violenza sessuale di gruppo disciplinata dall’art. 609 octies c.p., “la violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis”.

Il concorso morale si configura per tutte quelle persone che hanno in qualche modo contribuito all’organizzazione materiale e alla propaganda del reato; per di più, ai sensi dell’art. 147 c.c., la Corte di Cassazione ha giudicato correa moralmente nel reato di atti di libidine in danno dei propri figli la madre che ometta di impedire o denunciare ilcomportamento libidinoso antigiuridico del coniuge o del convivente.

L’art. 609 bis stabilisce che soggiace alla stessa pena chiunque induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica delle persone offese al momento del fatto.

Al riguardo l’art. 3 legge 15 febbraio 1996 n. 66 ha modificato il regime sanzionatorio in riferimento ai comportamenti sessuali violenti in danno di persone psichicamente o fisicamente inferiori abrogando quanto disposto dal precedente art. 516 c.p..

La nuova disciplina in materia ha voluto consentire la possibilità anche per queste categorie di individui di poter svolgere tranquillamente la propria vita sentimentale e sessuale punendo tuttavia le situazioni nelle quali l’atto fisico risultasse frutto di una attività di coazione o di induzione dettata dallo stato di superiorità dell’agente.

Una seconda ipotesi criminosa è prevista quando l’azione è commessa traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altri.

Relativamente a tale circostanza la sostituzione dolosa di persona è indicata all’art. 494 c.p. laddove è sanzionato “chiunque, al fine di procurare a se o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici”.

Di conseguenza rientra in questa previsione normativa colui il quale, fingendosi medico visiti una donna per soddisfare i propri istinti libidinosi, o facendosi credere agente di polizia, pretenda da una prostituta minacciata di arresto le proprie prestazioni.

Gli elementi costitutivi del delitto di violenza sessuale favoriscono il rapporto con numerose altre ipotesi criminose penalmente sanzionate.

Il reato di lesioni di cui all’art. 582 c.p., procurate alla persona offesa nel tentativo di vincerne la resistenza, concorre con la violenza sessuale quando queste siano state volontariamente cagionate; qualora le lesioni si verificassero accidentalmente, il reo ne risponderebbe a titolo di colpa non venendo meno la sua responsabilità.

Seppur distinti nei presupposti di base non prevedendo il reato di cui all’art. 564 c.p. la congiunzione carnale violenta, l’incesto e la violenza sessuale possono concorrere quando l’unione fisica violenta avviene in danno delle persone indicate all’art. 564 con la conseguenza del pubblico scandalo.

Infine la Corte di Cassazione ha più volte ribadito l’imputabilità ex art. 110 e non 116 c.p. nel concorso di violenza carnale per il complice del rapinatore che pur non avendo partecipato materialmente alla violenza, ne abbia  con la sua condotta favorito la commissione.

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