Buoni fruttiferi postali: si può ancora parlare di funzione nomofilattica della Corte di Cassazione?

Redazione 13/06/19
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di Ermelinda Hepaj

Sommario

1. La natura dei buoni fruttiferi postali e l’integrazione integrativa

2. La problematica dal punto di vista della giurisprudenza di legittimità

3. La pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: sentenza n. 3963/2019

4. La funzione nomofilattica del giudizio di Cassazione

5. Considerazioni conclusive

1. La natura dei buoni fruttiferi postali e l’integrazione integrativa

Lanciati già negli anni ’20 del secolo scorso per soddisfare l’esigenza di finanziamento della pubblica amministrazione, i buoni postali hanno costituito una forma alternativa di risparmio rispetto all’emissione dei buoni del tesoro[1]. Grazie alla pronta liquidazione dell’investimento nonché in ragione di una percepita maggiore redditività hanno da subito riscontrato il favor dei risparmiatori[2].

Sono stati introdotti nel nostro ordinamento con r.d.l. 26 dicembre 1924, n. 2106. Con legge 14 giugno 1928, n. 1398, i buoni sono stati poi destinati al fabbisogno finanziario della Cassa depositi e prestiti e, infine, come un fulmine a ciel sereno, con l’adozione del d.p.r. 156 del 29 marzo 1973, è stato previsto, ai sensi di cui all’art. 173, che “le variazioni del saggio d’interesse dei buoni postali fruttiferi sono disposte con decreto del Ministro del tesoro, di concerto con il Ministro per le poste e le telecomunicazioni, da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale; esse hanno effetto per i buoni di nuova serie, emessi dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, e possono essere estese ad una o più delle precedenti serie” anche nel caso, leggasi tra le righe, di modifica sfavorevole per il pubblico dei risparmiatori[3]. In tal modo tutte le serie di buoni, seppur emesse prima della data dell’ultima modifica, avrebbero avuto lo stesso saggio di interesse[4].

Innanzitutto, sin dalla loro circolazione i primi dubbi hanno avuto riguardo la natura da attribuire ai buoni fruttiferi postali. Meri titoli di legittimazione o titoli di credito?

Ricostruita la disciplina dei buoni postali, la giurisprudenza sembra aver sciolto ogni dubbio circa la loro qualificazione quali titoli di credito, facendo riferimento all’asserita contrarietà dei buoni ai requisiti tipici dei titoli di credito, individuati nella letterarietà ed autonomia dei medesimi, sebbene, l’intera disciplina di cui si è detto assegna valore, proprio, al dato letterale del documento, e questo valore non può dirsi che ceda di fronte alla possibilità di esercizio dello ius variandi[5].

Tuttavia, ad oggi, a sostegno dell’impostazione suggerita e portata avanti dalla giurisprudenza, si sono pronunciati anche i collegi arbitrali[6], richiamando il dettato dell’art. 1339 c.c., secondo cui la previsione voluta dalla parti, al momento dell’emissione del titolo, ben potrà essere modificata o sostituita per l’effetto della sopravvenienza di atti normativi. Infatti, per mezzo del meccanismo legale di modifica dei tassi previsto dall’art. 173, comma 1, del d.p.r. 156/1973, la sola pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale è condizione sufficiente per la variazione dei tassi di interesse riportati a tergo dei buoni. È una previsione quest’ultima che sarebbe altrimenti incompatibile con quanti volessero riconoscere ai buoni postali la natura di titoli di credito[7], in quanto quest’ultimi incompatibili con qualsiasi meccanismo di eterointegrazione legale[8].

Non sono mancate, neppure, pronunce che seppur ammettendo la qualificazione dei buoni postali alla stregua di titoli di legittimazione hanno fatto prelevare la volontà negoziale delle parti al momento della sottoscrizione, in spregio alla possibilità di modifica unilaterale ad opera del Ministero[9].

Fatte queste dovute premesse, necessarie per la comprensione dell’istituto di cui trattasi, ciò che verrà affrontato nelle pagine che seguono non sarà tanto il rapporto cartolare quanto il rapporto fondamentale tra le parti e gli interventi normativi alla luce delle pronunce della Corte di Cassazione, stante non solo l’ampia diffusione dell’investimento in parola ma anche la mancanza di precedenti specifici della giurisprudenza di legittimità.

[1] I buoni tesoro si presentano come titoli di debito (obbligazioni) a medio – lungo termine emessi dal Ministero dell’Economia e delle Finanze a far data dal r.d. n. 2440 del 18 novembre 1923, concernete le disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato. Il finanziamento dello Stato, infatti, avviene in quegli anni mediante l’emissione, ad opera del Tesoro, di titoli del debito pubblico. In tal modo si attribuiva al Ministro del Tesoro il potere esclusivo di disciplinare ed istituire mercati regolamentati ed ufficiali dei titoli di Stato. Per un’analisi più approfondita del mercato mobiliare, si veda R. Costi, Il mercato mobiliare, Torino 2016, pag. 20 e ss.

[2] Invero, questa forma di investimento veniva incentivata dall’insequestrabilità ed impignorabilità dei buoni, come disposta dall’art. 175 del d.p.r. n.156/1973, il quale così recitava: “i buoni postali fruttiferi non sono sequestrabili né pignorabili, tranne che per ordine dell’autorità giudiziaria in sede penale”.

[3] Vale la pena ricordare che, a norma dell’art. 207 reg. esec., l’emissione dei buoni comportava che essi fossero compilati, firmati e bollati dall’ufficio emittente, Roma di essere consegnati al richiedente, previo incasso del relativo importo, con successivo obbligo per lo stesso ufficio di darne comunicazione all’amministrazione centrale. Inoltre il successivo art. 208 del medesimo reg. esec. contemplava il rimborso a vista dei buoni – alle previste scadenze – presso il medesimo ufficio da cui erano stati emessi.

[4] È appena il caso di avvertire, anzitutto, che nel prosieguo di queste pagine si continuerà a far riferimento alle disposizioni dettate proprio dal citato d.p.r. n. 156 del 1973, e successive modificazioni, e dal d.p.r. n. 256 del 1989 sebbene tali nome risultino ad oggi abrogate dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 284, art. 7, comma 3. Stando a quest’ultima disposizione, infatti, solo i rapporti già in essere ma ancora in corso possono risentire delle nuove disposizioni, mentre ai rapporti già del tutto esauriti, come quelli qui in commento, restano applicabili le disposizioni precedenti

[5] Alla luce del detto di cui all’art.175 del codice postale, come confermato anche di recente all’art. 4, d.m. 6 ottobre 2004, n. 15581, è esclusa la possibilità di circolazione dei buoni postali compatibile invece con la disciplina dei titoli di credito, che quindi esclude qualsiasi tipo di qualifica dei buoni come titoli di credito.

[6] Cfr., Collegio di Coordinamento, decisione n. 6663/2014, secondo cui “deriva la chiara possibilità per le norme indicate di determinare una eterointegrazione del contratto rispetto a – e anche a contrasto con -, lo specifico assetto di riferimento noto alle parti al momento dell’emissione del titolo … secondo l’insegnamento della Suprema Corte, dunque, deve convenirsi circa la possibilità che il contenuto dei diritti spettanti ai sottoscrittori dei buoni postali possa subire variazioni nel corso del rapporto per effetto della sopravvenienza di atti normativi (nella specie decreti ministeriali), volti a modificare il tasso degli interessi originariamente previsti, provvedendo in tal modo ad un’integrazione extratestuale del rapporto”.

[7] Tuttavia secondo alcuni la possibilità di integrazione, anche sostitutiva, del contenuto delle obbligazioni incorporate in un documento è una circostanza propria dei titoli di credito c.d. “causali”, tra cui rientrano i titoli azionari. così la limitazione della possibilità per il debitore cartolare di opporre al creditore cartolare una modifica del contenuto dell’obbligazione cartolare non risultante dal documento è cosa da imputare all’art. 1993, secondo co., c.c., e dunque valido per i portatori del titolo successivi al primo prenditore; quando invece a quest’ultimo l’integrazione successiva e modificativi del rapporto sottostante è di certo opponibile ai sensi dell’art. 1993, primo co., c.c.

[8] La Corte di Cassazione, con sent. 27809 del 16 dicembre 2005, ha sostenuto che “i buoni postali fruttiferi disciplinati dal d.p.r. 29 marzo 1973, n. 156 non sono titoli di credito, ma meri titoli di legittimazione, come dimostrato dalla prevalenza, sul loro tenore letterale, dalle successive determinazioni ministeriali in tema di in tenessi dell’art. 173″.

[9] Si vedano, tra le altre, le seguenti pronunce: Corte d’appello Campobasso, 1 febbraio 2017 n. 52; Tribunale di Bari, 11 novembre 2013, n. 3773. Tra le pronunce ABF: Collegio di Milano, decisione n. 315/2011; Collegio di Torino, decisione n. 3141/2017, Collegio di Bologna, decisione n. 11696/2017; decisone n. 8049/2018.

2. La problematica dal punto di vista della giurisprudenza di legittimità

È utile avviare il commento circa la funzione nomofilattica attribuita alla suprema Corte con alcuni brevi cenni al contesto, oltre che normativo, anche giurisprudenziale di riferimento dell’istituto dei buoni postali.

Infatti in ossequio al susseguirsi di appositi decreti del Ministero del tesoro, Poste italiane ha rilasciato nel corso del tempo diverse serie di buoni fruttiferi, ciascuna delle quali caratterizzate da uno specifico tasso di interesse e da una certa durata[10]. Tuttavia, il ricorso a questa forma di investimento si è dimostrato a distanza di anni causa di un corposo contenzioso innanzi ai Tribunali prima, alle corti d’Appello poi ed, infine, innanzi alla Corte di Cassazione.

Il contenzioso ha avuto luogo dapprima per via della pratica in uso in certi uffici postali, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, di utilizzare i moduli dei buoni postali stampati sotto la vigenza di decreti istitutivi di serie precedenti da quella sottoscritta dagli investitori e, successivamente, per via del dettato di cui all’art. 6 del d.m. 13 giugno 1986, il quale ha espressamente disposto la modifica in peius della misura degli interessi delle precedenti serie, uniformando il tasso degli interessi ai buoni di nuova emissione[11] . Questo ha determinato il fiorire di un ingente numero di contenziosi.

Così sulla tematica in oggetto si è da prima pronunciato il supremo Consesso nel 2007 con sentenza n. 13979. Gli ermellini erano stati chiamati a decidere su una questione che prima facie sembrerebbe chiara: “i sottoscrittori dei buoni, sulla base della stampigliatura presente sui titoli cartacei avrebbe dovuto vedere triplicato il loro capitale[12].

Dopo una rassegna in primo luogo sulla natura dei buoni postali, quali titoli di legittimazione e, non titoli di credito, il che giustificherebbe la svalutazione del loro dettato letterale e renderebbe legittima la modifica ad opera del d.m. 16 giugno 1984, la Suprema Corte rileva che ciò, ad ogni modo, “non autorizza a svalutare totalmente la rilevanza delle diciture riportate sui buoni stessi anche quando – come accaduto nella fattispecie in esame – in corso di rapporto non è intervenuto alcun nuovo decreto ministeriale concernente il tasso degli interessi e nessuna modificazione si è quindi prodotta rispetto alla situazione esistente al momento della sottoscrizione dei titoli. Al contrario il fatto che la legge imponesse espressamente di procedere al rimborso degli interessi sulla base della tabella riporta a tergo dei buoni sottoscritti dal risparmiatore, mentre solo in caso di sopravvenuta modifica per decreto di quei tassi si sarebbe dovuto tener conto anche la tabella da mettere a disposizione presso gli uffici postali, le già descritte modalità di emissione e di successivo rimborso dei titoli, specularmente concepite in modo da garantire la corrispondenza dell’operazione ai dati scritturali risultanti anche dai titoli medesimi;…omissis… sono tutti elementi che persuadono di come il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore dei titoli fosse destinato a formarsi sulla base dei dati risultato dal testo dei buoni di volta in volta sottoscritti”.

È evidente quindi che le Sezioni Unite nel 2007, di fronte ai contrasti derivanti dai giudizi di merito[13], abbiano stabilito che in presenza di buoni fruttiferi postali riportanti “vecchie condizioni” all’atto dell’emissione, queste debbano prevalere rispetto alle modifiche di cui ad un precedente decreto ministeriale, in quando secondo gli ermellini sarebbe stato obbligo, in capo all’ufficio postale emittente, quello di contrassegnare i buoni da emettere con timbri dai quali desumere il cambiamento di serie o le diverse condizioni vigenti già in quel determinato momento storico[14].

[10] Oggi si va dai buoni “ordinari”, con la possibilità di investire fino a 20 anni, contando su rendimenti fissi crescenti; buoni “indicizzati all’inflazione italiana”; buoni c.d. “3×4” o ancora buoni c.d. “3×2”.

[11] Più precisamente, va detto che dopo l’istituzione delle serie “O” e “P”, con i decreti ministeriali del 15 giugno 1981 e del 16 giugno 1984, il Ministero del tesoro, con il successivo art. 6 del d.m. 13 giugno 1986 ha disposto che le precedenti serie fosse uniformate al tasso della emendata serie “Q”, con conseguente riduzione delle somme da liquidarsi ai sottoscrittori.

[12] Questo sulla base di un calcolo di interessi da corrispondere che tenesse in considerazione le condizioni contrattuali riportate sui buoni, i quali prevedevano interno a salire con un picco massimo tra il ventesimo ed il trentesimo anno dalla sottoscrizione.

[13] Cfr., Tribunale di Ascoli Piceno, 18 giugno 2010; Tribunale di Bari, 5 novembre 2015, n. 4862; Tribunale di Bologna, 28 luglio 2016, n. 1931; Corte d’Appello di Torino, 25 marzo 2014.

[14] E’ stato anche autorevolmente osservato da U. Cardinali, “Buoni Fruttiferi e la riduzione unilaterale dei tassi di interesse prefissati. In attesa delle Sezioni Unite”, Ipsoa, gennaio 2019, che l’esercizio di un diritto potestativo può avvenire solo nel caso in cui il contratto riporti una specifica avvertenza in tal senso, necessaria ad informare la parte esposta agli effetti dell’esercizio del suo diritto. Tutto ciò prima che lo stesso a. Avesse contezza della pronuncia delle Sezioni Unite depositata l’11 febbraio 2019.

3. La pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: sentenza n. 3963/2019

Sembrerebbe risultare, da quanto sino ad ora affermato, che il supremo Consesso avesse sciolto in quell’occasione il nocciolo duro della questione afferente il rimborso degli interessi dei buoni postali in relazioni agli intervenuti decreti ministeriali modificativi in peius [15] delle condizioni apposte sui medesimi. Da allora, di contro, sono piovuti ricorsi basati sull’assunto secondo cui, di fronte alle modifiche normative intervenute, a prevalere è sempre la vecchia stampigliatura.

Invero, le Sezioni unite sono state nuovamente investite della questione e con sentenza n. 3963 del 2019, hanno spazzato via, dopo circa sedici anni di incertezze, le doglianze avanzate dai sottoscrittori.

Prendendo le mosse dal medesimo assunto secondo cui la qualificazione dei buoni fruttiferi postali è quella di meri titoli di legittimazione, le sezioni unite del 2019 giungono a conclusioni del tutto diverse, sostenendo che “non può non rilevarsi come il riferimento alla tabella concernente la revisione dei tassi di interesse (nella specie quella operata con il decreto ministeriale del 13 giugno 1986) non costituisca affatto una parte della modalità di comunicazione all’interessato della intervenuta nuova prescrizione ministeriale. La conoscenza di tale circostanza è affidata dal legislatore alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La prescrizione della messa a disposizione della tabella integrativa ha la diversa finalità di consentire al risparmiatore di verificare presso l’ufficio postale l’ammontare del proprio credito per interessi all’esito dell’intervenuta variazione, anche ai fini del controllo della regolarità della riscossione e della sua conformità alla normativa vigente al momento della riscossione. È quindi erroneo ritenere, come fa invece il ricorrente, che tale prescrizione costituisca un obbligo informativo dalla cui osservanza dipenda la vincolatività della variazione per il risparmiatore”.

Secondo quanto è dato cogliere in quest’ultima sentenza, dunque, la qualificazione dei buoni postali come titoli di legittimazione ha giustificato la soggezione dei diritti spettanti ai sottoscrittori dei buoni medesimi alle variazioni derivanti dalla sopravvivenza dei decreti ministeriali, volti a modificare il tasso degli interessi originariamente previsto.

Si tratta, prima facie, di una ricostruzione che si presenta come uno scacco matto a quei risparmiatori che avevano riposto, nella pronuncia delle Sezioni Unite del 2007, la speranza di riottenere i loro danari, come risultanti allo scadere dei trent’anni dalla sottoscrizione dei buoni.

Pertanto si analizzerà nel prosieguo come la Cassazione a sezioni unite abbia risolto in modo diverso le due questioni e, che solo apparentemente, sembrava potesse dar vita ad una giurisprudenza successiva a “macchia di leopardo”.

[15] Non solo l’art. 173, comma 1, d.p.r. 156/1973 ma anche il successivo art. 6, d.m. 13 giugno 1986, ha disposto l’integrazione automatica del regolamento di emissione dei singoli buoni, andando a determinare il contenuto disciplinare del contratto anche nel caso di modifica sfavorevole per gli investitori

4. La funzione nomofilattica del giudizio di Cassazione

È questione da considerarsi di massima importanza ai sensi dell’art. 374 c.p.c., per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione se i buoni postali fruttiferi siano regolati da norme imperative che incidono in modo diretto sul contenuto disciplinare del contratto stipulato tra l’emittente e l’investitore, venendo a costituirne parte integrante, ovvero se il potere discrezionale attribuito al ministro competente di modifica unilaterale delle condizioni economiche dell’investimento di cui al buono presupponga una specifica previsione di tale potere nel contesto del contratto che, in concreto, fonda l’investimento affinché il risparmiatore ne sia effettivamente informato al momento in cui sottoscrive il buono, e in ogni caso se la riduzione unilaterale dei tassi dei buoni fruttiferi presso gli uffici postali, così come disposto dalla normativa in materia”[16].

La devoluzione della controversia alla sezioni unite della Cassazione trova la sua ragion d’essere nella fedeltà ai precedenti in cui si sostanzia la funzione nomofilattica della Corte[17].

Negli ultimi anni infatti l’intervento del legislatore ha più volte riguardato le norme che disciplinano il giudizio di cassazione allo scopo dichiarato di promuovere la funzione nomofilattica, con il chiaro intento di rivalutare il ruolo esclusivo della Corte di Cassazione nella tutela dello ius costitutionis[18] nonché dell’interesse generale all’uniforme interpretazione e applicazione delle norme giuridiche. Un’uniforme interpretazione che si sarebbe resa necessaria alla luce delle numerose pronunce discordanti sulla questione afferente i buoni postali nonché sul legittimo affidamento riposto dai consumatori nella pronuncia del supremo consesso.

Vale la pena ricordare che il primo intervento, di questi ultimi 13 anni, è stato realizzato con il d.lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006, intitolato “Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge 24 maggio 2005, n. 80[19]. Tale riforma, il cui capo primo ha modificato il codice di rito introducendo importanti novità nella disciplina del giudizio di cassazione, ha inteso rafforzare la funzione nomofilattica, da un lato, ampliando gli ambiti di operatività della funzione uniformatrice della Corte e, dall’altro lato, predisponendo misure deflative nella convinzione che l’enorme mole di ricorsi che si riversano sulla Corte renda difficile l’esplicarsi della suddetta funzione[20].

A soli tre anni di distanza dalla suddetta riforma, il legislatore, con Legge 18 giugno 2009, n. 69, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile“, è nuovamente intervenuto sulla disciplina del giudizio civile in Cassazione.

L’art. 47, comma 1, della novella, da un lato, ha abrogato il quesito di diritto di cui all’art 366- bis c.p.c.[21], dall’altro lato, ha introdotto ex novo nel codice di rito l’art. 360- bis c.p.c., che prevede due inedite ipotesi di inammissibilità del ricorso in cassazione e si completa sul piano procedimentale con l’istituzione di un’apposita sezione, a cui compete in via preliminare di verificare se, risultando il ricorso inammissibile o manifestamente fondato o infondato, sussistono le condizioni per la sua trattazione in camera di consiglio[22]. Con tale disposizione, il legislatore della riforma ha inteso scoraggiare “i ricorsi meno meritevoli”.

Ha perseguito finalità deflative anche il recente intervento sul procedimento di legittimità attuato con la legge n. 134 del 2012, di conversione con modifiche del d.l. n. 83 del 23 giugno 2012 recante “Misure urgenti per la crescita del paese”. Giova premettere che, con l’intento di proteggere la Cassazione evitando “l’abuso dei ricorsi per Cassazione basati sul vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali[23], il legislatore del 2012 ha riformulato in senso restrittivo l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. eliminando dal controllo della Cassazione il vizio logico della motivazione.

Da ultimo, la più recente riforma del giudizio civile in cassazione è quella introdotta con la l. 25 ottobre 2016, n. 197, la quale mira a ridurre il carico di lavoro della corte in un’ottica ancora una volta deflativa del contenzioso innanzi alla suprema corte puntando da un lato sulla distinzione – estranea al dettato costituzionale dell’art. 111, comma 7, Cost. – dei ricorsi tra quelli a valenza “nomofilattica”, e tutti gli altri e, dall’altro lato, sulla velocizzazione e semplificazione del giudizio, affidato alla trattazione camerale.

Invero, di valore o tendenza che si tratti, alche alla luce del più recente intervento legislativo, occorre riconoscere che la funzione nomofilattica di cui è da sempre investito il supremo organo giurisdizionale di legittimità, posto al vertice della piramide giudiziaria[24] , rappresenta tutt’oggi un aspetto di particolare rilevanza.

A fronte di tali elementi che vedono l’intervento del legislatore volto a prediligere la funzione nomofilattica della Cassazione, si tratta di stabilire se ancora oggi, alla luce della recente riforma, la suprema Corte è in grado di svolgere il proprio ruolo di garante della uniforme interpretazione della legge alla luce in particolare modo delle sue sentenze in commento.

[16] Si veda meglio Cass. civ. Sez. I ord., 31.08.2018, n. 21543. La Suprema Corte ha tuttavia avuto modo in più occasioni di evidenziare come nell’ordinamento italiano non sussista un obbligo per il giudice di uniformarsi a precedenti giurisprudenziali in quanto i precedenti potranno al più rappresentare meri “orientamenti” ad adiuvandum che possano ispirare decisioni future

[17] Sebbene la più recente riforma del giudizio civile in Cassazione, introdotta con la l. 25 ottobre 2016, n. 197, miri a ridurre il carico di lavoro della Corte puntando, da un lato proprio sulla distinzione tra i ricorsi di quelli con valenza nomofilattica e, dall’altro lato, sulla semplificazione del giudizio, sembra che la stessa abbia anche voluto incidere sulla qualità delle decisioni della Suprema Corte nonché sull’autorevolezza delle stesse, distinguendole tra quelle appartenenti ad una c.d. “categoria A” e quelle di “categoria B”.

[18] Infatti secondo Calamandrei “in Cassazione non si va per difendere soltanto l’interesse del litigante, quello che gli antichi giuristi chiamavano ius litgatoris, ma altresì per difendere lo ius consitutionis, che è appunto l’interesse pubblico alla difesa del diritto e della sua unità, messa in pericolo dalla pluralità delle interpretazioni difformi ed aberranti, le quali contagiose anche per l’avvenire. Così Calamandrei durante l’intervento in Assemblea Costituente per la formulazione dell’art. 111 Cost., come riportato da C. Rasia, La crisi della motivazione nel processo civile”, Bononia University Press, 2016, pag. 273.

[19] I principi ed i criteri direttivi dell’intervento legislativo in commento, derivano dal progetto Vacarrela elaborato per la riforma del processo civile, poi divenuto proposta di legge delega per la riforma del codice di procedura civile.

[20] Indubbiamente l’intento del legislatore del 2006 era finalizzato al risultato di ridurre il numero dei ricorsi, ma che tale risultato non sia stato conseguito è dimostrato inequivocabilmente dalla circostanza che, tre anni dopo la summenzionata novella, il motivo di impugnazione in esame viene nuovamente riformato; in questo senso anche N. Picardi, Manuale del processo civile, Milano 2010, pag. 440 ss.

[21] Tale norma, introdotta con il d. lgs. n. 40 del 2006, poneva a carico dei ricorrenti nei casi previsti dall’art 360, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), cioè nei casi di doglianza per violazione di legge o vizio di procedura, l’onere sanzionato a pena di inammissibilità del ricorso, di apporre a chiusura dell’esposizione di ciascun motivo uno specifico “motivo di diritto”; ovvero, ove si chiedeva la cassazione per difetto di motivazione ex art 360, comma 1, n. 5, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si riteneva omessa, contraddittoria o insufficiente.

[22] Si tratta della nota sesta sezione o c.d. sezione filtro, avente come scopo precipuo quello consentire alla Cassazione di concentrare le sue energie sulle questioni di maggiore interesse e scoraggiare i ricorsi meno meritevoli.

[23] Così la relazione illustrativa al d.l. n. 83 del 23 giugno 2012. Va detto che quest’ultimo cambiamento, con il suo “ritorno all’antico è stato variamente valutato anche da C. Rasia, La crisi della motivazione nel processo civile, op. cit, pag. 279.

[24] Per un’analisi dei rapporti fra organi giurisdizionali di terza istanza e formazione del “precedente, si vedano i rilievi P. Comoglio, in A. Donde, V. Ansanelli, “Processi civili in evoluzione, Una prospettiva comparata“, Milano 2015, cap.6, pagg. 307- 321.

5. Considerazioni conclusive

È chiaro che i buoni postali fruttiferi possano “valere doppio”. Nel primo giudizio di Cassazione a sezioni unite, veniva infatti riconosciuto in capo al risparmiatore la valenza delle condizioni contrattuali afferenti agli interessi come risultanti a tergo del buono al momento della sottoscrizione, senza che, di contro, alcuna incidenza fosse riconosciuta alla portata modificativa in peius del d.m. 13 giugno 1986.

Nel caso deciso dalle sezioni unite del 2019, nulla in più viene riconosciuto al consumatore rispetto al quantum calcolato in sede di liquidazione da Poste italiane alla luce del medesimo d.m. e come risultante dalla pubblicazione del decreto in Gazzetta ufficiale.

Sembrerebbe quindi che la Suprema Corte abbia creato, stando a quest’ultima pronuncia, una zona d’ombra per quanti avevano ottenuto i dovuti rimborsi a seguito della pronuncia delle sezioni unite del 2007. E quanti si apprestano ad ottenere gli ultimi rimborsi.

Ma come si è detto l’intervento della Corte di Cassazione è determinato dal controllo sulla decisione del caso concreto, anche se essa utilizza il caso specifico come mezzo per definire in termini generali l’interpretazione della norma sottesa al suo esame. Infatti, nel caso di specie, il supremo Consesso, in un obieter dictum[25], fa salva la decisone a suo tempo data affermando che “Le sezioni unite, in quella controversia, hanno affermato che la discrepanza tra le prescrizioni ministeriali e quanto indicato sui buoni offerti in sottoscrizione non può far ritenere che l’accordo negoziale, in cui l’operazione di sottoscrizione si sostanzia, abbia un contenuto divergente da quello enunciato dai titoli. Le sezioni unite non affatto affermato, come pretenderebbe il ricorrente, la prevalenza in ogni caso del dato testuale portato dai titoli alle prescrizioni ministeriali“.

Viene quindi chiarito, in un’ottica di tutela dello jus costitutionis, che quanti hanno sottoscritto i buoni fruttiferi postali, negli anni a cavallo tra il 1981 e il 1985, dovevano sapere che lo Stato, stando al dettato dell’art. 173, comma 1, d.p.r. 156/1973, avrebbe potuto modificare in peius i tassi interesse, come di fatto avvenuto nel giugno ’86. Costoro quindi nulla potranno prendere sulla base della vecchia stampigliatura, perché la stessa risulta abrogata da norma successiva. Diversamente, i sottoscrittori di buoni emessi dopo il giugno ’86, qualora i buoni rechino la vecchia stampigliatura avranno diritto a ricevere quanto prescritto dall’originaria tabella, in quanto compito dell’intermediario era quello di creare titoli cartacei correttamente aggiornati.

Una vera spada di Damocle che, da un lato, tutela i sottoscrittori i quali legittimante hanno fatto affidamento su quanto riportato a tergo dei buoni, non potendo pretendere in capo agli stessi la conoscenza della diversità di rendimenti già modificati in passato con i precedenti decreti ministeriali e, dall’altro lato, disincentiva quanti avrebbero potuto conoscere della modifica e devono pertanto accontentarsi di ricevere un rendimento dimezzato senza che venga riconosciuto loro alcun ulteriore rimborso.

[25] Per dirlo con le parole di Romano Vaccarella, Corte suprema, precedenti e rottamazione dei ricorsi (Intervento al convegno “I precedenti, Roma Accademia dei Lincei, 6 luglio 2017), in Judicium, riv. trim., settembre 2017, fasc. 3, pag. 301, “la riforma del 2006 ha trasformato, attraverso la rivitalizzazione del ricorso nell’interesse della legge (art. 363) gli obiter dicta da solitarie e narcisistiche elucubrazioni del redattore della sentenza in mediate e consapevoli occasioni per la Corte di manifestare su questioni (di fatto non decisive, ma) rilevanti il proprio orientamento”

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