Indice:
1. Accordo per commettere un reato. Istigazione (art. 115 c.p.)
L’articolo in scrutinio è fondato su una pretesa di natura garantista. L’accordo per commettere un reato. Istigazione di cui all’art. 115 cod. pen., esclude la possibilità di muovere censura e, conseguenzialmente, reprimere il tentativo in tutti quei casi in cui al mero accordo criminoso o alla mera istigazione non è seguita la commissione materiale della fattispecie delittuosa per la quale si era trovato l’accordo. Ad ogni modo la norma de qua non esclude, assolutamente, la potenzialità dell’accordo criminoso, non tralasciando la pericolosità sociale dello stesso, prevedendo, di fatto, la possibilità di disporre l’irrogazione di una misura di sicurezza.
Il diritto penale è basato sul principio, fondamentale, secondo cui il delitto, come fatto umano censurabile, non può esplicarsi nella mera intenzione, mai punibile dal codice di rito. Quanto disposto dalla norma in scrutinio, sulla non punibilità circa il mero accordo per commettere un delitto, rappresenta l’attuazione del summenzionato principio generale. Sicché, di regola non punibile l’intenzione rimasta nella condizione di accordo tra più soggetti in merito alla commissione di un delitto. Tuttavia, in virtù della rimarcata limitazione al solo momento intenzionale del pactum sceleris, si è, evidentemente, fuori dal dettato codicistico della norma de qua qualora a quel momento abbiamo, comunque, fatto seguito fatti concreti a realizzare l’accordo. Tali fatti saranno perseguiti avendo la rilevanza penale di delitto, consumato o tentato, conformemente a quanto disciplinato dal legislatore in merito alla consumazione e al tentativo. Così sul punto statuisce consolidata giurisprudenza: “La riserva contenuta nel disposto dell’art. 115 c.p. in riferimento alla non punibilità dell’accordo criminoso (salvo che la legge disponga diversamente) non è in contrasto con il principio fondamentale, informativo del diritto penale, della norma rilevanza penale della mera intenzione: invero, a differenza della intenzione rimasta tale nella interiorità psichica del soggetto monoagente, l’accordo criminoso costituisce esso stesso una trasposizione esteriore attuosa delle semplici intenzioni, sia pure ancora limitata alla figura non operante di per sé sola ma pur sempre esteriore del pactum sceleris, e quindi può esprimere una situazione di pericolo, penalmente rilevante, collegata alla stipulazione dell’accordo di per sé considerata. (…). È ben diversa l’ipotesi del tentativo di un accordo criminoso dalla ipotesi di un accordo criminoso che si sia tradotto in atti di tentativo. Nel primo caso non sussiste la punibilità, a fortiori, in virtù dell’art. 115 c.p.; nel secondo caso, invece, si è fuori della sfera dell’art. 115 citato e gli atti compiuti, sorretti dalla coscienza e volontà dei partecipi all’accordo, ancorché non abbiano perfezionato la consumazione del reato, sono regolati dalla disciplina dell’art. 56 c.p., assumendo rilevanza di illecito penale punibile nella fattispecie di tentativo sempre che abbiano acquisito quei caratteri di idoneità e di direzione univoca oggettiva e soggettiva degli atti medesimi al fine di commettere un delitto, si come previsto dalla norma suddetta.”. (Cass. n. 5173/1973).
Testualmente la norma de qua recita: “Salvo che la legge disponga altrimenti [270, 271, 304, 305, 306], qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo.
Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza [229].
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato [266, 302, 322, 327, 414, 415], se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso.
Qualora l’istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misure di sicurezza [229]”.
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2. In cosa consiste l’accordo?
L’accordo consiste nella reciproca intesa, tra due o più persone, in merito alla commissione di un reato. È bene ricordare come l’accordo in questione non deve essere scambiato con quello di cui all’art. 416 bis. cod. pen. – associazioni di tipo mafioso anche straniere -. In quest’ultimo caso l’accordo è la base della stessa fattispecie delittuosa essendo la pena, di fatto, irrogata a prescindere dalla commissione del fatto di reato, non rilevando quindi se all’accordo non ha fatto seguito la condotta materiale. Come enucleato dalla condizione di salvaguardia iniziale, l’articolo in scrutinio non è applicabile qualora sia possibile l’applicazione di un delitto dove l’associazione è condizione necessaria e dove l’accordo si palesa come elemento necessario e costitutivo del reato stesso. Fuori da tali situazioni non è configurabile la censura dei soggetti per il semplice fatto di essersi accordati. Quindi, qualora due o più soggetti pervengano ad un accordo con la finalità di compiere un delitto, e lo stesso non venga consumato, nessuno di loro è suscettibile di essere punito per il mero accordo, ciò accade in ossequio al principio di offensività.
In merito alla differenza tra l’accordo disciplinato dalla norma de qua (art. 115 c.p.) e l’accordo che si trova alla base della fattispecie delittuosa di – associazioni di tipo mafioso anche straniere – di cui all’art. 416 bis c.p. si segnala il seguente, consolidato, arresto giurisprudenziale: “Pure se l’accordo può costituire elemento comune sia al concorso di persone nel reato sia all’associazione per delinquere, i due fenomeni restano caratterizzati da aspetti strutturali e teleologici profondamente differenziati. Dal primo punto di vista, l’accordo che designa la fattispecie plurisoggettiva semplice (sia essa necessaria ovvero eventuale) è funzionale alla realizzazione di uno o più reati, consumati i quali l’accordo si esaurisce o si dissolve. Del resto, l’accordo, in tanto diviene rilevante nei confini della mera ipotesi concorsuale in quanto pervenga ad una concreta realizzazione dell’assetto divisato, ad un’attività esecutiva, dunque, che non si arresti alle soglie del tentativo. Di conseguenza, il mero accordo allo scopo di commettere un reato, non traducendosi in un’attività di partecipazione al reato stesso resta assoggettato al principio di ordine generale stabilito dall’art. 115 c.p. A tale regola il primo comma dell’art. 115 enuncia un’espressa eccezione ma sempre relativa all’ipotesi in cui «due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso»; cosicché i criteri interpretativi destinati a risolvere le (solo apparenti) antinomie tra accordo non punibile e reato associativo non possono essere compiutamente individuati chiamando in causa il solo principio di specialità. E ciò per la mancanza di un vero e proprio rapporto di genere a specie, postulando il reato associativo una base plurisoggettiva qualificata, non richiesta, invece, nell’ipotesi di accordo. Una constatazione che vale anche ai fini della distinzione tra fattispecie meramente concorsuale e fattispecie associativa, rappresentando il minimum soggettivo richiesto dalla legge relativamente alla seconda categoria di reati un dato non richiesto, invece, per l’attività di mera partecipazione, così da consentire l’utilizzazione del medesimo criterio interpretativo pure – quel che più interessa – nel discriminare le categorie ora ricordate”. (Cass. n. 9320/1995). Sempre sul punto si segnala la seguente statuizione della Corte di Cassazione: “ L’accordo tra più soggetti di realizzare uno o più reati è un elemento comune alla fattispecie associativa ed a quella concorsuale, ma in tale ultima ipotesi esso deve pervenire alla concreta realizzazione del reato, quanto meno a livello di tentativo, secondo quanto previsto dall’art. 115, comma primo c.p. Il discrimine tra la fattispecie plurisoggettiva e quella concorsuale non è qualificabile come rapporto di specialità, bensì deve essere individuato nella necessaria qualificazione dell’accordo associativo come una struttura permanente, nella quale i singoli associati divengono — ciascuno nell’ambito dei propri compiti assunti od affidati — parti di un tutto, con il fine di commettere una serie indeterminata di delitti ”. (Cass. n. 7957/2004).
I commi III e IV fanno riferimento al ruolo dell’istigatore, ossia alla figura di colui che partecipa moralmente. È bene ricordare come l’istigatore è colui che sollecita e rafforza un pensiero criminogeno già sorto. La rilevanza dell’istigazione deve risultare incisiva, così sul punto la Cassazione: “Ai fini della responsabilità per concorso morale nel reato, si deve accertare una specifica rilevanza, in termini di determinazione o rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, tra la manifestazione di volontà del reato e la condotta di chi abbia contribuito alla esecuzione, anche nella fase pre tipica, del reato; non ha rilevanza concorsuale la manifestazione di volontà del reato che si sia limitata, per il decorso del tempo o per altra causa, a far sorgere in chi ha contribuito alla esecuzione la mera consapevolezza di una approvazione ex post del reato, senza aver nemmeno rafforzato il proposito criminoso del concorrente”. (Cass. n. 34353/2018).
Se l’istigazione ha ad oggetto due o più fattispecie delittuose, per poterla punire è necessaria che, perlomeno, una delle condotte delinquenziali sia materialmente compiuta. Quindi, come emerge con chiarezza, anche negli ultimi due commi vale il medesimo principio di offensività.
Infine, si segnala che: “Non integra l’ipotesi criminosa del tentativo di collusione del militare della Guardia di finanza con estraneo, ma solo mera istigazione a commettere un reato, la proposta, non accolta dall’impresario edile, di sottofatturazione dei lavori svolti nell’interesse del militare”. (Cass. n. 49975/2009).
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