Avvocati part time all’esame della Corte Costituzionale il prossimo 26 settembre: riflessioni su alcuni profili di incostituzionalità della l. 339/2003.

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La Provincia di Cuneo, in base all’art. 1 della l. 339/2003, ha negato la trasformazione del rapporto di lavoro di un suo dipendente da tempo pieno a tempo parziale ridotto poichè il dipendente aveva dichiarato di chiedere tale trasformazione per svolgere, ottenutala, anche la attività di avvocato.
Il Tribunale di Cuneo, adito dal dipendente pubblico, ha sollevato, come richiestogli, questione di costituzionalità dell’art. 1 della l. 339/2003.
Evidenzia il giudice rimettente che la trasformazione del rapporto è stata negata con l’unico motivo che la l. 25/11/03, n. 339, ha sancito la incompatibilità tra la posizione di pubblico dipendente, anche in regime di part time c.d. ridotto, e l’esercizio della professione di avvocato.
Evidenzia poi come l’art. 1, comma 58, della l. 662/96 consenta all’amministrazione di negare la trasformazione del rapporto da tempo pieno a part time nel caso in cui l’ulteriore attività di lavoro (subordinato o autonomo) del dipendente “comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta” e come il successivo comma 58-bis (introdotto dal d.l. 79/97) abbia demandato alle singole amministrazioni -ferma la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse- di individuare con D.M. le attività da considerare “comunque non consentite” in ragione della inteferenza con i compiti istituzionali.
Può pertanto affermare il rimettente, in punto di rilevanza, che “l’unico ostacolo allo svolgimento della suddetta libera professione da parte del ricorrente è rappresentato, pertanto, dal divieto reintrodotto dall’art. 1 della l. 339/2003”.
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Quando alla fondatezza della questione di costituzionalità, sollevata con riguardo a molteplici profili di contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, ci si limita, di seguito, ad alcune riflessioni sull’incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 della Costituzione:
Il divieto di iscrizione all’albo degli avvocati reintrodotto con l’art. 1 l. 339/03 è lex specialis rispetto al principio generale secondo il quale il pubblico dipendente in regime di part time c.d. ridotto può esercitare qualunque libera professione.
Per la Costituzione la libertà d’esercizio della attività professionale è la regola; eccezione è la necessità di previo superamento di esame di abilitazione alla professione; eccezione nell’eccezione è la necessità di iscrizione in un albo professionale.
Al dipendente della P.A. in part time ridotto è stato, con l. 339/2003, inibito in via generale ed astratta l’esercizio della professione di avvocato mentre analogo divieto non vale per tutte le altre libere professioni.
In tale disciplina giustamente il Tribunale di Cuneo vede violazione dell’art. 3 Cost. per impossibilità di “trovare giustificazione in principi di rango costituzionale” alla deroga alla lex generalis di cui all’art. 1, comma 56, della l. 662/96 (che è norma di rango superiore anche perchè espressione immediata dei principi costituzionali di libertà di cui agli artt. 1, 2, 4, 41, 117 della costituzione). Giustamente il giudice rimettente non trova una tale ragione giustificatrice della deroga alla lex generalis “nè se si guarda il problema dal punto di vista della professione forense, nè se lo si considera dal punto di vista della pubblica amministrazione”.
Se si guarda il problema dal punto di vista della professione forense, con riguardo alle ragioni giustificatrici della reintrodotta incompatibilità che sono state avanzate da quanti temono una lesione dell’indipendenza del difensore, del bene della fedeltà al mandato conferito dal cliente e, addirittura, una limitazione del diritto di difesa, esse appaiono inconsistenti come la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire in sent. 189/2001. Il Tribunale rimettente ha poi giustamente evidenziato come la fedeltà al mandato conferito dal cliente non sia pregiudicata dal rapporto di dipendenza con la P.A. “in quanto nell’esercizio della professione di avvocato il pubblico dipendente non è soggetto agli ordini e alle direttive della datrice di lavoro, ma esclusivamente alle norme deontologiche valide per tutti gli iscritti all’ordine”.
Se si guarda il problema dal punto di vista della pubblica amministrazione, con riguardo alle ragioni giustificatrici della reintrodotta incompatibilità che si volessero immaginare a tutela dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione, pure esse appaiono inconsistenti come la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire in sent. 189/2001.
In effetti i diritti di libertà e di concorrenza impongono di vagliare la costituzionalità delle norme che prevedono cause di incompatibilità alla luce della sussistenza o meno di effettivi obblighi giuridici in contrasto (obblighi cioè ai quali non si possa contemporaneamente adempiere) dalla concreta venuta ad esistenza dei quali non sia fatto derivare da singole norme giuridiche (che diverrebbero superflue se, a monte, permanesse una previsione di incompatibilità autonomamente sanzionata) il dovere, sanzionato, di palesamento del conflitto di interessi e/o il dovere, sanzionato, di astensione dall’una o dall’altra attività. Qualora infatti siano previsti i detti doveri di palesamento e/o di astensione dall’attività -e relative sanzioni- è segno che l’ordinamento ha ritenuto sufficiente, nel rispetto delle libertà costituzionalmente garantite, approntare una tutela non limitativa dell’accesso agli status, approntare cioè una tutela non rozzamente preventiva ma tesa a conciliare la libertà dei singoli con la tutela dei destinatari dei loro servigi (clienti ma anche Stato). L’incompatibilità tra status (professionali, familiari,“politici”, ecc…) deve essere l’ultima ratio e va riservata a quei casi in cui col riconoscimento di uno status è anche richiesto al singolo un tale livello di dedizione alla singola “funzione” che nessuna altra funzione si possa ragionevolmente abbracciare.
Quando, invece, si vuole introdurre incompatibilità tra status che per loro natura (o meglio per disciplina positiva) non sono così assorbenti, come quello di avvocato e di dipendente pubblico in part time ridotto, si comprimono ingiustificatamente le libertà costituzionali.
Non sorprende poi che per giustificare l’incompatibilità si usino a vessillo, esaltati a sproposito, quegli stessi principi che debbono informare di se (ed asser perseguiti attraverso) i complessi di attività qui chiamati status. Così non sorprende che per sostenere l’incompatibilità tra professione forense e titolarità di un contratto di lavoro in part time ridotto con un ente pubblico si scomodino, travisati, il diritto di difesa di cui all’art. 24 della costituzione e il principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 della costituzione. Non sorprende ma preoccupa, perchè l’evocazione generica copre l’analisi e fa dimenticare: 1) che il diritto di difesa garantito dall’art. 24 della costituzione non ha nulla a che spartire con l’organizzazione di una classe di difensori per l’accesso alla quale, a livello costituzionale, è prevista solo la necessità di un esame di stato di abilitazione all’esercizio professionale; 2) che invece l’approntamento di una classe di difensori deve rispettare ed esaltare la realizzazione di molteplici disposizioni libertarie della costituzione (art. 1,2,3,4,9,34,35,36,41,51,117…); 3) che quando la costituzione ha voluto garantire la “funzione giustizia” attraverso guarentigie a determinate figure, attori principali della sua realizzazione (la magistratura), ha espressamente disposto, come eccezioni, tali guarentigie (Titolo IV della costituzione).
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L’incompatibilità, inoltre, non può che essere limitata a singole attività che presentino particolare esigenza di tutela dai rischi dei conflitti di interessi pubblici e privati; essa deve essere reazione proporzionata alla minaccia del bene messo in pericolo dalla eventuale plurima attività e deve essere non solo ragionevole in se ma anche inserita in un ragionevole sistema di compatibilità e incompatibilità per modo che non sia limitata la libertà (economica, di esplicazione della personalità, di partecipazione alla vita politica) di alcune categorie (professionali e non) e salvaguardata quella di altre categorie.
Con sent. 60/2006, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera -bis della legge 374/91, di Istituzione del giudice di pace, “nella parte in cui stabilisce l’incompatibilità all’esercizio delle funzioni di giudice di pace -per il caso in cui <<il coniuge, conviventi, parenti fino al secondo grado o affini entro il primo grado>> dell’interessato svolgano abitualmente attività professionale per imprese di assicurazione- con riguardo all’intero territorio nazionale, anzichè limitarla al circondario del tribunale nel quale è esercitata datta attività professionale” , la Corte costituzionale ha delineato l’ambito di legittima previsione di incompatibilità con riguardo all’esercizio di una particolare funzione pubblica, quella giurisdizionale. Ha in primo luogo affermato la sentenza 60/2006 che “la ratio delle norme che stabiliscono cause di incompatibilità all’esercizio di determinate funzioni consiste in generale nella necessità di prevenire possibili conflitti di interesse, per garantire l’imparzialità dei poteri pubblici e, nello specifico della funzione giurisdizionale, nell’esigenza di tutelare la sostanza e l’immagine dell’indipendenza dei giudici, a qualunque categoria essi appartengano”.     
Non ha dunque esaminato la diversa questione dell’ambito di legittimità di previsioni legislative di incompatibilità con riguardo all’esercizio di attività non riconducibili al concetto di funzione pubblica (ma a quello di libera (?) professione e di impiego pubblico in part time ridotto, impiego ormai connotato da indiscusso superamento del principio di esclusività).
Ciò non di meno si deve riconoscere che hanno valenza anche nel nostro caso alcuni principi delineati nella sentenza 60/2006. In particolare appare importante la riconosciuta necessità di una comparazione tra le cause di incompatibilità dettate dalla legge per categorie differenti di giudici onorari; “trattandosi di figure affini, -afferma la Corte- ogni diversità di regime giuridico deve essere valutata con estrema attenzione allo scopo di individuare eventuali disparità in contrasto con il precetto generale dell’art. 3, primo comma, della costituzione”.   Fondamentale poi appare la censura di una deroga, dettata solo per i giudici di pace, “estranea al sistema delle norme sulle incompatibilità dei giudici, sia professionali che onorari”. Fondamentale appare anche il riconoscimento della necessità di valutare, a fronte della grave compressione della sfera giuridica di certi soggetti, se siano proporzionate le ragioni giustificatrici adducibili in funzione di bilanciamento per la tutela di altri valori costituzionalmente protetti e se sussistano criteri di incompatibilità non assoluta ma territorialmente delimitata che, essendo previsti per lo svolgimento di analoghe attività (o comunque per attività che non richiedano minori garanzie di indipendenza), possano essere estesi attraverso sentenza di accoglimento manipolativa-sostitutiva.
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La previsione costituzionale del principio di concorrenza impone alla Corte costituzionale, quando chiamata a giudicare della incostituzionalità per violazione degli artt. 3, 4, 35, 41 della costituzione, di vagliare le situazioni analoghe con attenzione a quegli aspetti che connotano le singole situazioni come analoghe o no in relazione alla potenziale esplicazione della attività (anche di avvocato) in concorrenza.
Non potrà che riconoscersi incostituzionale, dunque, la leggina 339/2003 che reintroduce l’incompatibilità con la professione di avvocato per l’autista in part time ridotto del sottosegretario alla giustizia e continua a consentire a quel sottosegretario di svolgere anche la professione forense (magari difendendo imputati di mafia in processi in cui lo Stato sia parte civile). 
Potrà al limite pervenirsi a prevenire situazioni di mero fatto introducendo limitazioni all’esercizio della professione di avvocato da parte del pubblico dipendente occupante, in seno all’amministrazione, una posizione suscettibile di fungere da “richiamo di clientela” (e senza presunzioni odiose e irragionevoli, stante la indiscutibile rozzezza e inefficacia di un criterio territoriale di prevenzione dei conflitti di interessi pubblici e privati in attività come quella amministrativa e difensiva che spessissimo si svolgono senza riferibilità al territorio della sede dell’Ente pubblico datore di lavoro o al territorio di competenza del Consiglio dell’Ordine degli avvocati).           
Nel caso che ci occupa, infatti, un adeguato ruolo preventivo di sempre possibili conflitti di interessi deve riconoscersi alla previsione positiva di ben precisi doveri del dipendente pubblico in part time ridotto e dell’avvocato, presidiati nei due “ordinamenti” dell’avvocatura e dell’impiego pubblico da sanzioni di vario genere e gravità: da blande disciplinari e deontologiche, a gravi disciplinari e deontologiche e persino penali (come ha evidenziato Corte cost. 189/2001).
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Ulteriori approfondimenti meriterebbe l’ipotizzato contrasto con l’art. 3 della costituzione per violazione del principio di parità di trattamento con situazioni professionali analoghe (e cioè caratterizzate da diversità irrilevanti ai fini della ragionevolezza della diversità di disciplina) sotto il profilo della parità di trattamento con la “situazione del pubblico dipendente che svolge qualsiasi altra professione liberale”. 
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Del pari ulteriori approfondimenti meriterebbe una ulteriore ragione di contrasto della l. 339/2003 con l’art. 3 della costituzione: quella che è stata individuata nel fatto che dall’art. 1 della l. 339/03 -in relazione agli artt. 2, 5 comma 1, e 3 comma 2 della direttiva 98/5/CE- deriva che mentre all’avvocato di uno Stato membro che sia anche pubblico dipendente è consentito di esercitare in Italia e partecipare a società di avvocati con professionisti italiani, al contrario ad un dipendente pubblico italiano in part time ridotto e in possesso dell’abilitazione professionale non è consentito di iscriversi agli albi degli avvocati e consequanzialmente non può esercitare la professione di avvocato neppure negli Stati membri. 
Tra l’altro tale lesione del principio di non discriminazione si riverbera poi sulla lesione dell’art. 41 della costituzione relativamente all’accesso ad una attività economica professionale.
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Come spunti per future (e speriamo inutili) riflessioni si prospetta l’incostituzionalità della l. 339/2003 per:
1)   contrasto con l’art. 4 della Costituzione per limitazione eccessivamente gravosa del diritto al lavoro (sulla scia di Corte cost., sentenza n. 73 del 1992 e, di recente, Corte cost., sent. 137/2006);
2)   contrasto con l’art. 35 della costituzione perchè questo tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni;
3)   contrasto con l’art. 41 della costituzione in quanto il divieto posto dall’art. 1 della l. 339/03 all’esercizio della professione di avvocato non può dirsi dettato da fini sociali, laddove, come ha evidenziato l’Antitrust nel parere n.48/01 e la Corte costituzionale nella sentenza 189/01, le disposizioni della l. 662/96, delle quali la norma sospettata di incostituzionalità esclude l’applicazione con riguardo alla sola professione forense “sono intese a favorire l’accesso di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione e cioè ad un ambito del mercato del lavoro che è naturalmente concorrenziale”.
Avv. Maurizio Perelli ( perelli.maurizio@libero.it )

Perelli Maurizio

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