Dall’ibrido “impumone” alla figura di “teste assistito”.

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SOMMARIO: 1- Le garanzie attribuite all’ imputato in procedimento connesso anteriormente alla entrata in vigore delle norme attuative del c.d. giusto processo. 2 – Il passaggio dall’ibrido “impumone” alla compiuta delineazione della figura del coimputato. Le fuorvianti ragioni dell’intervento normativo. 3 – Il difficile inquadramento dell’“imputato in procedimento connesso” nella figura processuale di “teste”, ontologicamente connotata da endogena carenza di interesse e dalla “immodificabilità” del relativo status. 4. Il diritto di difesa tra diritto al silenzio ed obbligo di parola. La parziale indelegabilità del diritto di difesa materiale. 5- Il ius tacendi quale pregnante espressione del diritto di difesa. 6 – La ritenuta scindibilità del diritto al silenzio in relazione al “fatto proprio” ed al “fatto altrui” L’amplissimo margine di apprezzamento giudiziale.
 
 
 
1 – Le garanzie attribuite all’imputato in procedimento connesso anteriormente alla entrata in vigore delle norme attuative del c.d. giusto processo.
 
 
La difficoltà di inquadramento giuridico della figura dell’imputato in procedimento connesso ha condotto – anteriormente all’intervento legislativo del 2001 – alla delineazione di una ibrida struttura, poco appagante sul piano dogmatico nonché su quello applicativo.
La regolamentazione dello status di imputato in procedimento connesso era rinvenibile nell’art. 210 c.p.p. che, con il richiamo ivi contenuto a categorie giuridiche eterogenee, finiva col tracciare una disciplina poco coerente.
La norma citata, nel testo previgente, recitava “nel dibattimento, le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12, nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente, sono esaminate a richiesta di parte[1] ovvero, nel caso indicato dall’art. 195 c.p.p.,[2] anche di ufficio. Esse hanno l’obbligo di presentarsi al Giudice, il quale, ove occorra, ne ordina l’accompagnamento coattivo. Si osservano le norme sulla citazione dei testimoni”.
Una prima vistosa anomalia balza immediatamente all’attenzione.
L’art. 210 c.p.p., pur disciplinando l’istituto dell’“esame dell’imputato” – “in procedimento connesso”, ma pur sempre “imputato” – contemplava, nella sua originaria formulazione, la possibilità di ottenere – a richiesta di parte o, nel caso indicato dall’art. 195 c.p.p. , d’ufficio –   la forzosa presenza del soggetto di cui al primo comma.
Tale disposizione mal si conciliava con le norme a tutt’oggi disciplinanti l’istituto dell’esame dell’imputato, tra le quali va annoverato l’art. 490 c.p.p. che, nell’attribuire al giudicante il potere di disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato contumace o assente, pone un margine ben preciso, costituito dalla “necessità della assunzione di una prova diversa dall’esame”.
Siffatta previsione, limitativa del potere giudiziale, si pone perfettamente in linea con quanto statuito dall’art. 208 c.p.p., che subordina l’esame dell’imputato al consenso di quest’ultimo[3].
Tutt’altro che coerente risultava, inoltre, la previsione contenuta nel quarto comma dell’art. 210 c.p.p. che attribuiva agli imputati in procedimento connesso “la facoltà di non rispondere”… “salvo quanto disposto dall’art. 66, comma 1”.
Tale statuizione concettualmente mal si concilia con la possibilità di ottenere la presenza coatta del dichiarante.
E’ indubbio, infatti, che l’accompagnamento coattivo di un soggetto risulta strumentale alla “coercibilità” della eventuale dichiarazione di questi.
Tale asserto trova la sua concretizzazione nella disciplina normativa del testimone il quale, a norma dell’art. 198 c.p.p., ha “l’obbligo di presentarsi al Giudice”….e “di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte”.
Per quanto concerne la figura del testimone,[4] dunque, è ben comprensibile l’esistenza di una previsione normativa che consente il ricorso all’uso dei poteri coercitivi giudiziali, allo scopo di ottenere la presenza del soggetto che deve rendere dichiarazioni, proprio in quanto, a carico del teste medesimo, grava l’obbligo di deporre.[5]
Diversamente è a dirsi con riferimento alla figura dell’imputato in procedimento connesso o collegato, per il quale l’eventuale contegno processuale negativo non potrebbe in alcun modo costituire oggetto di apprezzamento da parte del Giudicante, trattandosi di una legittima estrinsecazione del diritto di non rispondere.
La disciplina delineata dal legislatore anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 63/01, come emerge chiaramente, costituisce una poco appagante risposta alla necessità di definizione della veste giuridica del “dichiarante erga alios – imputato in procedimento connesso”.
L’insufficienza del quadro normativo di riferimento ha condotto alla delineazione di una ibrida figura che è stata ellitticamente ed argutamente definita “impumone”.[6]
Tale locuzione sta ad indicare un soggetto “metà testimone, metà imputato”, proprio in quanto al medesimo, pur essendo riconosciute le garanzie tipiche dell’imputato, sono contestualmente imposti gli obblighi gravanti sul testimone.
La “regina” delle garanzie riconosciute all’imputato – e, dunque, attribuite al soggetto di cui all’art. 210 c.p.p. previgente –   è, senza dubbio, costituita dalla warrenty against self incrimination che costituisce la massima espressione – ad avviso di chi scrive – del diritto di difesa.
Non può revocarsi in dubbio che la strategia difensiva sia molto spesso incentrata su un meditato esercizio di tale diritto.
In alcuni casi, addirittura, la posizione dell’indagato o dell’imputato può irrimediabilmente essere pregiudicata dal mancato esercizio di tale diritto.[7]
La indiscutibile correlazione esistente tra la “facoltà di non rispondere” attribuita al soggetto a cui siano ascritti fatti penalmente rilevanti e l’esercizio del diritto di difesa, pertanto, induce a ritenere che la primapossa trovare il proprio fondamento normativo direttamente[8] nell’art. 24 Cost.,[9] che postula l’inviolabilità del diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”.
Deve ritenersi che, in tale sede, il Costituente abbia inteso fare riferimento al “procedimento penale” complessivamente considerato – nonostante l’utilizzo atecnico della espressione “procedimento” – con un conseguente amplissimo riconoscimento del diritto de quo.
Dalla premessa secondo cui il diritto al silenzio costituisce la massima espressione del diritto di difesa[10] discende che il fondamento normativo del principio del nemo tenetur se detegere non può che essere ricondotto direttamente alla norma costituzionale, in quanto il tentativo di ancorare il medesimo a norme codicistiche potrebbe produrre effetti fuorvianti.
La tesi in forza della quale il diritto al silenzio va ricondotto all’art. 64 c.p.p. risulta riduttiva.
La norma citata – che, al terzo comma, statuisce: “prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che ….ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda…” – sembrerebbe applicabile unicamente nell’ ipotesi in cui si proceda all’“interrogatorio”[11] dell’indagato[12].
Un’interpretazione restrittiva sarebbe, inoltre, suggerita dalla rubrica recata dalla disposizione medesima che, fissando le “regole generali per l’interrogatorio” non potrebbe, in alcun modo, rivestire un ambito di applicabilità più ampio.
Per addivenire ad opposte conclusioni occorrerebbe ritenere che il legislatore abbia utilizzato in maniera non tecnica la locuzione “interrogatorio”.
Argomentazione, questa ultima, difficilmente sostenibile.
Secondo altro orientamento dottrinario,[13] il principio secondo cui nessuno può essere obbligato a deporre contra se, andrebbe ricondotto all’art. 198 c.p.p. che, al secondo comma, recita : “il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale [14].
Tale asserto non pare condivisibile per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, la disposizione menzionata, per espressa volontà del legislatore, sembra operare con riferimento al solo soggetto che assume lo status di “testimone”.
In secundis, non pare che la “facoltà di non rispondere” di cui all’art. 64 c.p.p. possa essere equiparata, quanto ad estensione e portata, alla generica insussistenza a carico del teste di un obbligo a “deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”.
L’operatività dell’art. 198, II comma, c.p.p., infatti, è subordinata all’espletamento di un giudizio di valore relativo alla idoneità dei “fatti” oggetto della deposizione a generare una responsabilità penale a carico del dichiarante.
Diversamente è a dirsi per la garanzia cristallizzata nell’art. 64, III comma, c.p.p. che attribuisce al soggetto sottoposto ad interrogatorio la “facoltà di non rispondere ad alcuna domanda”, prescindendosi, in tale ipotesi, da qualsivoglia valutazione preliminare.
L’art. 210, III comma, c.p.p. – che non ha subito modifiche ad opera della legge n. 63/01 – attribuisce, inoltre, all’imputato in procedimento connesso, la facoltà di essere assistito da un difensore che “ha diritto di partecipare all’esame”.
La garanzia della assistenza difensiva, tuttavia, appare, nella sostanza, meno pregnante di quanto prima facie possa apparire.
La partecipazione del difensore si risolverà, per lo più, in una mera presenza formale non essendo individuabile la possibile area di intervento.
Si noti, inoltre, che la disposizione menzionata contempla la possibilità per il Giudicante che procede all’esame di soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. di nominare un difensore di ufficio, all’imputato in procedimento connesso che ne sia privo.
In una tale evenienza, è maggiormente palpabile la limitatezza del ruolo rivestito dal difensore il quale, reperito prontamente, non potrà in alcun modo svolgere una efficace assistenza.
Una statuizione di analogo contenuto si rinviene nell’art. 197-bis, III comma, c.p.p., attualmente in vigore.
 
 
2 – Il passaggio dall’ibrido “impumone” alla compiuta delineazione della figura del coimputato. Le fuorvianti ragioni dell’intervento normativo.
 
La necessità di procedere ad una revisione organica della disciplina positiva riguardante la figura dell’imputato in procedimento connesso si è appalesata, secondo alcuni autori,[15] con particolare vigore, in seguito alla approvazione della legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, recante “inserimento dei principi del giusto processo[16] nell’art. 111 Cost.”.
In verità, tale asserto si fonda su una non condivisibile interpretazione della norma costituzionale, quale risultante a seguito dell’intervento modificativo in parola.
L’art. 111 Cost., nella sua attuale formulazione, al quarto comma, testualmente recita: “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio (rectius esame) da parte dell’imputato o del suo difensore”.
Il testo della disposizione menzionata non desta particolari problemi esegetici in quanto il relativo contenuto precettivo è assai chiaro e puntuale.
In estrema sintesi, può asserirsi che la norma de qua sancisca di fatto l’inutilizzabilità dei contributi conoscitivi raccolti in via unilaterale.
Essa si pone unicamente quale regola di esclusione della efficacia probatoria degli elementi acquisiti in assenza di contraddittorio.
Ma non vi è traccia della necessità – di fatto poi tradotta in precetto normativo – di provocare la presenza forzosa del dichiarante che si sia sottratto all’ “interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”, al fine di far assurgere a “prova” quel dato storico prima ottenuto senza la partecipazione della parte dialetticamente contrapposta.[17]
Tale interpretazione – sostenuta, per la verità da autorevole dottrina[18] – tradisce lo spirito della disposizione costituzionale che, si rimarca, si limita a porre un rigoroso sbarramento alla utilizzabilità di elementi acquisiti in assenza di contraddittorio.
A tale conclusione sembra pervenire la medesima Corte Costituzionale[19] la quale, chiamata a pronunciarsi sulla nuova versione dell’art. 500 c.p.p., ha affermato che l’art. 111 Cost. ha “espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; (…) alla stregua di siffatta opzione, appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento – nella quale assumono valore paradigmatico i principi dell’oralità e del contraddittorio – da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari”.
L’esegesi proposta sembra trovare riscontro positivo anche nella disposizione contenuta nell’art. 513, I comma, c.p.p. che testualmente recita: “il Giudice, se l’imputato è contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all’esame dispone, a richiesta di parte , che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al Giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare , ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso salvo che ricorrano i presupposti di cui all’art. 500, IV comma, c.p.p.”.
La menzionata disposizione si ispira al principio secondo cui le dichiarazioni accusatorie rese da un imputato che si è sottratto al c.d. “esame incrociato” non sono utilizzabili nei confronti di colui che non dovesse prestare il relativo consenso.
Ciò, in quanto, proprio in attuazione del principio sancito dall’art. 111, IV comma, 1° alinea, Cost., non è possibile provare la colpevolezza di un soggetto “sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”.
Il rinvio inserito nell’art. 513, I comma, c.p.p. all’art. 500, IV comma, c.p.p. costituisce concreta e corretta attuazione dell’assunto in forza del quale è inutilizzabile solo la propalazione contra alios resa da un soggetto che “volontariamente” si sia sottratto al contraddittorio delle parti e non anche nell’ipotesi in cui la volontà di questi sia stata coartata in quanto frutto di “violenza, minaccia, offerta o promessa di danaro o altra utilità”.
Anche l’art. 513 II comma, c.p.p. detta una peculiare disciplina dell’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato, citato ex art. 210 c.p.p., in linea con i principi del c.d. “giusto processo”.
La norma,[20] testualmente, statuisce che: “ … Qualora il dichiarante si avvalga della facoltà di non rispondere, il Giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l’accordo delle parti” .[21]
Anche in tal caso, dunque, le dichiarazioni non assunte in contraddittorio non possono essere poste a base del convincimento giudiziale se non consti l’accordo delle parti; ciò in applicazione del principio dispositivo della prova, in ossequio al quale è ammissibile una iniziativa probatoria officiosa solo in via residuale[22] ed in chiave meramente integrativa del quadro probatorio come delineatosi ad iniziativa di parte.
 
3 – Il difficile inquadramento dell’"imputato in procedimento connesso" nella figura processuale di “teste”,ontologicamente connotata da endogena carenza di interesse e dalla “immodificabilità” del relativo status.
 
 
 
Dal quadro normativo come delineato anteriormente alla entrata in vigore della legge c.d. attuativa del giusto processo emergeva una figura di dichiarante la cui regolamentazione, sia pure definita “ibrida”, in realtà, risultava fondata su un assunto più che coerente.
La scelta positiva di rendere applicabili all’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato disposizioni tipicamente operanti con riferimento tanto alla testimonianza quanto all’esame dell’imputato[23] era sintomatica della acquisita consapevolezza della impossibilità di procedere ad una reductio ad unum dell’istituto in parola.
 Non può revocarsi in dubbio che tale soluzione abbia costituito, per lungo tempo, un compromesso legislativo da rivisitare.
Tuttavia, il precedente tessuto normativo, a cui andava riconosciuto – primo fra tutti – il merito di preservare incondizionatamente il ius tacendi esistente in capo all’imputato, appariva quantomai coerente con l’intero impianto ordinamentale.
Nel momento in cui si tentato di operare un trade off tra l’inviolabile diritto di difesa e l’esigenza di non dispersione di elementi ad efficacia probatoria, si è finiti, inevitabilmente, con il far vacillare l’intero impianto processsual-penale di stampo originariamente accusatorio.
Detta operazione concettuale non appare corretta in quanto gli elementi posti a confronto non risultano reciprocamente fungibili.
Un termine di paragone, infatti, è costituto da un diritto a tutela rafforzata, solennemente consacrato nella nostra Carta Fondamentale, mentre l’altro parametro si sostanzia in una mera esigenza procedurale, di matrice emergenziale.
Sembrano, dunque, confermati i timori di quanti pronosticavano futuri incerti del “puzzle normativo[24] sulla nuova prova dichiarativa, “talmente irto di difficoltà interpretative da costringere tecnici e comuni cittadini a faticose, quanto tremolanti ricostruzioni, consumate in una lunga stagione di prassi giudiziarie assolutamente divergenti”.
Deve, pertanto, ritenersi che l’intervento normativo realizzato con la legge n. 63/01 abbia, in buona sostanza, determinato la “definitiva scomparsa della categoria dogmatica del testimone[25] ed abbia finito col degradare la tradizionale fonte di prova orale nonché la singolare figura del teste assistito “da variabili indipendenti del sistema processual-penale a mere variabili dipendenti di complessi meccanismi (endo o inter) processuali”.[26]
Ontologicamente, la figura del testimone si connota per la assoluta estraneità[27] del dichiarante in relazione ai fatti oggetto della deposizione e per la conseguente originaria[28] carenza di interesse[29] in rapporto all’oggetto dell’accertamento penale.           
Ma cosa si intende per “interesse”?
Non appare revocabile in dubbio che il concetto di “interesse” vada inteso in una accezione processuale e non sostanziale.
Avendo, tuttavia, la giurisprudenza correlato il concetto di “interesse” a quello di “estraneità” del dichiarante rispetto ai fatti sub iudice, in verità, dovrebbe ritenersi che la assenza di interesse del propalante debba sussistere anche dal punto di vista sostanziale.
Nell’ipotesi dell’imputato in procedimento connesso o collegato, deve verosimilmente ritenersi che l’interesse “sostanziale” sussista in tutti i casi in cui dalla eventuale affermazione di responsabilità di un correo possa conseguire il riconoscimento della estraneità ai fatti del dichiarante.
La nozione di interesse “sostanziale” è scindibile in quella di interesse alla “dichiarazione” ed interesse all’ “accusa”.
Può ritenersi sussistente l’interesse alla “dichiarazione” nell’ipotesi in cui il coimputato si determini a rendere una propalazione dal contenuto “neutro” ma dalla quale può conseguire comunque un vantaggio in senso sostanziale per colui che la rende.
Si faccia l’esempio del coindagato, il quale decida di assumere un contegno collaborativo allo scopo di “provocare” il consenso del Magistrato del Pubblico Ministero necessario per poter accedere al rito alternativo di cui all’art. 444 c.p.p.
L’interesse all’ “accusa” può ritenersi sussistente nelle ipotesi in cui, esistendo una interferenza tra i fatti sub iudice, dalla esclusione o dalla ammissione di determinate circostanze possa conseguire la affermazione di estraneità rispetto ai primi del propalante.
L’interesse alla “dichiarazione” o l’interesse all’“accusa”, tuttavia, sono riscontrabili anche nell’ipotesi in cui, il dichiarante sia, per così dire, un propalante “qualificato”.
Si pensi al collaborante di giustizia il quale può astrattamente essere titolare di un interesse di natura sostanziale che può sostanziarsi nella fruizione dei benefici premiali.[30]
In una tale evenienza, il Magistrato del Pubblico Ministero sarà certamente incline a fornire il proprio consenso essendo, tra l’altro, ben consapevole di poter – una volta intervenuta la definizione della posizione processuale del dichiarante – ottenere il recupero anche forzoso di dati conoscitivi che, diversamente, sarebbero andati dispersi.
Si pensi, inoltre, all’ipotesi in cui il dichiarante sia anche collaborante di giustizia, ammesso al programma di protezione, circostanza da cui, come è ben noto, consegue la possibilità di fruizione di benefici premiali.
 In siffatta evenienza, si ritiene che sussista un sinallagma “informazioni-dichiarazioni-contro premi”[31] che mina fortemente la credibilità intrinseca del propalante.
Dal punto di vista processuale, invece, il legislatore del 2001 con la clausola di sicurezza contenuta nell’art. 197bis, V comma, c.p.p. in forza della quale “in ogni caso le dichiarazioni rese dai soggetti di cui al presente articolo non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette”, ha inteso scongiurare la esistenza di un “interesse” procedurale all’accusa.
Deve, cioè, ritenersi che alcun effetto – pregiudizievole e non – possa prodursi sulla posizione giuridica del dichiarante.
Tuttavia, anche questo assunto non pare essere un assioma inattaccabile ove solo si consideri la labile dizione utilizzata dal legislatore che fa riferimento al “fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette”.
Anche in tal caso non è chiaro se debba farsi rinvio al “fatto” in senso naturalistico o al “fatto” come processualmente accertato.
Le conseguenze sarebbero diverse.
Altro elemento caratterizzante la figura dogmatica del “testimone” è rappresentato dalla intangibilità e dalla immodificabilità della veste processuale da questi assunta.
Al lume del modificato assetto normativo, di contro, assistiamo a variazioni in itinere del camaleontico status del propalante,[32] mutevole conseguentemente alla verificazione di fatti procedurali esogeni e contingibili.[33]
Le nozioni di testimone comune, di testimone assistito e di persona di cui all’art. 210 c.p.p., nel nuovo assetto normativo, non delineano più i “contorni di entità preesistenti alla dinamica del processo penale, ma sono figure che nascono, si modificano e muoiono nell’ambito di «quello» specifico processo, secondo una complessa combinazione di criteri e sulla base di singole evenienze ed accadimenti processuali (recte: procedimentali)”.
Allo stato, sarebbe, dunque, preferibile – e, soprattutto maggiormente coerente – non qualificare più il propalante come “testimone” o come “teste assistito” o come “soggetto ex art. 210 c.p.p.” bensì meramente come “dichiarante”, stante, inoltre, la mutevolezza dello status rivestito dal medesimo nell’ambito del procedimento in cui riferisce erga alios.
Come si evidenzierà in prosieguo, la novellata disciplina normativa non solo delinea una molteplicità di figure eterogenee di “propalante”, per quanto consente che al verificarsi di variabili esogene, possa verificarsi una mutazione dello status processuale dell’imputato in procedimento connesso o collegato.[34]
 Il soggetto indicato come testimone comune nella lista di cui all’art. 468 c.p.p., ad esempio, potrebbe immediatamente vedere mutata la propria qualifica processuale per effetto della presentazione a suo carico di una denuncia per concorso nel reato oggetto della regiudicanda o per altro reato connesso e collegato.
Tale variazione si produrrebbe anche nell’ipotesi in cui la presentazione all’Autorità Giudiziaria della denuncia fosse meramente strumentale o addirittura fosse intervenuta in presenza di errore di persona.
Il successivo eventuale accertamento della assoluta estraneità del soggetto in questione, persino ad intervenuta definizione del procedimento a proprio carico con sentenza di assoluzione divenuta irrevocabile, non potrà mai valere a far rivivere la perduta qualità di testimone comune.
Per converso, una persona imputata per reato connesso o collegato per la quale si proceda separatamente, che inizialmente abbia assunto lo status di persona ex all’art. 210 c.p.p., potrebbe essere «promossa»[35] al rango di testimone assistito nell’ipotesi in cui, medio tempore, sia passata in giudicato la sentenza emessa a proprio carico.
Detto inquadramento processuale potrebbe nuovamente mutare, determinandosi, in tal modo, una reviviscenza della originaria qualifica soggettiva, nell’ipotesi in cui la Pubblica Accusa dovesse ipotizzare a carico del dichiarante medesimo il reato di favoreggiamento.
E’ facilmente intuibile che la assunzione di una qualifica soggettiva piuttosto che di una altra può dipendere da circostanze spesso arbitrarie, addirittura, in alcuni casi, senza un preventivo filtro da parte della Autorità Giudiziaria[36].
Ci si riferisce al momento della assunzione dello status di persona sottoposta ad indagini.
Come è ben noto, “persona sottoposta ad indagini” è la persona alla quale il reato è stato attribuito tanto nella denunzia del comune cittadino che nella informativa di polizia giudiziaria o, infine, nella notitia criminis acquisita d’iniziativa dal Pubblico Ministero.
Da ciò consegue che alla nozione di «persona sottoposta ad indagini» sono riconducibili fattispecie eterogenee.
Anche un soggetto che abbia riportato una denuncia in quanto vittima di calunnia o a seguito di errore di persona potrà considerarsi “sottoposta ad indagini” con tutte le conseguenze sul piano giuridico che ne derivano.
Si pensi, inoltre, ai casi in cui l’unica fonte di prova a carico dell’imputato sia rappresentata dalla testimonianza della persona offesa.
Nell’ipotesi in cui si proceda, ad esempio, per un tentativo di concussione o di estorsione o per reati di violenza sessuale, l’imputato potrebbe strumentalmente denunciare il proprio accusatore per calunnia o per falsa testimonianza, determinando sul piano processuale l’effetto di “degradare” la fonte di prova.
Il peculiare regime di valutazione probatoria delle dichiarazioni assunte da un teste assistito costituirebbe una efficace arma difensiva per l’imputato.
La inidoneità probatoria della delazione resa dal testimone assistito ad assurgere a rango di elemento autonomamente “probante” potrebbe costituire una tecnica estremamente favorevole all’imputato che si sia reso responsabile di reati che non abbiano lasciato “tracce” .
Si faccia il caso di una violenza sessuale in cui la vittima del reato non abbia riportato lesioni o segni di violenza sul corpo.
Qualora, a seguito della denuncia sporta artatamente dall’imputato, la persona offesa-testimone venga “retrocessa” a “teste assistito” (od anche a soggetto ex art. 210 c.p.p., a seconda dello stato o degli esiti della denuncia), in assenza di riscontri estrinseci di cui all’art. 192, III comma, c.p.p. (applicabile al caso ipotizzato in forza dell’art. 197-bis, VI comma, c.p.p.) il reo medesimo potrebbe conseguire la totale impunità, quantomeno ai sensi dell’art. 530, cpv, c.p.p.[37]
A ciò si aggiunga che dal diverso modus operandi di alcune forze di polizia potrebbe derivare situazioni di evidente disparità di trattamento.
Si faccia il caso di un tossicodipendente colto in possesso di sostanza stupefacente, verosimilmente impiegabile per uso personale.
In presenza di detta detenzione alcune forze di polizia procedono di propria iniziativa a segnalare il soggetto al prefetto ex art. 75 D.P.R. n. 309/1990 in modo da consentire al Pubblico Ministero di iscrivere, fin dall’inizio, il procedimento nello speciale registro degli atti non costituenti reato (c.d. mod. 45).
Altri organi di polizia, invece, procedono al sequestro della sostanza rinvenuta, denunciando il detentore ex art. 73, D.P.R. n. 309/1990.
 Nel primo caso, dunque, In casi assolutamente sovrapponibili, dunque, il soggetto in questione potrà essere chiamato a testimoniare contro il fornitore di sostanza stupefacente nel prosieguo delle indagini identificato; nel secondo caso – anche dopo l’archiviazione della relativa posizione – non potrà mai essere sentito come testimone comune, con la conseguenza che, in mancanza di ulteriori elementi di riscontro lo spacciatore non potrà essere ritenuto penalmente responsabile.
Si faccia, inoltre, il caso in cui un soggetto denunci falsamente lo smarrimento di un assegno dopo averlo regolarmente negoziato.
Alcune forze di polizia, in tali frangenti, escutono coloro che abbiano negoziato l’assegno in questione ai sensi dell’art. 350 c.p.p.; altre, invece, assumono a sommarie informazioni detti soggetti a norma dell’art. 351 c.p.p.
In tali situazioni, accade che alcuni Pubblici Ministeri procedono a iscrivere come indagati i possessori del titolo, salvo poi richiedere l’eventuale archiviazione della relativa posizione.
Detti soggetti, vittime di calunnia, in quest’ultimo caso, non possono assumere lo status di testimoni comuni nel processo per calunnia instauratosi a carico di colui che abbia effettivamente negoziato il titolo e ne abbia denunciato falsamente lo smarrimento.
Anche in detta ipotesi il reo potrebbe farla franca
Con le conseguenze sopra dette in tema di formazione e valutazione della prova.
Si faccia, inoltre, l’ipotesi in cui, accanto al cadavere della vittima di un omicidio, sia stata sorpresa una persona che, per caso, abbia assistito al fatto e che poi sia stata sottoposta a perquisizione ed all’assunzione di informazioni ex art. 350 c.p.p.
Anche in una tale evenienza, il testimone oculare – per caso fortuito ritenuto un potenziale indiziato – non potrà assumere la veste processuale di testimone comune e, dunque, non potrà rendere dichiarazioni pienamente probanti contro l’assassino.
Senza considerare, poi, che gli stessi testimoni a discarico potrebbero essere degradati a “minorata” fonte di prova ove il Magistrato del Pubblico Ministero dovesse ritenete di contestare ai medesimi reati avvinti da un vincolo di collegamento con i fatti “principali” ex art. 371, II comma, lett.b), c.p.p., quali, ad esempio, i reati di favoreggiamento reale o di false informazioni al Pubblico Ministero.
Accanto agli esempi appena esaminati è possibile affiancare altre ipotesi, foriere di non pochi problemi applicativi, in cui, addirittura, è possibile che si sovrappongano due diverse vesti processuali del propalante, il quale, su taluni aspetti dell’accertamento penale, può rivestire la qualifica soggettiva di “imputato” ed in altri di “teste assistito”.
Si faccia l’esempio del dichiarante a carico del quale si procede solo per taluni dei reati satellite presumibilmente commessi da un associato, in attuazione del programma criminoso del sodalizio di stampo mafioso.
In tale ipotesi, il dichiarante rivestirà la veste di testimone assistito ex art. 197, II comma, c.p.p. solo con riferimento alla fattispecie associativa mentre non potrà essere sentito come testimone si fatti relativi ai reati satellite che costituiscono “fatto proprio” del dichiarante-imputato, con tutte le prevedibili difficoltà applicative nella conduzione dell’esame testimoniale.
Qualora, inoltre, nelle more, dovesse ad esempio subentrare una sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti a carico del dichiarante – nell’ambito del procedimento ad quem – con riferimento ai reati satellite, il medesimo muterebbe la propria qualifica soggettiva, potendo essere sentito come testimone nell’ambito del procedimento a carico dell’associato, a norma dell’art. 197, I comma, c.p.p. 
La duttilità e la plasmabilità[38] della veste processuale del dichiarante,[39] oltre a porsi in assoluto contrasto con la immutevolezza della figura del “testimone” stricto sensu, aprono il varco ad una serie di possibili strumentalizzazioni[40] quali ad esempio un artato ricorso alla definizione del procedimento con il rito del c.d. “patteggiamento”, onde far venir meno la condizione di incompatibilità con l’ufficio di testimone del dichiarante.
L’ulteriore problema, che nel prosieguo costituirà oggetto della presente analisi, è inoltre rappresentato dal regime giuridico delle propalazioni rese anteriormente alla assunzione della nuova veste processuale.
 
 
 
4. Il diritto di difesa tra diritto al silenzio ed obbligo di parola. La parziale indelegabilità del diritto di difesa materiale.
 
 
Una nota definizione della difesa penale ne riporta il contenuto e l’essenza al “complesso di attività processuali spiegate dalla parte e dai loro difensori per fare valere i propri diritti ed interessi nel procedimento in ordine alla verificazione della fondatezza o meno dell’accusa mossa all’imputato (e in via surrogatoria, per il caso di sua insolvibilità, e limitatamente al pagamento dell’ammontare della multa o dell’ammenda, al civilmente obbligato per la pena pecuniaria) nonché dell’ammissibilità e fondatezza dell’azione riparatoria nei confronti dello stesso imputato e del responsabile civile”.[41]
Dalla definizione così come riportata, risulta esclusa la posizione della parte civile in forza della argomentazione secondo cui il patrocinio reso in favore di detto soggetto processuale si sostanzia, in effetti, in una “vera e propria accusa privata”.[42]
Alla stessa stregua dovrebbe oggi escludersi dal novero della difesa penale anche l’assistenza tecnica resa in favore degli enti esponenziali che, più ancora della parte civile, svolgono attività d’accusa privata in aggiunta alla Pubblica Accusa di cui il Magistrato del Pubblico Ministero risulta rappresentante.
Detto orientamento dottrinario fonda le proprie basi sull’impostazione antagonistica dell’accusa, riducendo l’ambito della nozione di difesa a “tutto il complesso di attività processuali poste in essere per contrastare o almeno per ridurre quanto più possibile il fondamento e la rilevanza giuridica dell’imputazione penale (già elevata o in via di formulazione) e della domanda civile risarcitoria in relazione allo stesso fatto”.[43]
Tuttavia, prescindendo da tale impostazione statica ed esaminando il concetto di “difesa” in una prospettazione dinamica, la difesa penale può definirsi come il “complesso degli atti compiuti dalle parti o dai soggetti processuali comunque abilitati e dai rispettivi difensori a protezione della loro posizione processuale sia a contrasto dell’accusa o della domanda risarcitoria sia a sostegno della pretesa penalistica o civilistica fatta valere nel procedimento”.[44]
A detta impostazione, notevolmente ampia e certamente poco rigorosa, ad avviso di una parte della dottrina,[45] andrebbe riconosciuto il merito di cogliere l’essenza tecnico-giuridica dell’attività difensiva, ponendo sullo stesso piano parti e soggetti qualificati, indipendentemente dalla loro posizione in rapporto all’accusa pubblica o all’azione civile.
Tuttavia, vi è da dire che dalla eccessiva esaltazione del ruolo del soggetto qualificato potrebbe conseguire uno svilimento della componente “materiale” del diritto di difesa che, di contro, riveste un ruolo preponderante essendo, in alcune ipotesi, addirittura idonea ad elidere in toto gli effetti prodottisi a seguito di attività defensionale posta in essere dal soggetto qualificato.
L’elemento “materiale” della difesa, come è noto, assunse una valenza predominante negli anni ’70, in una “esasperata” accezione di esclusione dell’assistenza del difensore.
La questione della c.d. “autodifesa esclusiva” intesa quale diritto dell’imputato di “difendersi da solo” si giustappone alla “pretesa di non difendersi in qualunque modo” che deve ritenersi, quest’ultima, tipica estrinsecazione in forma negativa della difesa personale.[46]
 II problema ebbe modo di prospettarsi in termini clamorosi in relazione ad alcune particolari vicende giudiziarie nel vigore della precedente disciplina che, pur in forma residuale ed in via di eccezione, ritagliava uno spazio all’autodifesa esclusiva per le ipotesi di « contravvenzione punibile con l’ammenda non superiore a lire tremila o con l’arresto non superiore ad un mese, anche se comminati congiuntamente» (art. 125 c.p.p. 1930 ).
La previsione fornì la base normativa per eccepire la legittimità della regola generale (artt. 125 e 128 c.p.p.) che, prescrivendo la necessaria assistenza in giudizio del difensore, precludeva ogni disponibilità della difesa tecnica da parte dell’imputato.
Per il particolare contesto che la originò, la questione, già risolta negativamente dalla dottrina nel dibattito accesosi a cavallo tra Ottocento e Novecento,[47] vide il contrapporsi di difformi orientamenti interpretativi.
Sottolineando il profilo di libertà a contenuto negativo implicito nel diritto inviolabile di difesa si asserì, da un lato, la rinunciabilità della difesa tecnica in una concezione individualistica della difesa come diritto soggettivo.[48]
Soluzione negata da chi, d’altro canto, accentuava la valenza di garanzia della difesa come condizione oggettiva di un corretto svolgimento del processo, per un interesse pubblico generale che trascende quello personale dell’imputato.[49]
In posizione mediana si situò chi, rimarcando la natura ideologica del problema, suggestivamente propose a mo’ di correttivo la configurazione di un avvocato « garante » che, senza espropriare l’imputato del suo diritto di autodifesa, si ponesse quale «organo processuale di giustizia» e potenziale consulente extragiudiziale contro i rischi di scelte (auto) difensive controproducenti.[50]
Chiamata in causa due volte,[51] la Corte costituzionale dichiarò infondate le relative eccezioni evitando tuttavia di impegnarsi sul tema specifico della difesa come diritto e della difesa come garanzia quali autonomi diritti entrambi deducibili dall’art. 24, II co., Cost., invero, più che per ratificare la disciplina allora vigente, al fine di non pregiudicare in scenari normativi futuri una diversa composizione dell’equilibrio tra autodifesa e difesa tecnica.
Con l’introduzione del nuovo codice di procedura penale, il legislatore non ha dedicato particolare attenzione alla problematica della autodifesa esclusiva avendo preferito, con la codificazione dell’art. 97 c.p.p., esaltare il profilo pubblicistico del difensore accanto a quello contrattualistico professionale tipico della sua posizione.
Resta da segnalare che, sullo sfondo di una soluzione necessitata dalla scelta del processo di parti, rimane un profilo di accentuata problematicità. Come dimostra l’esperienza di altri ordinamenti, sussiste un rapporto di reciprocità tra difesa tecnica e autodifesa esclusiva nel senso che la « domanda » di autodifesa si riduce ove sia assicurata un’efficiente assistenza legale.[52]
La componente non tecnica del diritto di difesa, oggi, svincolata del tutto dalla sua matrice originaria, ricopre una posizione fondamentale in quanto costituisce estrinsecazione di un “diritto personale dell’accusato o della persona sottoposta alle indagini di enunciare la propria verità sui fatti e di esprimere le proprie opinioni, ragioni e conclusioni sull’accusa”.[53]
Il diritto di “autodifesa”, a differenza di quanto accade nella nostra Carta Fondamentale, trova diretto riconoscimento nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[54] che all’art. 6, III comma, lett. c), positivizza il diritto dell’ “accusato” a “difendersi personalmente o con l’assistenza di un difensore di sua scelta…”.
La Carta Europea, dunque, colloca in posizione paritetica tanto la “difesa materiale” quanto la “difesa tecnica”, lasciando alla libera scelta de soggetto sottoposto a procedimento penale l’una o l’altra opzione.
Nel nostro ordinamento interno, non vi è disposizione normativa dall’analogo contenuto, vigendo, di contro, il principio della obbligatorietà della difesa tecnica, cristallizzato nell’art. 97 c.p.p.
Con ciò, tuttavia, il legislatore nazionale non pare abbia inteso svilire la componente materiale del diritto di difesa che trova, tra l’altro, ampiamente riconoscimento nella disposizione a contenuto generale di cui all’art. 99 c.p.p.
La norma testé richiamata, rubricata “estensione al difensore dei diritti dell’imputato” Al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo. L’imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del Giudice.
Tale “diritto elementare”[55] trova riconoscimento, nel nostro ordinamento, in molteplici istituti.
Si pensi, ad esempio, a tutte le ipotesi di accessibilità a riti speciali, disciplinate agli artt. 438 c.p.p. e ss., che impongono al difensore di essere munito di procura ad hoc allo scopo di poter richiedere, nell’interesse del proprio assistito, una definizione “alternativa” del procedimento.
Come è agevolmente rilevabile, potrebbe ipotizzarsi il caso in cui anche una scelta difensiva “tecnica” orientata nel senso di una richiesta di c.d. “patteggiamento” – motivata dalla assoluta solidità dell’impianto accusatorio nonché dalla sussistenza di schiaccianti prove a carico dell’imputato od anche dalla possibilità di subordinare l’accesso a detto rito “alternativo” alla fruizione del beneficio della sospensione condizionale della pena – potrebbe essere sostanzialmente vanificata ove non constasse la volontà concorde dell’imputato medesimo.
Ancora, si consideri la disciplina dell’esame dell’imputato di cui al combinato disposto degli artt. 208 e 503 c.p.p. a norma del quale l’imputato è esaminato se ne fa richiesta o se vi consente ed, inoltre, deve in ogni caso avere la parola per ultimo.[56]
Dette previsioni normative costituiscono indubbia ipostatizzazione del diritto di autodifesa il quale, affinchè possa esprimersi con approfondita cognizione di causa e, dunque, dopo che le prove di accusa siano state ritualmente rese formate nel contraddittorio delle parti comunicate e contestate con invito a contraddire o comunque ad esprimere il proprio punto di vista sulla fondatezza dell’imputazione e sulla sua correttezza tecnico-giuridica.
Secondo una impostazione dottrinaria,[57] anche la disposizione contenuta nell’art. 523 c.p.p.[58] sarebbe un elemento “emblematico dell’estensione della tutela del diritto di autodifesa”.
Tuttavia, detta prospettazione non pare condivisibile atteso che le arringhe difensive costituiscono, senza dubbio, la massima espressione della “difesa tecnica”.
Nella norma disciplinante il momento della “discussione finale”, infatti, culmina l’attività defensionale espletata dal soggetto qualificato nel corso del procedimento penale.
Può, invece, aderirsi alla tesi menzionata solo con riferimento al comma quinto della disposizione in esame, nella parte in cui attribuisce all’imputato, a pena di nullità, il diritto di avere la parola per ultimo, ove il medesimo lo richieda.
Altra ipotesi riconducibile alla nozione di “difesa materiale” – o “autodifesa”[59] [60] – è rinvenibile nell’ art. 571, IV comma, c.p.p. in forza del quale “l’imputato, nei modi previsti per la rinuncia, può togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo difensore…”[61].
Come è agevolmente rilevabile, detta disposizione attribuisce all’imputato una facoltà costituente estrinsecazione di un “potere decisionale” autonomo e del tutto svincolato dalle scelte tecnico-giuridiche operate dal patrocinatore, addirittura consentendo all’imputato medesimo di rimuovere gli effetti dell’attività espletata dal difensore.
Altra ipotesi di “autodifesa” dell’imputato è riscontrabile nella disposizione di cui all’art. 589 c.p.p.[62] nella parte in cui si statuisce che il difensore può rinunciare ai motivi di gravame solo se munito di procura ad hoc, rilasciatagli, a tal fine, dal proprio assistito.
Come emerge chiaramente dalla disamina delle ipotesi in cui è ravvisabile l’attribuzione all’imputato di margini, per così dire, “esclusivi” di difesa, è possibile ritenere che, nel nostro ordinamento, vi siano dei margini indelegabili di autodifesa che, in quanto espressione di diritti personalissimi[63] dell’imputato, non possono essere surrogati dalla difesa tecnica.
Ovviamente la pregnanza attribuita dal legislatore a tali ambiti di “difesa materiale” non pregiudica in alcun modo la centralità della difesa tecnica a cui, secondo un orientamento dottrinario,[64] va attribuita l’ulteriore valenza di garanzia dell’effettività della par condicio partium.
Dopo aver proceduto ad una disamina delle ipotesi normativamente predeterminate nelle quali è ravvisabile una maggiore accentuazione della componente materiale del diritto di difesa, appare meritevole di menzione una recentissima tendenza introdotta da alcuni giudici di merito[65] che consiste nel consentire all’imputato di condurre direttamente l’esame incrociato.
Il menzionato innovativo orientamento, secondo alcuni autori,[66] appare saldamente ancorato ed in linea al dettato normativo, di cui all’art. 111 della Costituzione, che, dando rango costituzionale ai principi del "giusto processo", prescrive alla legge di assicurare alla persona accusata di un reato la facoltà, davanti al Giudice, "di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico".
Siffatta interpretazione, pur animata dal lodevole intento di garantire l’imputato attribuendo al medesimo un ruolo attivo nell’ambito del procedimento penale, si pone, tuttavia, in contrasto con il principio di obbligatorietà della difesa tecnica vigente nel nostro ordinamento di cui costituisce naturale corollario la tassatività delle ipotesi in cui è consentito all’imputato intervenire personalmente.
A ciò si aggiunga che la conduzione dell’esame dei testimoni e delle parti private è scandita da precise regole codificate che presuppongono il possesso di cognizioni tecniche specifiche, di norma, non possedute dall’imputato.[67]
In più, vi è da dire che mentre l’avvocato, nell’espletamento della attività defensionale, è vincolato al rispetto dei canoni deontologici l’imputato sarebbe libero di condurre anche un esame in violazione della fairness processuale.[68]
5 – Il ius tacendi quale pregnante espressione del diritto di difesa.
 
 
Il diritto al silenzio esistente in capo al soggetto sottoposto a procedimento penale, costituisce un pilastro fondamentale ed ineliminabile del nostro sistema. 
Esso rappresenta l’ipostatizzazione del diritto di difesa[69] nella sua componente materiale[70] ed, in quanto tale, trova il suo fondamento normativo – come evidenziato anche dalla Consulta[71] nel giudizio conclusosi con la declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 197-bis, II co., c.p.p. sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 101, 111, 112 Cost. dal Tribunale di Milano con ordinanza del 22 aprile 2002 – direttamente nell’art. 24 della Carta Fondamentale che cristallizza il principio della inviolabilità del diritto di difesa[72] costituendone il “corollario essenziale”.[73]
Secondo altro orientamento dottrinario,[74] il principio secondo cui nessuno può essere obbligato a deporre contra se, andrebbe ricondotto all’art. 198 c.p.p. che, al secondo comma, recita : “il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale.[75]
Tale asserto non pare condivisibile per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, la disposizione menzionata, per espressa volontà del legislatore, sembra operare con riferimento al solo soggetto che assume lo status di “testimone”.
In secundis, non pare che la “facoltà di non rispondere” di cui all’art. 64 c.p.p. possa essere equiparata, quanto ad estensione e portata, alla generica insussistenza a carico del teste di un obbligo a “deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”.
Per incidens, si noti che la locuzione utilizzata dal legislatore all’art. 198, II comma, c.p.p. – “…potrebbe assumere…” – è indicativa della voluntas legis di proteggere il testimone circa l’emersione di ulteriori fatti [76] da cui potrebbe emergere una sua responsabilità penale ovverosia fatti diversi da quelli relativamente ai quali è già emersa una responsabilità penale.
Dunque, la norma non potrebbe in alcun modo fondare la facoltà di non rispondere con riferimento a fatti oggetto del procedimento a carico del dichiarante.
L’operatività dell’art. 198, II comma, c.p.p., inoltre, è subordinata all’espletamento di un giudizio di valore relativo alla idoneità dei “fatti” oggetto della deposizione a generare una responsabilità penale a carico del dichiarante.
Diversamente è a dirsi per la garanzia cristallizzata nell’art. 64, III comma, c.p.p. che attribuisce al soggetto sottoposto ad interrogatorio la “facoltà di non rispondere ad alcuna domanda”, prescindendosi, in tale ipotesi, da qualsivoglia valutazione preliminare.
Accedere all’una o all’altra tesi è circostanza non priva di conseguenze sul piano pratico.
Ritenere, infatti, che il ius tacendi costituisca un diritto di derivazione ontologicamente costituzionale fa derivare serie di implicazioni connesse alla inviolabilità e, dunque, alla indisponibilità[77] del diritto de quo.
 La correlazione, sul piano semantico e giuridico, tra i due assiomi è stata evidenziata dalla medesima Corte Costituzionale[78] che nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 31 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, promosso con ordinanza emessa l’11 ottobre 1994 dal Pretore di Torino, ha avuto modo di affermare che “speculare alla inviolabilità del diritto di difesa è la irrinunciabilità di esso, quali ne siano le concrete modalità di esercizio…”.
Da tale asserto, dunque, dovrebbe discendere il concetto di indisponibilità del diritto al silenzio che, pertanto, non potrebbe costituisce oggetto di negozi processuali dispositivi.
Nonostante, ad avviso di chi scrive, tale impostazione dovrebbe costituire l’unica prospettabile in quanto “costituzionalmente orientata”, il legislatore non pare abbia ritenuto di dover accedere a tale opzione interpretativa atteso che numerose sono ipotesi normative che contemplano ipotesi di disponibilità del ius tacendi.[79]
Secondo la diversa impostazione dottrinaria,[80] dunque, la facoltà dell’imputato di astenersi dal deporre (rectius il diritto al silenzio) andrebbe ricondotta all’art. 198 c.p.p. esistendo “garanzie calibrate alla specifica domanda (artt. 198, comma 2 e 63 c.p.p.)[81] ”.
In base a tale prospettazione, dunque, il ius tacendi andrebbe degradato a mera facoltà processuale, come tale rinunciabile e “negoziabile” e dunque “calibrabile” da interventi legislativi; ciò per rendere il dibattimento "luogo della parola".[82]
Ovviamente, si ritiene di non poter accedere a tale tesi che, negando la derivazione costituzionale del diritto al silenzio, finirebbe in buona sostanza col giustificare qualsivoglia modifica normativa volta a comprimere ad libitum il diritto de quo.
Per completezza espositiva, è da evidenziare una terza impostazione[83] in forza della quale il diritto al silenzio di matrice costituzionale andrebbe ancorato al c.d. “fatto proprio” ovverosia al fatto ascritto all’imputato nel procedimento a proprio carico, laddove, di contro, l’operatività dell’art. 198, II co., c.p.p. subentrerebbe con riferimento ad “ulteriori reati” che il medesimo imputato abbia commesso.
Per le ragioni sopra esplicitate, neanche questa impostazione intermedia sembra condivisibile.
Ulteriore corollario della indisponibilità e della irrinunciabilità del diritto al silenzio è costituito dalla unicità del medesimo e dalla conseguente inscindibilità.
Il tentativo di frammentazione del ius tacendi e di modulazione del medesimo in base ad evanescenti criteri discretivi costituisce operazione estremamente delicata e “pericolosa” in quanto astrattamente idonea a compromettere il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali in materia di falsa testimonianza.
Il legislatore del 2001 ha inteso individuare un differente regime tra il c.d. “fatto proprio” – in relazione al quale viene riconosciuto il diritto al silenzio dell’imputato – ed il c.d. “fatto altrui” – in riferimento al quale l’imputato assume l’obbligo di verità, a norma dell’art. 197-bis, c.p.p.
Il “fatto proprio” è quello che si pone in termini di attribuibilità soggettiva in relazione al soggetto sottoposto a procedimento penale.
Da questa nozione, a contrariis, può inferirsi anche il concetto di “fatto proprio”.
In concreto, tuttavia, non appare così netta ed agevole la demarcazione tra i due concetti, tant’è che la stessa Consulta[84] si è vista costretta ad introdurre l’ulteriore categoria delle “dichiarazioni contigue al fatto proprio”.
E’ agevolmente rilevabile che siffatta qualificazione presta il fianco ad interpretazioni arbitrarie generando confusione oltre che sul piano dogmatico anche nella pratica conduzione dell’esame testimoniale, in quanto il Giudicante, preliminarmente al vaglio di ammissibilità di ciascuna domanda posta dalle parti, sarebbe tenuto ad effettuare una valutazione di “contiguità” della circostanza su cui verte il quesito in relazione al fatto sub iudice ascritto all’imputato nel procedimento a proprio carico.
 
 
 
6 – La ritenuta scindibilità del diritto al silenzio in relazione al “fatto proprio” ed al “fatto altrui” L’amplissimo margine di apprezzamento giudiziale.
 
 
In forza della argomentazioni esplicitate nel capitolo precedente, si perviene alla conclusione della unitarietà del diritto al silenzio che, ad avviso di chi scrive, deve ritenersi direttamente riconducibile alla Carta Fondamentale.
Da tale asserto discenderebbe, dunque, la impossibilità di frazionare il diritto de quo in relazione a contingenze processuali. 
Tuttavia, come è ben noto, il legislatore del 2001 ha ritenuto di non dover accedere a tale impostazione ritenendo che il diritto al silenzio si atteggia diversamente a seconda che il soggetto sottoposto a processo per fatti connessi assuma nel procedimento a proprio carico lo status di “imputato” o di “teste assistito”.
Come in precedenza è stato evidenziato, per “fatto proprio” si intende un accadimento che si pone rispetto all’imputato in termini di attribuibilità soggettiva, mentre per “fatto altrui” si intende un fatto non avente tali caratteristiche.
In base all’attuale assetto normativo, dunque, il ius tacendi sarebbe un elemento duttile, suscettibile di molteplici variazioni in relazione alla “intermittenza”[85] della figura dell’imputato-teste assistito.
Accanto al concetto di “fatto proprio” e di “fatto altrui”, vi è poi la nozione di “fatto inscindibile”[86] dal fatto proprio.
In verità, la categoria di creazione dottrinaria del c.d. “fatto inscindibile” non trova riscontro positivo nel dettato normativo
Poiché l’obbligo testimoniale è limitato a quei fatti altrui che siano stati oggetto delle precedenti dichiarazioni,[87] l’unico caso in cui l’escussione in qualità di teste assistito può inerire alla propria responsabilità è l’ipotesi nella quale le precedenti dichiarazioni vertano su “fatti inscindibili”.
In altre parole, soltanto allorché in precedenza l’imputato per fatti connessi teleologicamente, ex art. 12, lett. c), c.p.p., o collegato abbia reso dichiarazioni su fatti che riguardano inscindibilmente la propria e l’altrui responsabilità, è possibile che la successiva escussione come teste assistito possa vertere su «fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato oggetto del procedimento a suo carico».[88]
 E proprio in relazione a tale ipotesi che il legislatore ha riconosciuto al teste assistito la facoltà di non rispondere sul fatto proprio.
In sintesi, dunque, in presenza di “fatti inscindibili”, la facoltà di non rispondere si estende inevitabilmente anche al fatto altrui.
A tal proposito, si è osservato[89] che “se il dichiarante accetta di rispondere, la sua qualifica di teste assistito gli impone di dire la verità anche sul fatto proprio che sia inscindibilmente legato al fatto altrui oggetto delle precedenti dichiarazioni”.
A sostegno dell’asserto, viene riportato[90] l’esempio del soggetto a cui è ascritto il reato di furto che è chiamato a deporre nel procedimento relativo alla ricettazione della refurtiva, addebitata ad altra persona.
 Tale soggetto è esaminato ai sensi dell’art. 210, VI co., c.p.p. e, pertanto, può avvalersi della facoltà di non rispondere e non ha obbligo di verità.
Tuttavia, se rende dichiarazioni relative alla provenienza delle cose pertinenti al reato, egli diviene testimone assistito perché si tratta di fatti che concernono la responsabilità altrui.
 E’ evidente, però, che la provenienza della refurtiva riguarda anche la propria responsabilità in relazione al furto oggetto del procedimento a suo carico.
Pertanto, è possibile affermare che le dichiarazioni concernono inscindibilmente il fatto proprio ed il fatto altrui.
L’imputato di furto, che ha assunto la qualifica di teste assistito, può non rispondere sui fatti già dichiarati relativi alla provenienza delle cose pertinenti al reato.
Tuttavia, una parte della dottrina,[91] ritiene che se il medesimo imputato accetta, comunque, di deporre, “deve dire la verità, perché su tali fatti egli è comunque un testimone”.
Non può ovviamente condividersi, in alcun modo, detto asserto che non pare trovare riscontro positivo nella lettera della norma.
Anzi, deve sottolinearsi che la norma di cui all’art.197bis, IV co., c.p.p. è estremamente chiara nel fissare il principio secondo cui “nel caso previsto dal comma 2[92] il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti”.
Deve, tra l’altro, ritenersi che il concetto di “fatto inscindibile” sia perfettamente sovrapponibile a quello di “fatto proprio” per il quale, in ogni caso, va applicato l’art. 210, IV co., c.p.p.[93]
Secondo la – non condivisibile – prospettazione menzionata in precedenza, le dichiarazioni su fatti inscindibili rese consapevolmente dall’imputato andrebbero equiparate ad “una rinuncia alla facoltà di mentire anche sul fatto proprio”.
Detta asserzione solleva nuovamente la vexata quaestio della disponibilità di una situazione soggettiva attiva direttamente riconducibile al diritto di difesa quale diritto inviolabile e, per dirla con la Consulta, “irrinunciabile” .[94]
Inoltre, accedendo a siffatta prospettazione, si produrrebbero conseguenze aberranti.
L’imputato assunto come teste assistito che si sia determinato comunque a rendere dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri – già oggetto di sue precedenti delazioni –relativamente a fatti inscindibilmente collegati a quello per il quale si procede a suo carico potrebbe essere imputabile per il reato di falsa testimonianza.
In tal modo, il principio del nemo tenetur se detegere verrebbe degradato ad elemento meramente formale di guisa che risulterebbe totalmente svuotato della propria portata precettiva e garantistica.
Riportandoci all’esempio precedentemente esposto, dunque, in ossequio a tale impostazione, l’imputato che dovesse essere obbligato a deporre sul furto della res costituente poi oggetto di ricettazione ascritta al medesimo, si troverebbe implicitamente ad essere obbligato a confessare la propria responsabilità con riferimento al reato di cui all’art. 648 c.p., stante la natura di elemento di tipicità costitutivo della fattispecie di ricettazione rivestita dal presupposto della conoscenza della provenienza delittuosa del bene ricettato.
Pertanto, deve ritenersi che anche nell’ipotesi in cui l’imputato-teste assistito si sia determinato a rendere “consapevolmente”[95] dichiarazioni erga alios su fatti inscindibilmente connessi al fatto proprio, questi conservi il diritto al silenzio.
A detta conclusione s perviene applicando l’art. 197-bis, IV co., c.p.p. che recita: “nel caso previsto dal comma 2[96] il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti”.
Accanto a tale norma di garanzia va aggiunta la disposizione di cui all’art. 198, II co., c.p.p. che cristallizza il principio secondo cui “il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”.
 Si noti che la locuzione utilizzata dal legislatore – “…potrebbe assumere…” – è indicativa della voluntas legis di proteggere il testimone circa l’emersione di ulteriori fatti da cui potrebbe emergere una sua responsabilità penale ovverosia fatti diversi da quelli relativamente ai quali è già emersa una responsabilità penale.
Procediamo, dunque, con l’esaminare la possibile dinamica dell’esercizio della facoltà di non rispondere .
Quando ritiene che una domanda verta sul fatto proprio, il testimone assistito, anche su consiglio del difensore, può eccepire la facoltà di non rispondere.
Nell’ipotesi in cui il Giudicante ritenga che la facoltà de qua sia stata correttamente eccepita, il dichiarante tace, l’esame prosegue e l’interrogante rivolge ulteriori domande.
Se, viceversa, il Giudice ritiene che l’eccezione sia pretestuosa, perché la domanda non riguarda il fatto proprio, può avvalersi dei poteri elle gli sono riconosciuti dall’art. 207 c.p.p.[97]
Potrà, cioè, rinnovare l’avvertimento circa la responsabilità penale che consegue alla falsa testimonianza, previsto dall’art. 497 c.p.p.[98]
A questo punto è possibile che il teste persista nel silenzio, nel qual caso il Giudicante potrà trasmettere gli atti al Magistrato del Pubblico ministero perché verifichi la sussistenza di una eventuale falsa testimonianza nella forma della reticenza.
Se nel procedimento instauratosi a seguito di siffatto provvedimento giudiziale si accerta che la domanda era effettivamente autoincriminante, troverà applicazione l’art. 384, II co., c.p. – modificato ad opera della legge n. 63 del 2001, in base al quale non è punibile per falsa testimonianza chi «non avrebbe potuto essere obbligato a deporre».
Viceversa, ove si accerti che la domanda non verteva sul fatto proprio, il dichiarante sarebbe penalmente responsabile .[99]
Come si può agevolmente rilevare, la qualificazione del fatto oggetto della deposizione quale “proprio” od “altrui” implica una serie di problematiche delicatissime, in particolar modo con riferimento al rischio di una dilatazione delle fattispecie penali in materia di falsa testimonianza.
Emerge, dunque, con chiara evidenza il rischio sotteso ad una disciplina basata sul rilievo che ha la qualificazione del rapporto tra “soggetto da escutere” e “fatto per cui si procede”.
A tale insidiosa valutazione preliminare – condotta dal Magistrato del Pubblico Ministero[100] in sede di richieste di ammissione dei mezzi di prova, – si aggiunge l’amplissimo margine di apprezzamento giudiziale in merito alla ritenuta scindibilità del “fatto proprio” dal “fatto altrui”, dalla quale consegue il riconoscimento o meno del diritto al silenzio in capo all’imputato.
L’attuale tessuto normativo, dunque, conferisce al Giudicante un ruolo pregnante e centrale, in quanto è dalla valutazione rimessa alla discrezionalità – sia pure normativamente orientata – del Giudice che può discendere l’applicazione delle disposizioni in materia di falsa testimonianza.
Altra valutazione giudiziale estremamente delicata da condurre è quella finalizzata all’accertamento circa il contegno processuale serbato dall’imputato nel procedimento ad quem per l’applicabilità della ulteriore garanzia prevista dall’art. 197-bis, IV co., c.p.p. in forza della quale “nel caso previsto dal comma 1[101] il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione”.
Orbene, a seconda dell’orientamento del Giudicante si potrà ottenere una diversa applicazione della garanzia in esame.
Che tipo di vaglio condurrà il Giudice?
E’ possibile acquisire ai soli fini della conduzione del vaglio preliminare finalizzato al riconoscimento o meno del diritto al silenzio in capo all’imputato la documentazione relativa al procedimento ad quem?
Anche con riferimento alla concreta ed effettiva applicazione della norma in esame, il legislatore ha attribuito un margine discrezionale amplissimo al Giudice, che sarebbe stato preferibile ancorare a rigidi parametri normativi, conseguendo dall’esercizio di tali poteri la indiretta applicabilità di fattispecie penali incriminatrici.
Per completezza espositiva, merita alcuni cenni il regime giuridico della dichiarazioni rese dai soggetti di cui all’art.197-bis, c.p.p. su fatti diversi da quelli concernenti il “fatto proprio” od “altrui”.
Nel concetto di "fatti diversi" rientrano sia quei fatti che non concernono la responsabilità altrui, perché sono "propri" o riguardano accadimenti "neutri"; sia quei fatti altrui sui quali l’imputato non abbia ancora reso dichiarazioni.
 In tutti questi casi resta fermo il meccanismo consueto: l’imputato di reato collegato o connesso teleologicamente mantiene il suo status originario, che consiste nella facoltà di tacere e di mentire impunemente; tuttavia, se nel prosieguo dell’esame rende dichiarazioni che concernono fatti altrui, assume la qualifica di teste in relazione a tali fatti.
Tale meccanismo opera per tutto il corso dell’esame.
Ogni domanda su nuovi temi di prova concernenti la responsabilità altrui pone l’imputato-teste assistito nell’alternativa tra tacere o rispondere.
Una volta che abbia reso dichiarazioni su fatti altrui, egli assume la qualifica di testimone assistito.
 
 
 
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Giurisprudenza Costituzionale
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  • Corte Costituzionale, Ord. n. 202/04, in http://giurcost.org/decisioni/2004/0202s-04.html.
  • Corte Costituzionale, ordinanza n. 36 del 14-26.02.2002.
  • Corte Costituzionale, ordinanza n. 214 del 20.05.2002.
  • Corte Costituzionale, sent. n. 294 del 17.07.00, in Cass. Pen., 2001, 358.
  • Corte Costituzionale, sent. n. 294, dell’ 11.07.2000, in Indice Penale, 2000, 1263, nota di CONTI ed in Cass. pen., 2001, 755, nota di FANULI-LAURINO, Incompatibilità a testimoniare ed archiviazione nuovamente davanti alla Consulta: una svolta interpretativa di rilevanti implicazioni.
  • Corte Costituzionale, sent. n. 144 del 4.5.95, in http://www.giurcost.org/decisioni/1995/0144s-95.htm.
  • Corte Costituzionale, sentenza n. 450 del 30.12.1997, annotata in Cass. Pen., 1999, 809.
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  • Corte Costituzionale, sent. n. 125, del 10 ottobre 1979.
  • Corte Costituzionale, sent. n. 53 del 29.05.1968, 807, con note di DOMINIONI, Prevenzione criminale e diritto di difesa;
  • Corte Costituzionale, sent. n. 33 del 28.04.1966, in Giur. cost., 1966, 339, con nota di CHIAVARIO, Istruzione pretorile ed interrogatorio dell’imputato prima della sua citazione in giudizio;
  • Corte Costituzionale, sent. n. 122 del 13.12.1966, con nota di GREVI, Perdono giudiziale e diritto di difesa nell’istruzione minorile;
 
Giurisprudenza di Legittimitá
  • Cass. SS.UU., sent. n. 36267 del 30.05-31.10.06, in Guida al dir., n. 44 del 18.11.06.
  • Cass. SS.UU., sent. n. 16 del 19.06.1996, [RV. 205617].
  • Cass. SS.UU., sent. n. 5021 del 16.5.96, [RV. 204644 ], in Arch. nuova proc. pen., 1996, 397.
  • Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 46966 del 17.11.04, [RV. 231184].
  • Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 46954 del 04.11.2004, [RV.230592].
  • Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 19683 del 19.03.2003, [RV.223848].
  • Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 22848 del 23.05.2003, [RV225232].
  • Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 43303 del 3.12.2001, [RV220362].
  • Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 4888 del 18.01.2000, [RV.216047].
  • Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 5270 del 6.05.1998, [RV210475].
  • Cass.Pen., Sez. III, sent. n. 2542 del 17.03.1997 [RV207208].
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Giurisprudenza di Merito
 
  • Trib. Napoli, Sez. V, sent. n. 252 del 18.01.05, in Guida al dir., n. 37 del 21.09.05.
  • Corte d’Assise di Palermo, sez. II, sent. del 20.03.2002, in Dir.pen.proc., 2003, 479, nota di MOROSINI, Associazione di stampo mafioso e testimonianza dell’imputato aliunde.
  • Trib. Foggia, sent. dell’ 8-21 febbraio 2002, in Giust. merito, 2002, p.II, 1309, nota di NICOLUCCI ed in Arch. n. proc. pen., 2002, 464 (con motivazione) e 2003, 701, in massima, con nota di COLETTA, Diritto al silenzio della persona già sottoposta ad indagini preliminari e compatibilità con l’ufficio di testimone.
  • Tribunale S. Maria Capua Vetere, Pres. Foschini, ordinanza del 7.5.2002, imp. Sorrentino.
  • Tribunale di Milano, Sez. X, – composizione monocratica – ordinanza del 3.10.01.
  • Tribunale di Monza – composizione collegiale – ordinanza del 3.10.01.
  • Ord. Trib Oristano, sez. distaccata di Macomer, 24 ottobre 2000, Giudice Carboni. Si veda http://www.giuffre.it/age_files/dir_tutti/archivio/filippi_0702.html.
  • Ord. Trib. Cagliari del 9 giugno 2000, Giudice, Poddighe; http://www.giuffre.it/age_files/dir_tutti/archivio/filippi_0702.html.
  • Trib. Rimini, sent. del 20.06.2000, www.penale.it.
  • Trib. La Spezia, sent. dell’11.04.2000, www.penale.it.
  • Trib. Grosseto, sent. del 17.03.2000, www.penale.it.
 
 
 


[1] A tal proposito, l’art. 468 c.p.p. statuisce “le parti che intendono chiedere l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”.
[2] L’art. 195 c.p.p. recita che “quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre”.
 Il giudice può disporre anche di ufficio l’esame delle persone indicate nel comma 1”. 
 
[3] A tal proposito, PAGLIARO – TRANCHINA, Istituzioni di diritto e procedura penale, Terza ed., Giuffrè ed., 281, sottolineano che “l’esame differisce dalla testimonianza per la nota della volontarietà, in quanto è ammesso soltanto se le parti lo richiedano o vi acconsentano, la qual cosa implica coerentemente, che esso si sottrae anche all’obbligo di veridicità da cui è contraddistinta la testimonianza. Tutto ciò si spiega, evidentemente, con la considerazione che potendo emergere dalle dichiarazioni rilasciate in corso di esame elementi sfavorevoli idonei a compromettere la posizione di <parte> nella quale si trova colui che le ha rese, è opportuno che sia egli stesso a valutare la convenienza di sottoporsi o no al mezzo di prova”.
[4] Una deroga è rappresentata dalla particolare figura del teste-prossimo congiunto dell’imputato, il quale, a norma dell’art. 199 c.p.p., non è obbligato a deporre. Pertanto, in tale ipotesi, si versa in una situazione assimilabile a quella dell’imputato in procedimento connesso che – in forza del dettato normativo di cui alla precedente formulazione dell’art. 210 c.p.p. – pur essendo obbligato a comparire, ha tuttavia la facoltà di astenersi dal deporre.
A tal proposito, PAGLIARO – TRANCHINA, Istituzioni di diritto e procedura penale, Terza ed., Giuffrè ed., 281, osservano che, in tali casi, si verserebbe nella ipotesi di attribuzione di un vero e proprio “diritto di astensione dalla testimonianza”, così come accade nelle contigue previsioni dei ministri di confessioni religiose in relazione a quanto conosciuto per ragione del proprio ministero, determinati professionisti (avvocati, notai, medici, giornalisti) sempre in relazione a fatti conosciuti per ragione di professione o di ufficio, gli organi di polizia giudiziaria in relazione ai nomi dei loro informatori.
 
[5] Ovviamente un eventuale contegno processuale negativo da parte del soggetto citato come teste potrebbe integrare gli estremi della “reticenza” rilevante ex art. 372 c.p.
[6] La definizione è di Corrado Carnevale.
[7] Sovente, infatti, può accadere che le contraddizioni nelle quali può incorrere l’imputato siano determinate da fattori emotivi o da un non chiaro ricordo degli accadimenti, giustificato dalla particolare concitazione del momento. In tali casi, sarà certamente opportuno l’esercizio del diritto al silenzio da parte dell’imputato che non sia in grado di fornire al Giudicante elementi precisi atti a suffragare la sua estraneità ai fatti.
[8] Tale operazione concettuale è consentita, attesa la – più volte sottolineata – efficacia cogente diretta delle norme costituzionali.
[9] Tale principio trova un ulteriore fondamento positivo nell’art. 14 del Patto internazionale relativo ai Diritti Civili e Politici, firmato a New York, nel 1966.
 
 
[10] Inteso anche nella più pregnante accezione di “diritto di auto-difesa”.
[11] L’interrogatorio è uno strumento investigativo – in alcuni casi anche con finalità di garanzia per l’imputato – dal contenuto corrispondente al mezzo di prova “esame”.
[12] L’art. 64 c.p.p. sembra riferirsi alla sola “persona sottoposta alle indagini” che “anche in stato di custodia cautelare o se detenuta per altra causa, interviene libera all’interrogatorio, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze”.
[13] CONTI, Un freno alla facoltà di non rispondere per non vanificare il contraddittorio, in Dir. Giust., 2001, 24. Nello stesso senso, MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, Cedam, 2001, 306.
DALIA-FERRAIOLI, in Manuale di Diritto Processuale Penale, Cedam, seconda Ed., 199, ritengono che un ulteriore riconoscimento del principio nemo tenetur se detegere, inteso soprattutto come divieto di costrizione dell’imputato ( o indagato) a deporre contra se, andrebbe rinvenuto, inoltre, nella disposizione secondo cui il pericolo di dispersione o di inquinamento delle fonti probatorie, pericolo che può essere scongiurato con l’adozione di misure cautelari, non può essere individuato nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni oppure nella mancata ammissione degli addebiti (art. 274 c.p.p.).
[14] L’art. 198 c.p.p. è rubricato, infatti, “obblighi del testimone”.
[15] MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, Cedam, 2001, 307, ritiene che “l’adozione di strumenti per incentivare la presenza attiva al dibattimento di tutti gli attori processuali appariva irrinunciabile al fine di assecondare il modello processuale di stampo accusatorio, scelto dal legislatore costituzionale, con il nuovo art. 111 Cost”.
[16] La locuzione “giusto processo” utilizzata dal legislatore italiano costituisce una incorretta ed arbitraria traduzione della perifrasi due process of law clause cui si sarebbe dovuto dare attuazione con l’intervento normativo di cui al testo; e ciò non comporta una mera imprecisione di ordine formale ma, all’inverso, denota una mancata percezione della effettiva portata dei principi sussunti nella locuzione “due process”. Elemento strutturalmente endogeno a quest’ultima è la doverosità dell’accertamento penale, da cui consegue la necessaria giustezza e giustizia dello stesso; postulato indefettibile, quest’ultimo, affinché l’atto in cui culmina l’accertamento, ovvero la sentenza, possa essere “accettata”, come dovuta, dai consociati. La “doverosità” dell’accertamento penale rievoca molte nozioni: lo Stato-apparato che interviene per garantire la sicurezza dei cittadini, nel momento procedimentale della ricerca degli elementi utili alle determinazioni del Magistrato del pubblico ministero, in merito all’esercizio dell’azione penale – dunque scopo di “difesa sociale”, tipico della fase investigativa, a cui è fisiologicamente connesso il principio di obbligatorietà dell’azione penale – ma anche doverosità della “difesa individuale” che un Stato sociale è tenuto a garantire ai consociati postulando la sussistenza dell’ intangibile diritto di difesa, anche in capo al presunto autore dei più efferati crimini; la nozione in parola riecheggia, inoltre, l’indefettibilità della giurisdizione e, dunque, la necessarietà della ricostruzione dei fatti nella loro dimensione storicistico-materiale, al cui conseguimento è deputato il processo, tecnicamente inteso; rievoca, infine, la valenza giuspubblicistica della funzione giurisdizionale, sia nella sua dimensione soggettiva-emozionale, sia, ed ancor di più, nella sua oggettivizzazione. L’insufficienza della correlativa traduzione italiana, “giusto processo legale”, si coglie oltre che nella mancata correlazione tra la locuzione inglese e quella italiana, anche nella intrinseca contraddittorietà della stessa. Per quanto concerne il primo aspetto, non c’è coincidenza tra le due locuzioni né sotto il profilo grammaticale né, tantomeno, sotto il profilo logico. In secondo luogo, con l’accettazione di una siffatta traduzione si incorre in una contraddictio in adiecto : un processo “legale”, ovvero regolato da una legge dello Stato, non può che essere “giusto” in quanto, garante della “giustizia” dello stesso è l’organo titolare del potere legislativo, depositario della volontà statuale. Pertanto, delle due l’una: o il processo disciplinato dalla legge è assiomaticamente “giusto”, o fino ad ora il processo non è stato giusto e, dunque, occorreva intervenire legislativamente per renderlo tale. Il legislatore ha propeso per quest’ultima soluzione, intervenendo direttamente sulla Carta Fondamentale, nell’utopistico intento di conferire maggiore forza cogente ai principi del “giusto processo”. Tale intervento legislativo, in verità, appare assolutamente non necessitato ove si consideri che i così detti principi del “giusto processo” costituivano già parte integrante del nostro patrimonio normativo. I principi in parola, infatti, erano contemplati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e nel Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 19 dicembre 1966, rispettivamente ratificati con legge ordinaria del 4 agosto 1955, n. 848 e del 25 ottobre 1977, n. 881.
[17] Una parte della dottrina ritiene di dover accedere ad una interpretazione restrittiva dell’art. 111 Cost., postulando la validità ai fini del convincimento giudiziale della sola prova formatasi in sede di cross-examination. In ossequio a tale assunto, andrebbe esclusa qualsivoglia utilizzazione delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari da chi abbia successivamente fornito una diversa versione dei fatti. In Tal senso, FERRUA, L’avvenire del contraddittorio, in Critica del diritto, 2000, n. 1; MARZADURI, Sul diritto al silenzio degli imputati il giusto processo vive di contraddizion,  in Guida al dir., 2000, n. 43, 12 ss.
[18] MOROSINI, in Contraddittorio nella formazione della prova e criminalità organizzata, in Diritto pen. e proc., 2000 estende il significato del contraddittorio affermando che il principio sancito dal comma quarto dell’art. 111 Cost., troverebbe piena attuazione anche allorquando le precedenti dichiarazioni, rese nella fase delle indagini preliminari, siano contestate in dibattimento a colui che fornisce una differente versione dei fatti; in tal caso, infatti, la prova valida ai fini della decisione dibattimentale si forma in modo complesso.
[19] Corte Costituzionale, ordinanza n. 36 del 14-26 febbraio 2002.
[20] Si riporta il testo integrale dell’art. 513, II comma, c.p.p. “Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell’art. 210, I comma, il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l’accompagnamento coattivo del dichiarante o l’esame a domicilio o la rogatoria internazionale ovvero l’esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio.   Se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante ovvero procedere all’esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell’art. 512 qualora la impossibilità dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni.
[21] La Corte Costituzionale con sentenza n. 361 del 2 novembre 1998,ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo di questo comma nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500, commi 2 bis e 4 del codice di procedura penale.
[22] L’art. 507 c.p.p., infatti, recita:“terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prove (rectius prova) …”. La disposizione menzionata costituisce una valvola di sicurezza del nostro sistema in quanto consente in via assolutamente residuale un potere di integrazione giudiziale del quadro probatorio come delineatosi ad iniziativa delle parti processuali. La S.C. a tal proposito ha osservato che “nel nostro sistema processuale, pur avendo l’organo decidente carattere di terzietà, ha un residuale potere officioso di integrazione probatoria al fine di colmare le lacune lasciate dalle emergenze acquisite su impulso delle parti. Invero il giudice, ex art. 507 c.p.p., può disporre nuove prove, avendo come criterio direttivo e discretivo l’assoluta necessità di completamento delle acquisizioni emerse nell’istruzione dibattimentale: in tal modo il giudice supera l’inerzia delle parti o può far propria un’iniziativa delle stesse formalmente scorretta. Pertanto, il mancato adempimento dell’onere di formulare la richiesta dei mezzi di prova nei modi e nei termini di legge non comporta l’impossibilità assoluta della loro assunzione, ma fa sì che la parte sia esposta alla decisione discrezionale del giudice. (Nella specie, relativa a rigetto di motivo di ricorso avverso l’ordinanza con la quale il pretore, attivando i suoi poteri di ufficio ex art. 507 c.p.p., aveva acquisito esclusivamente prove a sostegno dell’accusa e non quelle di segno opposto richieste dalla difesa, la S.C. ha altresì osservato che «Differente situazione si determina quando la parte ha fatto richiesta di una prova decisiva ai sensi dell’art. 495 comma secondo c.p.p.; in tale ipotesi, il diritto della prova, inopinatamente non ammessa, sì sostanzia in un error in procedendo che consente il ricorso in Cassazione (art. 606 comma primo sub d c.p.p.)». In tal senso, Cass. pen., sez. III, sent. n. 2542 del 17.03.1997 [RV207208].
[23] A tenore del precedente quadro normativo, l’imputato in procedimento connesso o collegato, pur avendo l’obbligo, al pari del testimone, di presentarsi al Giudice, poteva, tuttavia, avvalersi della facoltà di non rispondere. Era consentito disporre l’accompagnamento coattivo del dichiarante onde ottenerne la presenza forzosa ed, inoltre, risultavano pienamente applicabili le disposizioni sulla citazione dei testimoni.
[24] Così testualmente TONINI, Diritto al silenzio e tipologia dei dichiaranti, in AA.VV., Giusto processo e prove penali. Legge 1° Marzo 2001 n. 63, Milano, IPSOA, 2001, 77.
[25] Come argutamente osserva GAETA, Lo “statuto” della testimonianza: profili critici, Bozza provvisoria, 2006, 4.
[26] Così testualmente, FANULI-LAURINO, Le mobili frontiere del testimone comune del testimone assistito e del dichiarante e art. 210 c.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative, in Arch n. proc. pen., 2003, II, 399.
[27] CONSO-BARGIS, in Glossario della nuova procedura penale, Giuffrè ed., 1992, 709, qualificano l’istituto della “testimonianza” come “un mezzo di prova imperniato sull’esame di chi, al di fuori delle parti, ha avuto conoscenza diretta dei fatti che costituiscono oggetto di prova.”.
[28] La Corte Costituzionale, nella motivazione della sentenza n. 381 dell’8-21.11.06, in Guida al dir., 2006, n.46, 74 – con cui veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.197-bis, III e VI co., c.p.p. nella parte in cui prevedono, rispettivamente, l’assistenza di un difensore e l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, III co., c.p.p. anche per le dichiarazioni rese dalle persone indicate al comma 1 del medesimo articolo 197-bis c.p.p., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto” divenuta irrevocabile – effettua un distinguo tra l’ “indifferenza rispetto alla vicenda oggetto del giudizio” caratterizzante ab origine la figura del testimone e quella “necessariamente sopravvenuta ed indotta dalla assoluzione divenuta irrevocabile” connotante la figura del teste-assistito.
[29] L’unica eccezione presente nel nostro ordinamento è costituita dalla testimonianza della parte civile che, quale soggetto passivo del reato nonchè danneggiato, risulta portatrice di un interesse sostanziale e processuale in relazione ai fatti oggetto dell’accertamento e che, ciononostante, è legittimata ad assumere la veste di testimone nell’ambito del procedimento penale. La Suprema Corte ha affrontato recentemente la problematica inerente la idoneità probatoria della deposizione della persona offesa, asserendo l’autonoma attitudine probante della deposizione di un soggetto astrattamente interessato all’esito del processo penale, nei confronti del quale, tuttavia, va condotto un rigoroso vaglio di attendibilità intrinseca. La S.C. ha asserito: “in tema di valutazione della prova, la deposizione della parte lesa, anche se rappresenta l’unica prova del fatto da accertare e manchino riscontri esterni, può essere posta a base del convincimento dei giudice, atteso che a tali dichiarazioni non si applicano le regole di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p., che presuppongono l’esistenza di altri elementi di prova unitamente ai quali le dichiarazioni devono essere valutate per verificarne l’attendibilità, dovendo peraltro il controllo sulle dichiarazioni della persona offesa, considerato l’interesse del quale può essere portatrice, essere più rigoroso in specie se trattasi di minore e l’esame concerna fatti che possono interagire con i delicati aspetti della personalità come in materia di reati contro la libertà sessuale.(Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 43303 del 3.12. 2001, [RV220362] ). Sempre con riferimento alla medesima tematica è stato, pure, osservato che “in tema di valutazione della prova testimoniale, a base del libero convincimento del giudice possono essere poste le dichiarazioni della parte offesa e quelle di un testimone legato da stretti vincoli di parentela con la medesima. Ne consegue che la deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità”. ( In tal senso, Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 22848 del 23.05.2003 [RV225232]).
[30] A tal proposito la S.C. ha avuto modo di osservare che “in tema di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni rese da collaboranti, l’interesse a collaborare – che può animare il collaborante, in considerazione della possibilità di beneficiare delle misure previste dalle leggi speciali sui collaboratori di giustizia – non va confuso con l’interesse concreto a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di terzi. Invero, il generico interesse a fruire dei benefici premiali non intacca la credibilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti. (Nella fattispecie, nel ricorso, tra l’altro, si sosteneva che le dichiarazioni accusatorie rivolte contro l’imputato da alcuni collaboranti non potevano ritenersi spontanee e disinteressate in quanto i dichiaranti erano stati allettati a collaborare con la prospettiva della fruizione di vantaggiosi benefici premiali. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha evidenziato che il disinteresse, indicato dai giudici di merito per dedurre la attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti, si riferiva, appunto, alla mancanza, non di un generico interesse alla collaborazione, ma di un interesse specifico ad accusare il chiamato in correità)”. Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 5270 del 6.05.1998, [RV210475]. La citata pronuncia, tuttavia, non può essere pienamente condivisibile atteso che il riconosciuto, sia pur, generico interesse all’accusa in capo al dichiarante impone un attento e, quantomai, ponderato vaglio di attendibilità intrinseca del medesimo. Il vaglio di attendibilità intrinseca sembra essere ulteriormente “deteriorato” dalle poco condivisibili asserzioni della S.C. che, in riferimento alla riscontrabilità estrinseca delle propalazioni eteroaccusatorie osserva che: “Le dichiarazioni accusatorie rese da due collaboranti possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che si proceda comunque alla loro valutazione unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, in maniera tale che sia verificata la concordanza sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che tali discordanze non siano sintomatiche di una insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi. (In motivazione la Corte ha affermato che l’art. 192 comma terzo cod. proc. pen. non pone alcuna limitazione per quanto riguarda l’individuazione dei riscontri, che possono consistere in elementi di qualsivoglia natura purché, pur non avendo autonoma forza probante, siano in grado di corroborare la chiamata in correità, conferendole la credibilità piena di qualsiasi elemento di prova). Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 46954 del 04.11.2004 [RV. 230592]. Il fenomeno della mutual corroboration non pare in alcun modo coerente con il dettato normativo di cui all’art. 192, III comma, c.p.p. in forza del quale le dichiarazioni rese dal coimputato nel medesimo reato o da persona imputata in procedimento connesso a norma dell’art. 12 c.p.p. sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”. La locuzione “altri elementi di prova” non può che essere indicativa della volontà legislativa di esigere riscontri estrinseci che rivestano una natura diversa rispetto alle dichiarazioni da riscontrare. In altri termini, appare conforme alla portata precettiva della norma l’esegesi secondo cui le propalazioni erga alios debbano essere corroborate da riscontri di natura oggettiva.
[31] DI GENNARO–BREDA-LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè ed., 1997, 58. 
[32] FANULI-LAURINO, Le mobili frontiere del testimone comune del testimone assistito e del dichiarante e art. 210 c.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative, in Arca n. proc. pen., 2003, II, 399, a tal proposito, osservano che “le nozioni di testimone comune, di testimone assistito e di persona di cui all’art. 210 c.p.p. perdono, così, il proprio valore evocativo e definitorio. e vanno ad indicare istituti e posizioni soggettive di matrice esclusivamente normativa, dai confini mobili tanto da rappresentare, ormai, mere sintesi verbali (rectius, da racchiudere in sè una serie di sintesi verbali).
[33] TONINI, Manuale di procedura penale, Terza ed., 248, discorre a tal proposito di “testimonianza ad intermittenza” . Osserva l’A. che “ l’obbligo di verità imposto all’imputato – testimone assistito, riguarda soltanto il fatto altrui già dichiarato in precedenza. Su tutto il resto, e cioè su fatti diversi da quelli già dichiarati, il testimone è incompatibile fino alla sentenza irrevocabile. Tale conclusione si ricava dall’art. 197, lett.b), c.p.p., che mantiene la incompatibilità <salvo quanto previsto dall’art. 64, III comma, lett. c), c.p.p. Se egli è incompatibile con la veste di testimone, ne consegue che può essere sentito soltanto come imputato collegato o connesso ( art. 210 c.p.p.). In tale qualità, egli potrà nuovamente rendere dichiarazioni su fatto altrui, ma lo farà ai sensi dell’art. 210, VI comma, c.p.p. quindi con il diritto di non rispondere e la facoltà di mentire . Come abbiamo esposto in precedenza, dopo che ha tirato in ballo la responsabilità altrui, potrà essere nuovamente sentito come testimone assistito su tale punto. Poco per volta si restringe l’area del diritto al silenzio e della facoltà di mentire. Tutti ciò comporta aspetti organizzativi di non poco conto. Il Parlamento ha creato una nuova figura di testimone “ad intermittenza”.
[34] GAETA, Lo “statuto” della testimonianza: profili critici”, cit., 4, a tal proposito, osserva che “la legge 63 del 2001, benché «legge di sistema» ha in realtà inaugurato una new wave nel rito penale: quella dell’ assoluta plasmabilità delle categorie o, se si vuole, della definitiva scomparsa della categoria dogmatica del testimone, della sua essenza., intesa, innanzitutto, come forma concettuale rispondente ad una precisa forma percettiva. Essa pare sostituita da qualcosa di virtuale, di indefinitamente malleabile, perennemente manipolabile:figure mai stabili, cedevoli, rispetto alle quali il <senso> del testimone rimane solo come mito o metafora. La legge di attuazione del giusto processo, al di là del suo portato tecnico, si connota per una valenza più generale, metodologica. Le «connotazioni formal-processualistiche sembrano prevalere nettamente rispetto a quelle ontologico-sostanzialistiche» e le "tradizionali" nozioni di "testimone comune" o di "persona ex art. 210 c.p.p." hanno perso ogni valore «evocativo e definitorio», smarrendo ogni attitudine denotativa: non "designano" essenze percepibili oltre e prima del processo (come è sempre stato, ad esempio, per il testimone), ma rimandano ad un reticolo normativo che individua posizioni soggettive «dai confini mobili, tanto da rappresentare, ormai, mere sintesi verbali» . Il testimone come figura, come categoria generale -percettore di un fatto alla cui realizzazione è estraneo- è ormai dissolta: al suo posto c’è la virtualità di un dichiarante dai contorni incerti, dinamici ed instabili, perché destinati a mutare nell’ambito del medesimo processo. A furia di predicare flessibilità anche nel processo,siamo divenuti prigionieri della casistica ossessiva ed è quasi diventata impossibile la generalizzazione: ogni processo è un assortimento a sé, irripetibile e problematico, difficilmente comparabile ad un altro; un piccolo manuale o repertorio di casi e questioni probatorie, all’interno del quale, poi, ciascuna figura di dichiarante pone una questione a sé ("… e questo, come bisogna sentirlo?" è la domanda più frequente che ci facciamo, giudici, P.M. ed anche avvocati), di difficile (se non impossibile) collocazione, di inutile sussunzione concettuale, poiché si tratta di figure di dichiaranti destinate a durare lo spazio di un mattino”.
[35] Così, FANULI-LAURINO, Le mobili frontiere del testimone comune del testimone assistito e del dichiarante e art. 210 c.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative, in Arch n. proc. pen., 2003, II, 400.
[36] In tal senso, FANULI-LAURINO, Le mobili frontiere del testimone comune del testimone assistito e del dichiarante e art. 210 c.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative, in Arch n. proc. pen., 2003, II, 400.
[37] Di notevole interesse sono le argomentazioni sul punto, di GAETA, Lo “statuto” della testimonianza: profili critici”, Bozza provvisoria, 2006, 4. L’A.. osserva che “se il vecchio sistema, dopo un accertamento definitivo di innocenza, restituiva al processo collegato un teste “comune” e, dunque, pienamente affidabile, il nuovo sistema, oggi, riconsegna un teste “assistito” probatoriamente precario, perché la sua dichiarazione sta “con gli altri elementi che ne confermano la attendibilità” o cade con essi. E’ davvero paradossale questo effetto del giudicato in favor. Sembra quasi che l’essere stati (ingiustamente, data l’esito del giudizio) perseguiti penalmente faccia residuare anche nei confronti del soggetto di cui sia stata riconosciuta la assoluta estraneità ai fatti, un marchio (infamante) indelebile. Chi è agganciato al seguito di una vicenda processuale da una calunniosa denuncia, rimane comunque compromesso: non sarà mai più testis abilis rispetto a quella vicenda, ma rimarrà sempre suspectus, essendo la sua parola definitivamente deprezzata, anche se un paio di gradi di giudizio hanno detto il contrario”.
[38] Cosi, GAETA, Lo “statuto” della testimonianza: profili critici”, cit., 4.
[39] FANULI-LAURINO, Le mobili frontiere del testimone comune del testimone assistito e del dichiarante e art. 210 c.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative, in Arch n. proc. pen., 2003, II, 399, a tal proposito, ritengono che le nozioni di “testimone comune” di “teste assistito” e di “persona di cui all’art. 210 c.p.p.” “vadano ad indicare istituti e posizioni soggettive di matrice esclusivamente normativa, dai confini mobili, tanto da rappresentare, oramai, mere sintesi verbali”.
[40] GAETA, Lo “statuto” della testimonianza: profili critici”, cit., 5, osserva che “ad un notevole potere dispositivo delle parti nel processo si accompagna anche un inusitato potere di manipolazione dello status del dichiarante: con intuibili patologie, non solo sotto il profilo della formazione della prova in dibattimento, ma anche "a monte", sul terreno – già di per sé infido- dell’indagine. Se, infatti, la "qualità" di teste è indefinitamente alterabile, c’è da temere che gli atti di indagini siano funzionali non agli accertamenti doverosi, quanto alle future sorti processuali; interessati, cioè, a non "bruciare" nulla, a preservare, a non compromettere una possibile, futura testimonianza. Il rischio è, insomma, che a pesare sulla decisione di un atto di indagine non sia, com’è normale, l’ipotesi del suo risultato, ma una sua valutazione strategica: un po’ come accade oggi negli ospedali, dove si bada al ritorno economico di prestazioni e farmaci, mentre il bisogno in sé del malto rimane sullo sfondo. Così, se fare o non fare uno stub; se fare o non fare un verbale di sommarie informazioni ex art. 350 c.p.p. ad un soggetto trovato nelle vicinanze della vittima di un omicidio non sarà indifferente per il futuro processuale della vicenda: farlo, vorrà dire rinunciare a quel soggetto come teste comune (senza, peraltro, alcuna certezza che tale condizione sia comunque conservata in futuro) e, dunque, non è da escludere che un’ombra investigativa sia ricacciata indietro ed inghiottita da una polizia giudiziaria "realista" (o da un P.M. realista che la guida), a beneficio dell’obbligo di verità. Insomma: l’utilitarismo processuale guida la selezione del rilevante nell’indagine”.
[41]FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, in Nuovo Manuale Pratico del Processo Penale, CEDAM, 2002, 284.
[42]FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, cit., 284.
[43] FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, cit., 285.
[44] Come appare evidente, anche dalla impostazione riportata nel testo, emerge che le attività processuali riconducibili alla nozione di “difesa” possono essere tanto compiute dalle parti che dai rispettivi difensori con ciò riconoscendosi alla difesa “materiale” una perfetta pariteticità ( che, addirittura, in alcune ipotesi , si atteggia a “superiorità”) rispetto alla difesa “tecnica” .
In tal senso si è espresso BELLAVISTA, in Difesa giudiziaria penale, Enc. del diritto, XII, Giuffrè ed., 1997, 456, il quale osserva che la “difesa personale trova il suo fondamento nell’art. 24, II comma, Cost., rappresentando, accanto alla difesa tecnica, uno dei due profili nei quali si scompone il diritto di difesa”
[45] In tal senso, FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, in Nuovo Manuale Pratico del Processo Penale, CEDAM, 2002, 284. Gli AA. ritengono che “la definizione accolta appare maggiormente in linea con la struttura e con la filosofia del nuovo modello improntato ad una più incisiva valorizzazione dell’opera del difensore, come è del resto ovvio in un processo caratterizzato dalla dialettica delle parti e dalla loro uguaglianza almeno tendenziale nell’ambito delle varie fasi e gradi in cui si svolge”. Tuttavia deve osservarsi che probabilmente agli autori sfugge che tra difensore ed assistito non può discorrersi di “uguaglianza di parti” laddove, come è ben noto, difensore ed imputato costituiscono la medesima “parte” processuale.
 
[46] CHIAVARIO, Processo e garanzia della persona, II, Le garanzie fondamentali, Milano, 1984, 157, e VOENA, Difesa penale, in Enc. Giur. it., X, 1988, ∫ 3.3, rilevano la duplice valenza, positiva e negativa, dell’ “autodifesa”.
[47] GREVI, Rifiuto del difensore e inviolabilità della difesa, in Il problema dell’autodifesa nel processo penale, a cura di GREVI, Bologna, 1977, 9 ss.
[48] In senso adesivo, SINISCALCO, Diritto all’autodifesa e libertà di scelte difensive dell’imputato, Il problema dell’autodifesa nel processo penale, a cura di GREVI, Bologna, 1977, 140 ss.
[49] DENTI, La difesa come diritto e come garanzia, in Il problema dell’autodifesa nel processo penale, a cura di GREVI, Bologna, 1977, 48 ss.
[50] CHIAVARIO, Autodifesa sì; ma…,       in Il problema dell’autodifesa nel processo penale, cit., 41 ss..
[51] Corte Costituzionale, sent. n. 125, del 10 ottobre 1979; Corte Costituzionale ost., sent. n. 188, del 22 dicembre 1980.
[52] ZAGREBELSKY, L’autodifesa di fronte alla Corte Costituzionale, in Giur. Cost., 1979, I, 962.
[53] FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, cit., 285.
[54] La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, veniva ratificata in Italia con la legge n. 848, del 4 agosto 1955.
[55] FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, cit., 286.
[56] L’art. 150 disp. att. c.p.p. statuisce che “l’esame delle parti private, nell’ordine previsto dall’art. 503, I comma, del codice, ha luogo appena terminata l’assunzione delle prove a carico dell’imputato”.
[57] FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, in Nuovo Manuale Pratico del Processo Penale, CEDAM, 2002, 286.
[58] L’art. 523 c.p.p., rubricato “svolgimento della discussione” testualmente recita: “esaurita l’assunzione delle prove, il pubblico ministero e successivamente i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato formulano e illustrano le rispettive conclusioni, anche in ordine alle ipotesi previste dall’articolo 533, comma 3bis. La parte civile presenta conclusioni scritte, che devono comprendere, quando sia richiesto il risarcimento dei danni, anche la determinazione del loro ammontare. Il presidente dirige la discussione e impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione. Il pubblico ministero e i difensori delle parti private possono replicare; la replica è ammessa una sola volta e deve essere contenuta nei limiti strettamente necessari per la confutazione degli argomenti avversari. In ogni caso l’imputato e il difensore devono avere, a pena di nullità, la parola per ultimi se la domandano. La discussione non può essere interrotta per l’assunzione di nuove prove, se non in caso di assoluta necessità. Se questa si verifica, il giudice provvede a norma dell’articolo 507”.
[59] In senso critico circa la definizione dell’autodifesa quale difesa materiale o generica, si veda BELLAVISTA, Difesa giudiziaria penale, Enc. del diritto, XII, Giuffrè ed., 1997, 456.
[60] PRESUTTI, Autodifesa giudiziaria, in Enc. diritto, Aggiornamento I, Giuffrè ed., 1997, 234, qualifica l’ “autodifesa” come “ personale contributo attivo della parte alla propria difesa e nei suoi rapporti, all’interno dell’unitaria funzione difensiva, con quella complementare spettante al difensore”.
[61] Si riporta integralmente il testo dell’art. 571 c.p.p. rubricato “impugnazione dell’imputato”: “l’imputato può proporre impugnazione personalmente o per mezzo di un procuratore speciale nominato anche prima della emissione del provvedimento. Il tutore per l’imputato soggetto alla tutela e il curatore speciale per l’imputato incapace di intendere o di volere, che non ha tutore, possono proporre l’impugnazione che spetta all’imputato. Può inoltre proporre impugnazione il difensore dell’imputato al momento del deposito del provvedimento ovvero il difensore nominato a tal fine. L’imputato, nei modi previsti per la rinuncia, può togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo difensore. Per l’efficacia della dichiarazione nel caso previsto dal comma 2, è necessario il consenso del tutore o del curatore speciale”.
[62] L’art. 589 c.p.p. rubricato “rinuncia all’impugnazione” statuisce che: “Il pubblico ministero presso il giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato può rinunciare alla impugnazione da lui proposta fino all’apertura del dibattimento. Successivamente la dichiarazione di rinuncia può essere effettuata prima dell’inizio della discussione dal pubblico ministero presso il giudice della impugnazione, anche se l’impugnazione stessa è stata proposta da altro pubblico ministero. Le parti private possono rinunciare all’impugnazione anche per mezzo di procuratore speciale . La dichiarazione di rinuncia è presentata a uno degli organi competenti a ricevere l’impugnazione nelle forme e nei modi previsti dagli articoli 581, 582 e 583 ovvero, in dibattimento, prima dell’inizio della discussione. Quando l’impugnazione è trattata e decisa in camera di consiglio, la dichiarazione di rinuncia può essere effettuata, prima dell’udienza, dal pubblico ministero che ha proposto l’impugnazione e, successivamente, dal pubblico ministero presso il giudice dell’impugnazione, anche se la stessa è stata proposta da altro pubblico ministero”.
[63] Il diritto di difesa viene collocato, dalla dottrina prevalente, nel novero dei diritti inviolabili e, dunque, personalissimi. In tal senso, CONSO, Istituzioni di diritto processuale penale, Milano, 1969, 117; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, I, Napoli, 1961, 575. Quanto alla giurisprudenza costituzionale, vedasi, in particolare, Corte Costituzionale, 28 aprile 1966, n. 33, in Giur. cost., 1966, 339, con nota di CHIAVRIO, Istruzione pretorile ed interrogatorio dell’imputato prima della sua citazione in giudizio; Corte Costituzionale, 13 dicembre 1966, n. 122, ivi, 1669, con nota di GREVI, Perdono giudiziale e diritto di difesa nell’istruzione minorile; Corte Costituzionale 29 maggio 1968, n. 53, ivi, 1968, 807, con note di DOMINIONI, Prevenzione criminale e diritto di difesa, ivi, 807.
[64] FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI, in Nuovo Manuale Pratico del Processo Penale, CEDAM, 2002, 287. Gli AA. ritengono che la locuzione “difesa tecnica” debba essere utilizzata per esprimere nel modo migliore il carattere dell’attività professionale del difensore che appunto consiste nell’assistenza tecnico-giuridica della parte. Ed, inoltre, gli AA. osservano che “l’applicazione della legge sostanziale attraverso il rispetto delle regole processuali (in ciò consiste soprattutto il processo penale) richiede preparazione tecnico-professionale di discreto livello. Soprattutto è necessario che le parti private possano disporre di una capacità tecnica di livello paragonabile a quella del pubblico ministero, altrimenti in un processo, specie di tipo accusatorio come quello oggi in vigore, il contraddittorio sarebbe solo apparenza, perché non sarebbero pari le armi di un accusatore esperto legale per definizione e di un privato completamente all’oscuro della legge e privo di qualunque esperienza. Da qui la soluzione obbligata, adottata infatti più o meno dovunque, di una categoria di esperti privati che assistono l’accusato e le altre parti private nel processo per contrastare l’accusa o comunque per esercitare i diritti e le facoltà riconosciute dalla legge. L’importanza di tale funzione sociale molto risalente nel tempo e di ampiezza variabile a seconda dei tempi e degli ordinamenti processuali, ma soprattutto a seconda della cultura del momento, è oggi esaltata dal riconoscimento costituzionale « La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.)» che pone l’accento in modo particolare sulla sua inviolabilità, e cioè sulla garanzia assoluta assicurata al cittadino di potere ricorrere in caso di bisogno all’assistenza tecnica di un professionista dotato di adeguata preparazione. A ben riflettere tale garanzia opera non soltanto a tutela di un !diritto individuale, ma soprattutto a sostegno e a riprova della scelta di fondo dell’ordinamento democratico secondo cui la difesa delle parti private e dell’accusato nel processo penale è il fondamento della giustizia stessa che, come tale, può aversi solo se le parti in contesa hanno potuto sviluppare adeguatamente tutte le loro istanze e pretese contrapposte in modo da porre il giudice in condizione di riconoscere e dichiarare la soluzione più equa e confacente alla situazione di fatto e di diritto. E proprio da qui che nasce l’obbligatorietà della difesa tecnica una volta riservata al solo imputato (alle altre parti private era assicurata la facoltà di ricorrere alla difesa tecnica, ma non ne avevano l’obbligo e neppure l’onere), situazione oggi notevolmente mutata nel senso che tutte le parti e i soggetti processuali ammessi ad esercitare diritti e facoltà processuali devono ormai valersi del difensore con l’eccezione della persona offesa (che peraltro non è una parte) che può esercitare personalmente i suoi diritti ovvero ricorrere all’assistenza del difensore”.
[65] Ord. Trib. Cagliari del 9 giugno 2000, Giudice, Poddighe; ord. Trib Oristano, sez. distaccata di Macomer, 24 ottobre 2000, Giudice Carboni. Si veda http://www.giuffre.it/age_files/dir_tutti/archivio/filippi_0702.html
[66] FILIPPI, in A proposito di "giusto processo": l’imputato diventa attore della cross-examination? Due provvedimenti apparentemente eccentrici, in http://www.giuffre.it/age_files/dir_tutti/archivio/filippi_0702.html.
[67] Sul tema, FRIGO, L’esame diretto e il controesame ad iniziativa del difensore, in Dif. pen., 1989, fasc, 25, p. 52.
[68] FILIPPI, in A proposito di "giusto processo": l’imputato diventa attore della cross-examination? Due provvedimenti apparentemente eccentrici, in http://www.giuffre.it/age_files/dir_tutti/archivio/filippi_0702.html, a tal proposito, testualmente osserva: “ve lo immaginate l’imputato di violenza sessuale che escute la persona violentata o l’accusato di sequestro di persona che incalza il sequestrato?”.
[69] GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 1136, evidenzia la strumentalità del diritto al silenzio, il cui riconoscimento è finalizzato ad evitare che l’imputato renda dichiarazioni autoincriminanti. Osserva, infatti, l’A. che «in tanto ha senso riconoscere all’imputato il diritto al silenzio sul fatto altrui, in quanto si tratti di una garanzia funzionale alla tutela del diritto al silenzio sul fatto proprio».
Ad avviso di CONSO, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?, in Ind. pen., 1999, 1083: «oggettivamente il diritto al silenzio è tutelato in sé, senza andare a vedere se esso sia finalizzato a non rendere dichiarazioni contra se o a non rendere dichiarazioni contra alios».
[70] In tal senso, MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Giappichelli ed., 2000, 129.
PRESUTTI, Autodifesa giudiziaria, in Enc. diritto, Aggiornamento I, Giuffrè ed., 1997, 234, qualifica l’ “autodifesa” – o difesa materiale – come “ personale contributo attivo della parte alla propria difesa e nei suoi rapporti, all’interno dell’unitaria funzione difensiva, con quella complementare spettante al difensore”. In tale accezione, dunque, il ius tacendi costituisce la massima espressione dell’autodifesa in quanto frutto di scelta personale dell’imputato, non surrogabile nemmeno dall’intervento tecnico del difensore.
In senso critico circa la definizione dell’autodifesa quale difesa materiale o generica, si veda BELLAVISTA, Difesa giudiziaria penale, Enc. del diritto, XII, Giuffrè ed., 1997, 456.
[71] Corte Costituzionale, Ord. n. 202/04, in http://giurcost.org/decisioni/2004/0202o-04.html, in cui si evidenzia che il “diritto al silenzio inteso nella sua dimensione di corollario essenziale della inviolabilità del diritto di difsa” va garantito malgrado dal suo esercizio possa conseguire l’impossibilità di formazione della prova testimoniale”.
[72] L’art. 24 Cost., recita: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.
[73] Così testualmente, Corte Costituzionale, Ord. n. 202/04, cit.
[74] CONTI, Un freno alla facoltà di non rispondere per non vanificare il contraddittorio, in Dir. Giust., 2001, 24. Nello stesso senso, MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, Cedam, 2001, 306.
[75] L’art. 198 c.p.p. è rubricato, infatti, “obblighi del testimone”.
[76] Si pensi all’ipotesi in cui Tizio, imputato in procedimento connesso per il reato di soppressione di cadavere, assuma la veste di teste assistito con riferimento al reato di omicidio commesso da Caio. Ovviamente Tizio non avrà l’obbligo di parola in relazione al fatto di reato di soppressione di cadavere trattandosi di “fatto proprio”. Qualora, tuttavia, nel corso della deposizione, Tizio dovesse affermare che, al fine di seppellire il corpo della vittima in modo “sicuro” aveva suggerito a Caio di recarsi sul luogo in cui aveva precedentemente interrato anche delle armi, si verserebbe nell’ ipotesi di un fatto ulteriore da cui “potrebbe emergere una responsabilità a carico del dichiarante che implica l’operatività dell’art. 198, II co., c.p.p.
[77] CONTI, L’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato ( art. 210 c.p.p. ), in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, CEDAM, 2001, 2154, nota n.40, propende, invece, per la rinunciabilità del diritto al silenzio.
[78] Corte Costituzionale, sent. n. 144 del 4.05.95, in http://www.giurcost.org/decisioni/1995/0144s-95.htm.
[79] Si pensi all’art. 64 c.p.p., che nel dettare le “regole generali per l’interrogatorio”, al III comma, recita: “prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che: a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti; b) salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall’articolo 197 e le garanzie di cui all’articolo 197bis”.
[80] CONTI, Un freno alla facoltà di non rispondere per non vanificare il contraddittorio, cit., 24. MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, cit., 306.
[81] MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, Cedam, 2001, 308.
 Nello stesso senso, Trib. Grosseto, sent. del 17.03.2000; Trib. Rimini, sent. del 20.06.2000; Trib. La Spezia, sent. dell’11.04.2000, www.penale.it., che hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 197 e 210 c.p.p. (nelle parti in cui riconoscevano lo ius tacendi su fatti concernenti la responsabilità di altri per coloro che avevano in precedenza risposto) per violazione degli artt. 3, 25, 111 e 112 Cost.
In dottrina DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 736.
[82] Così testualmente, MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, cit, 306.
[83] CONTI, L’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato ( art. 210 c.p.p. ), in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, CEDAM, 2001, 214.
[84] Corte Costituzionale, Ord. n. 202/04, in http://giurcost.org/decisioni/2004/0202o-04.html.
[85] Così testualmente, TONINI, Manuale di procedura penale, Terza ed., 248. Osserva l’A. che “ l’obbligo di verità imposto all’imputato – testimone assistito, riguarda soltanto il fatto altrui già dichiarato in precedenza. Su tutto il resto, e cioè su fatti diversi da quelli già dichiarati, il testimone è incompatibile fino alla sentenza irrevocabile. Tale conclusione si ricava dall’art. 197, lett.b), c.p.p., che mantiene la incompatibilità <salvo quanto previsto dall’art. 64, III comma, lett. c), c.p.p. Se egli è incompatibile con la veste di testimone, ne consegue che può essere sentito soltanto come imputato collegato o connesso ( art. 210 c.p.p.). In tale qualità, egli potrà nuovamente rendere dichiarazioni su fatto altrui, ma lo farà ai sensi dell’art. 210, VI comma, c.p.p. quindi con il diritto di non rispondere e la facoltà di mentire . Come abbiamo esposto in precedenza, dopo che ha tirato in ballo la responsabilità altrui, potrà essere nuovamente sentito come testimone assistito su tale punto. Poco per volta si restringe l’area del diritto al silenzio e della facoltà di mentire. Tutti ciò comporta aspetti organizzativi di non poco conto. Il Parlamento ha creato una nuova figura di testimone “ad intermittenza”.
[86] Sul concetto di “fatto inscindibile”, TONINI – CONTI, Imputato “accusatore” ed “accusato” dopo la sentenza Costituzionale n. 361 del 1998, Appendice di aggiornamento a AA.VV. Le nuove leggi penali, Collana diretta da Giarda- Spangher –Tonini, Padova, 2000, 28.
[87] Ciò a norma del combinato disposto degli artt. 197, lett.b) e 64, III co., lett.c), c.p.p.
[88]  Ovviamente non è possibile che si verifichi il caso in cui dichiarante sia chiamato a deporre come teste assistito sul fatto proprio, ostandovi l’art. 197, lett. b) c.p.p.
 
[89] CONTI, L’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato (art. 210 c.p.p. ), in AA.VV., Giusto processo: nuove norme sulla valutazione delle prove, a cura di Tonini, Padova, CEDAM, 2001, 346.
[90] CONTI, L’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato (art. 210 c.p.p. ), cit., 346.
[91] CONTI, L’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato (art. 210 c.p.p. ), cit., 346.
[92] Il comma secondo dell’art. 197-bis, c.p.p. recita: “l’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera c), o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2, lettera b), può essere sentito come testimone, inoltre, nel caso previsto dall’articolo 64, comma 3, lettera c)”. Il richiamato art. 64, III co., c.p.p. statuisce che: “3. Prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che: a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;b) salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso;c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall’articolo 197 e le garanzie di cui all’articolo 197bis”.
[93] In tal senso, MAGI, in “Le figure normative del dichiarante: in particolare il testimone assistito”, Bozza provvisoria, 8.
[94] Corte Costituzionale, sent. n. 144 del 4.05.95, in http://www.giurcost.org/decisioni/1995/0144s-95.htm. La Consulta, nella sentenza citata – avente ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 31 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, promosso con ordinanza emessa l’11 ottobre 1994 dal Pretore di Torino – ha avuto modo di affermare che “speculare alla inviolabilità del diritto di difesa è la irrinunciabilità di esso, quali ne siano le concrete modalità di esercizio…”.
[95] In quanto già destinatario dell’ammonizione ex art. 64, III co., lett.c), c.p.p., in sede di interrogatorio.
[96] Il comma II dell’art. 197-bis, c.p.p. recita: “l’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera c), o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2, lettera b), può essere sentito come testimone, inoltre, nel caso previsto dall’articolo 64, comma 3, lettera c)”.
[97] L’art. 207 c.p.p., rubricato “testimoni sospettati di falsità o reticenza. Testimoni renitenti”, recita: “se nel corso dell’esame un testimone rende dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite, il presidente o il giudice glielo fa rilevare rinnovandogli, se del caso, l’avvertimento previsto dall’articolo 497 comma Allo stesso avvertimento provvede se un testimone rifiuta di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e, se il testimone persiste nel rifiuto, dispone l’immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge. Con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio, il giudice, se ravvisa indizi del reato previsto dall’articolo 372 del codice penale, ne informa il pubblico ministero trasmettendogli i relativi atti”.
[98] L’art. 497 c.p.p., rubricato “atti preliminari all’esame dei testimoni” suona: “I testimoni sono esaminati l’uno dopo l’altro nell’ordine prescelto dalle parti che li hanno indicati. Prima che l’esame abbia inizio, il presidente avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità. Salvo che si tratti di persona minore degli anni quattordici, il presidente avverte altresì il testimone delle responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Lo invita quindi a fornire le proprie generalità. L’osservanza delle disposizioni del comma 2 è prescritta a pena di nullità”.
[99] Secondo un orientamento dottrinario, in una tale evenienza, il dichiarante non potrebbe addurre, quale elemento a discarico, la circostanza di aver “percepito la domanda come autoincriminante”. In tal senso, CONTI, L’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato (art. 210 c.p.p. ), cit., 348. Tuttavia, l’eventuale percezione della domanda come autoincriminante da parte del dichiarante potrebbe rilevare ai fini della esclusione dell’elemento psicologico del reato se corroborata da plausibili argomentazioni a sostegno dell’assunto.
[100] Tale qualificazione, che – si badi bene – in sede di indagini è da ritenersi frutto di una mera presa d’atto, da parte del Pubblico Ministero, della esistenza di elementi di attribuibilità soggettiva del reato (pena la introduzione di pericolose forme di discrezionalità, limitatrici, in concreto, del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art.112 Cost., condiziona infatti la stessa possibilità di adoperare (in pendenza “comune” del procedimento a carico di accusati e accusatore) anche a fronte di dichiarazioni eteroaccusatorie, il congegno “incentivante” (sul piano della assunzione di responsabilità) alla loro “reiterazione”’, introdotto dal legislatore all’art.197-bis, c.p.p. posto che la comunanza della attribuzione dell’illecito lo inibisce. Ciò, pertanto, è necessario che tutti gli operatori prestino la massima attenzione circa il manifestarsi di possibili patologie in punto di attribuzione e di qualificazione giuridica dei fatti attribuiti (si pensi alle possibili interrelazioni soggettive tra reato associativo e reati-fine posti a carico di soggetti, in parte, diversi da cui deriverebbe l’assunzione parziale della qualità di teste assistito di eventuali dichiaranti già in sede di indagini, lì dove il magmatico progredire delle conoscenze rende alquanto problematica sia la catalogazione imposta dall’art.335, c.p.p. che il controllo sulla medesima.
[101] Ovvero nell’ipotesi in cui sia escusso come testimone assistito l’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12 c.p.p. o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2, lettera b), c.p.p., nei confronti dei quali sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 c.p.p.

Buonadonna Anna Lisa

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