Autodichiarazione e delitto di falsità ideologica

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(nota a sent. N. 1940 del 16 novembre 2020, g.i.p. di milano)

Com’è noto, dall’inizio dello scorso anno, la libertà di circolazione è stata fortemente limitata da plurimi provvedimenti dell’Esecutivo e che talvolta hanno visto anche e richiesto il successivo intervento – anche modificativo – del Legislatore.

Il predetto diritto è stato sacrificato in favore di quelli, parimenti costituzionali, della Salute e Sanità pubblica, così da cercare di eliminare qualsiasi rischio di contagio del Covid-19 tra i consociati. Potremmo dire che nel quadro normativo susseguitosi c’è tutto l’art. 16 Cost.

Una delle pochissime ragioni per le quali nel periodo di maggiore restrizione (c.d. lockdown) era permessa la circolazione anche all’interno dei Comuni in cui ci si trovava era quella di avere “comprovate esigenze lavorative”[1].

Ebbene, ad un eventuale controllo da parte delle Forze dell’Ordine, il sottoposto, mediante autodichiarazione, avrebbe dovuto asserire dove si stesse recando e per quali motivi.

Dovendo tralasciare qui le differenti fattispecie e questioni di configurabilità di altri reati in capo a chi tenga un comportamento diverso da quello consentito (ad es. ex artt. 650 o 495 c.p. che anche il Giudice della Sentenza in commento esclude), decidiamo quindi di attenzionare una importante decisione del G.I.P. meneghino (con probabile forte impatto su giudizi ancora in corso di definizione) utilissima a chiarire quali fatti, oggetto dell’autodichiarazione, possono portare a ritenere il soggetto dal quale provengono responsabile del delitto di cui all’art. 76 D.P.R. 445/2000 in relazione all’art. 483 c.p.

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La vicenda

Il 31 Marzo 2020, alle ore 13:10, l’imputato veniva sottoposto a controllo su strada da parte dei Carabinieri mentre era in marcia su un autocarro. Considerate le misure di contenimento del contagio del virus Covid19 vigenti (nello specifico il D.L. 25.03.2020 n. 19), gli veniva così richiesta la motivazione del suo allontanamento e predisponeva l’autodichiarazione asserendo di essere titolare di una ditta e di occuparsi di assistenza caldaie, che si stava recando presso un suo collega per il ritiro di alcuni pezzi di ricambio e che poi si sarebbe recato in altra sede per un lavoro.

Nello svolgimento delle indagini, i Carabinieri accertavano però che quanto dichiarato dall’imputato non corrispondeva al vero, considerato che quest’ultimo aveva lasciato l’abitazione del collega (sentito a S.I.T.), in cui si era recato effettivamente per ragioni di lavoro intorno alle 11:30, alle 12:30 circa. Al momento del controllo, inoltre, la direzione dell’autocarro era opposta a quella dell’abitazione.

Insomma, il sottoposto dichiarava di recarsi in un determinato luogo, e ciò risultava non veritiero.

Il P.M., così, il 3 Settembre 2020 ha chiesto l’emissione di decreto penale di condanna nei confronti dell’imputato in relazione al delitto previsto e punito – ripetiamo – dall’art. 76 D.P.R. 445/2000 in riferimento all’art. 483 c.p.

I rilievi del giudice

Nessun dubbio, anche secondo il Giudice, poteva porsi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autodichiarazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria.

Tuttavia, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., veniva emessa dallo stesso G.I.P. Sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, escludendo così la penale responsabilità dell’imputato per una particolare ragione giustificata su più profili.

È da ritenere pacifico – per giungere alle conclusioni rese dal Giudice milanese – intanto che, come esplicitamente chiarito dall’art. 76, comma 3, D.P.R. 445/2000, “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 […] sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”; che “chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia” e che tra le dichiarazioni (comprovanti) rese ai sensi degli artt. 46 e 47 detti rientrano anche le autodichiarazioni de quo[2]. Sul fatto che la giurisprudenza ha individuato la norma sanzionatoria richiamata dall’art. 76 cit. in quella di cui all’art. 483 c.p. non sembrano esserci invece dubbi. Tale ultimo principio è stato più volte sancito anche dalla giurisprudenza di legittimità[3].

Nella Sentenza in commento, però, veniva rilevato come l’art. 483 c.p. incrimina il privato che attesti al P.U. “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” e che, come granitico in giurisprudenza[4], sono “estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che non riguardino ‘fatti’ di cui può essere attestata la verità hic et nunc ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi”.

Dopo aver richiamato l’appena detto orientamento giurisprudenziale, il Giudice ha osservato come tale conclusione appaia confermata anche da:

  1. il dato testuale, “giacché la nozione di ‘fatto’ non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post”;
  2. il profilo teleologico, “giacché la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al p.u. in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto”;
  • un’ottica sistematica, in quanto “dalla stessa normativa in tema di autocertificazioni, all’interno della quale i ‘fatti’ sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione”.

Ne discende – continua il Giudice – che mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de qua, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei ‘fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità’”.

Il Giudice ha inteso, correttamente, porre al centro della sua valutazione il principio di Legalità, soprattutto laddove ha espressamente chiarito che l’Ordinamento giuridico non condanna qualsiasi dichiarazione falsa resa ad un P.U., ma prevede reati di falso secondo una sistematica casistica, di modo che si abbia falsa dichiarazione quando una specifica norma dia rilevanza al contesto ed alla singola dichiarazione.

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Note

[1] V. art. 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 marzo 2020.

[2] V. Covid-19, misure di contenimento e reati di falso: aspetti problematici dell’autodichiarazione, di Filippo Lombardi, in Giurisprudenza penale, p. 6; ma sul punto si segnala anche la critica in Covid-19: la tutela penale dal contagio, di Matteo Grimaldi, in Giurisprudenza Penale, p. 24 e ss.

[3] Cass. pen., Sez. V, Sentenza n. 3701 del 25.01.2019; Sez. V, Sentenza n. 30099 del 04.07.2018; Sez. V, Sentenza n. 15047 del 18.04.2012.

[4] Cass. Pen., Sez. III, Sentenza n. 10 del 12.10.1982; Cass. Pen., Sez. V, Sentenza n. 2829 del 03.12.1982.

Dott. Cavaliere Armando

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