Corte di Strasburgo: niente carcere per i giornalisti

Redazione 26/09/13
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Anna Costagliola

Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà di espressione, salvo casi eccezionali come in ipotesi di incitamento alla violenza o al razzismo. E’ quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza che ha dato ragione all’ex direttore de «Il Giornale», Maurizio Belpietro, su ricorso presentato avverso la condanna a quattro mesi di reclusione inflitta dalla Corte d’appello di Milano per una causa di diffamazione legata ad un articolo pubblicato nel 2004 sul quotidiano. In particolare, la Corte di merito aveva ritenuto l’articolo in questione diffamatorio nei confronti di alcuni magistrati accusati di perseguire strategie politiche nel contrastare la criminalità organizzata. La manchevolezza imputata al direttore del giornale era quella di non aver esercitato il dovuto controllo sull’articolo incriminato al fine di evitare la commissione del reato di diffamazione. Né il fatto che autore dell’articolo fosse un senatore che gode dell’immunità ai sensi dell’art. 68 Cost. poteva valere ad esonerare l’editor dal suo dovere di controllo. A fronte della pronuncia di condanna, confermata dal giudice di legittimità, il ricorrente lamentava innanzi alla Corte di Strasburgo la lesione del suo diritto alla libertà di espressione, espressamente previsto dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

I giudici europei, nel caso in esame, premettono che la stampa ha un ruolo di primo piano in una società democratica: se non deve oltrepassare certi limiti, in particolare in funzione della protezione della reputazione e dei diritti altrui, è tuttavia ad essa incombente di impartire, nel rispetto delle proprie funzioni e responsabilità, informazioni e idee su tutte le questioni di interesse generale, compresi quelli della giustizia. Oltre alla sostanza delle idee e delle informazioni espresse, l’art. 10 della CEDU protegge la forma di espressione, per cui la libertà giornalistica comprende anche il possibile ricorso ad un certo grado di esagerazione, o persino di provocazione. In detta prospettiva è essenziale l’attività dei Tribunali, che sono i garanti della giustizia e la cui missione è fondamentale per lo stato di diritto. Di pari passo va anche il controllo europeo, per cui la Corte ha il potere di dare la sentenza definitiva sulla questione se una «restrizione» sia o meno conciliabile con la libertà di espressione protetta dall’art. 10. In tal senso la natura e la severità delle sanzioni comminate sono anche fattori da prendere in considerazione nel valutare la proporzionalità dell’ingerenza.

Sostengono ancora i giudici di Strasburgo che, se gli Stati contraenti hanno il diritto, anzi il dovere, in virtù dei loro obblighi positivi ai sensi dell’art. 8 della Convenzione, di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione, al fine di garantire la reputazione delle persone con un’adeguata protezione della legge, dovrebbero tuttavia evitare di fare di adottare misure per scoraggiare i mezzi di comunicazione nell’adempimento del loro ruolo di «avviso pubblico». Ciò implica che i giornalisti potrebbero essere riluttanti a parlare e a scrivere in merito a questioni di interesse pubblico qualora fossero esposti al pericolo di essere condannati, ove la legge preveda per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione altrui gravi sanzioni, quali la prigione o la squalifica dalla professione. L’effetto deterrente indotto dalla paura di tali sanzioni risulta dannoso anche per la società nel suo insieme, per cui è uno dei fattori da prendere in considerazione nel contesto della valutazione della proporzionalità, e quindi della giustificazione, delle sanzioni inflitte.

La Corte europea ritiene, in pratica, che una pena detentiva per un reato commesso nel settore della stampa è compatibile con la libertà di espressione giornalistica garantita dall’art. 10 della Convenzione solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente compromessi, come nel caso, ad esempio, di diffusione di discorsi di odio o di incitamento alla violenza.

Pertanto, i giudici di Strasburgo, nel caso in esame, se da un lato confermano la diffamazione, dall’altro negano la possibilità di prevedere il carcere per il responsabile. La fattispecie de qua, che coinvolge una mancanza di controllo nel contesto della diffamazione, è stata, infatti, caratterizzata dall’assenza di circostanze eccezionali che giustificano l’uso di tale severa sanzione. Nella sentenza, pertanto, la Corte considera violato l’art. 10 della Convenzione, che tutela la libertà di espressione, ritenendo che la misura del carcere sia sproporzionata rispetto agli scopi perseguiti.

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