Sulla natura delle disposizioni contenute nel codice deontologico forense: dalle concezioni tradizionali fino ad arrivare alla recentissima pronuncia della cassazione n. 19246 del 29 settembre 2015

Scarica PDF Stampa

I. Introduzione : excursus sugli orientamenti di stampo tradizionale.

Per poter tracciare un quadro completo ed organico in tema di deontologia forense e, ancor più specificatamente, in materia di qualificazione giuridica delle norme cristallizzate nel codice deontologico, è opportuno fare un passo indietro e guardare ai diversi filoni interpretativi che, per lungo tempo, hanno interessato la tematica in questione.

In particolare, non può non accennarsi al conflitto giurisprudenziale che ha avuto luogo a partire dagli inizi del 2000 e che ha condotto al nascere di due orientamenti diametralmente opposti. Stiamo parlando, più specificatamente, di due pronunce – entrambe frutto dell’opera del Supremo Consesso – che hanno visto la luce, rispettivamente, nel 2003 e nel 2007.

Stando alla prima linea interpretativa (di cui alla Cass. n. 10482/2003), le disposizioni contenute nel codice disciplinare forense sono da intendersi quale espressione di “poteri di autoregolamentazione degli organi e dei collegi, con la conseguenza che andrebbero interpretate in ossequio ai criteri ermeneutici fissati dagli artt. 1362[1] e ss. del codice civile”.

Detto altrimenti, l’interpretazione delle clausole contrattuali costituisce una “quaestio facti” perché avente ad oggetto la comune intenzione delle parti contraenti e, dunque, la loro “voluntas”, la cui indagine rientra nel merito della causa.

Pertanto, stando al suindicato filone giurisprudenziale, il codice deontologico contiene al proprio interno norme giuridiche sì rilevanti ma pur sempre valevoli nel solo ordinamento interno dell’ordine professionale che le ha approvate.

Concezione ermeneutica e restrittiva, quest’ultima, che ben presto viene ad essere totalmente smantellata grazie al passaggio verso una prospettiva maggiormente estensiva, culminato nella più recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, la numero 26810 del 2007.

Si assiste, in altri termini, ad una vera e propria opera di revirement che va a consacrare un rilevante principio di diritto, secondo il quale : “le norme del codice disciplinare forense rappresentano fonti normative integrative del precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità”[2].

L’iter logico – argomentativo che ha condotto le Sezioni Unite verso tale soluzione risulta correlato a specifici profili di carattere ordinamentale, che, di certo, meritano un accenno.

In primo luogo, i Giudici hanno posto l’accento su una importante distinzione involgente il campo delle attribuzioni e, dunque, della competenza : quella tra Consigli dell’ordine territoriali e Consiglio nazionale forense (CNF). In particolare, hanno evidenziato la circostanza secondo cui soltanto i primi sono tenuti ad esercitare funzioni amministrative, anche se operanti in campo disciplinare; diversamente, il CNF – nelle ipotesi in cui sia chiamato a pronunciarsi in materia disciplinare – opera in veste esclusiva di organo giurisdizionale.

Sotto altro aspetto, invece, partendo da una accurata disamina del D.Lgs. n. 382/1944 (disciplinante la funzione dei Consigli degli ordini professionali in materia disciplinare), il Supremo Collegio ha inteso sottolineare come le norme contenute in tale decreto trovino concreta applicazione anche con riguardo alle professioni di avvocato e al Consiglio nazionale forense, contestualmente istituito dall’art. 21 della medesima fonte normativa[3].

Ancor più, in chiave prettamente integrativa, la Cassazione ha ritenuto opportuno analizzare la sesta disposizione transitoria della Costituzione[4], atteso che quest’ultima prevede la revisione degli organi speciali di giurisdizione al momento esistenti. Norme che, secondo l’interpretazione fornita dal giudice delle leggi, attribuisce al termine di revisione natura ordinatoria e non anche perentoria. Di guisa, il divieto di istituire nuove giurisdizioni straordinarie ed anche speciali[5] vige solamente per gli ordini professionali sorti posteriormente alla Carta Costituzionale; diversamente, la disciplina cristallizzata nella sesta disposizione transitoria della Carta, trova applicazione solo ed esclusivamente in ordine agli ordinamenti professionali costituiti in una fase anteriore all’emanazione della Costituzione.

Dunque, il Consiglio nazionale forense è organo sorto anteriormente all’entrata in vigore della nostra Costituzione e, dunque, va considerato in qualità di giudice speciale tuttora operante in maniera legittima.

L’indiscutibile carattere giurisdizionale del processo che ha luogo dinanzi al Consiglio nazionale forense (in sede disciplinare), tuttavia, non comporta “ex se” che tutti i criteri decisori siano costituiti da norme di legge. E proprio tale constatazione ha permesso al Collegio di addivenire alla conclusione secondo cui il carattere giurisdizionale delle norme disciplinari deriva dal rinvio alla legge statale, atteso che essa assume la funzione di parametro normativo generale alla cui stregua è possibile effettuare una valutazione della condotta dei professionisti iscritti.

 

II. Il recente intervento della Cassazione : la sentenza n. 19246 del 29 settembre 2015. Una breve disamina della questione.

Il caso che si sottopone all’attenzione del lettore origina dalla citazione presentata da un legale avverso il Presidente del Consiglio dell’Ordine di appartenenza ed altri due componenti dello stesso, per  sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di due procedimenti disciplinari, uno dei quali conclusosi con l’applicazione della misura sanzionatoria della censura.

La domanda attorea, tuttavia, veniva rigettata sia in prima facie che dalla Corte d’Appello, con pronuncia del 25 giugno 2013. Nello specifico, il giudice di secondo grado – in linea con le motivazioni già dedotte dal Tribunale – aveva ritenuto che la fattispecie andasse analizzata in rapporto ad una precisa disposizione normativa di natura civilistica, ovvero l’art. 2043 c.c., atteso che il petitum della lite  era rappresentato dall’accertamento della responsabilità dei componenti del Consiglio dell’ordine degli avvocati. Ancor più, evidenziava la mancanza dell’evento illecito generatore di responsabilità, non potendosi considerare tale l’aver contribuito all’apertura di un procedimento disciplinare, atteso che la stessa legge professionale (vigente al momento del fatto) ed, in particolare, l’art. 38 del R.D.  n. 1578 del 1993 qualificavano tale iter procedimentale come il mezzo attraverso cui il Consiglio dell’ordine degli avvocati era tenuto ad accertare se la condotta posta in essere dal soggetto incolpato fosse da ricondursi nell’alveo degli schemi comportamentali contrari alla dignità e al decoro professionale. Di conseguenza, l’apertura dell’azione disciplinare – secondo il Giudice di merito – doveva considerarsi doverosa in quanto aderente ai paradigmi normativi e, dunque, pienamente legittima e lecita.

Avverso tale sentenza, tuttavia, l’avvocato proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, avvalendosi di quattro motivi principali e di due motivi di natura subordinata.

Partiamo da una sintetica rassegna dei profili motivazionali rilevanti.

Con il primo motivo di ricorso, il professionista denunciava la violazione di specifiche disposizioni normative, quali : art. 81 c.p.c., art. 24 del D.P.R. 15 gennaio 1957, n. 3, artt. 1292 e 1294 c.c. ed, infine, articolo 187 c.p. in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 1.

In particolare, sosteneva che la Corte d’appello aveva errato nel non ritenere sussistente la solidarietà del Presidente e di tutti i membri del collegio, in spregio a quanto consacrato dal decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, art. 24[6] (noto altrimenti come Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).

Con la proposizione della seconda doglianza, invece, il ricorrente denunciava la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2°, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Al riguardo, censurava l’impugnata pronuncia nella parte in cui statuiva che il Tribunale non aveva dichiarato la carenza di legittimità passiva dei convenuti, tanto che aveva deciso di merito la questione.

La terza motivazione ruotava attorno alla violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il legale sosteneva che la Corte, nonostante una corretta individuazione dell’oggetto della controversia (rappresentato dalla responsabilità dei singoli componenti del Consiglio dell’ordine degli avvocati per avere concorso con il loro voto favorevole all’emanazione dei provvedimenti disciplinari oggetto del ricorso e generatori dei danni), aveva respinto l’appello e disatteso la domanda risarcitoria sulla scorta di una mancata individuazione del fatto illecito produttore di responsabilità.

Ancora, con il quarto motivo sottolineava l’omessa valutazione circa il fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti coinvolte, richiamando in proposito la disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., n.5.

Infine, le due motivazioni definite subordinate, attenevano alla violazione degli artt. 91 e 92 del c.p.c., disciplinanti rispettivamente la condanna alle spese e la compensazione delle spese.

 

III. La soluzione offerta dagli Ermellini.

Il percorso argomentativo che ha condotto la Cassazione verso la propria e fisiologica conclusione deve essere analizzato in rapporto al giudizio prognostico che la stessa ha effettuato in rapporto alle singole motivazioni sollevate dal ricorrente.

Le prime due motivazioni – violazione art. 81 c.p.c., art. 24 del D.P.R. 15 gennaio 1957, n. 3, artt. 1292 e 1294 c.c. ed, infine, articolo 187 c.p. in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 1. nonché nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2°, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – sono state ritenute infondate dagli Ermellini a seguito di una valutazione congiunta delle stesse. Nello specifico,  il Supremo Consesso è giunto a ritenere che, contrariamente a quanto evidenziato dalla parte ricorrente, la Corte di appello aveva correttamente individuato la domanda avanzata e, al contempo, aveva altresì valutato la responsabilità dei componenti del Consiglio dell’ordine degli avvocati, avendo potuto in tal modo rigettare la stessa senza dover dichiarare alcuna carenza di legittimazione passiva degli appellanti.

Stessa sorte è toccata al terzo ed al quarto motivo, essendo stati anch’essi, in seguito ad una trattazione congiunta, ritenuti infondati dalla Corte. Nell’argomentare l’ infondatezza della pretesa avanzata dal ricorrente e, di conseguenza, la legittimità della pronuncia di secondo grado, i giudici hanno inteso riprendere precedenti orientamenti giurisprudenziali, al fine precipuo di fornire una chiara ed esaustiva spiegazione in ordine alla qualificazione, sotto il profilo giuridico, del codice deontologico e delle norme in esso contenute. In particolare, la Cassazione ha sottolineato la valenza del codice deontologico, da intendersi quale  “complesso di regole di cui gli organi di governo degli avvocati si sono dotati al fine di poter attuare i valori caratterizzanti la professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa”. Di conseguenza, la violazione di detto codice assume rilevanza in sede giurisdizionale, purchè si ricolleghi all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge, ovvero ad una delle ragioni per le quali il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, articolo 56, comma 3, convertito con modificazioni nella Legge 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle sezioni unite della Cassazione, che e’ possibile esclusivamente in caso di uso del potere disciplinare dagli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce (cfr. al riguardo, SU. N. 15873/2013; S.U. 19 ottobre 2011 n. 21584; 4 febbraio 2009 n. 2637; 28 settembre 2007 n. 20360). Disamina, quest’ultima, che, a detta della Cassazione, deve necessariamente accostarsi ad una valutazione circa l’ambito di applicazione delle potestà spettanti agli ordini professionali. Difatti, se per un verso l’accertamento della non conformità della condotta – degli iscritti agli ordini – ai canoni della dignità e del decoro professionale rientra nella competenza degli ordini stessi, sotto altro versante, invece, il rispetto dell’autonomia degli ordini rende inammissibile la censura della violazione di legge avverso le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare qualora si risolva nella prospettazione di un contrasto di dette decisioni con le norme deontologiche.

Pertanto, in stretta sintonia con le suindicate linee direttrici, la Corte ha ritenuto che la pronuncia di merito fosse da ritenersi fondata, atteso che il comportamento degli ordini professionali null’altro è che il mezzo tramite il quale esercitare l’attività di controllo loro demandata al fine di vagliare le condotte poste in essere dai soggetti incolpati, tenendo conto dei fondamentali criteri della dignità e del decoro professionale.

In conclusione, per quanto riguarda i motivi subordinati (violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.), anche questi ultimi sono stati oggetto di rigetto, laddove, a mente della Cassazione, i giudici di merito avrebbero in ogni fase seguito correttamente il principio della soccombenza.

 


[1] Art. 1362 c.c., rubricato “Intenzione dei contraenti”, statuisce quanto segue : “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.

[2] In senso conforme, si vedano Cass. nn. 5776 e 13078, entrambe del 2004.

[3] In proposito, l’art. 21 D.Lgs. n. 382/1944 trova collocazione sistematica nel Capo IV intitolato “Disposizioni speciali per le professioni di avvocato e di procuratore” ed è propriamente rubricato “Consiglio nazionale forense”. Così recita : “Le funzioni spettanti al Consiglio superiore forense sono attribuite ad un Consiglio nazionale formato di trentasei componenti eletti due per ciascun distretto di Corte d’appello tra gli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione. Per le elezioni del Consiglio nazionale forense i singoli Consigli degli ordini di ciascun distretto procedono all’elezione dei due componenti spettanti al distretto medesimo. Si intendono eletti i due candidati che hanno riportato maggior numero di voti. Le elezioni suppletive di cui all’art. 15 si svolgono nel Consiglio del distretto a cui apparteneva il componente da sostituire”.

In proposito, va fatta una precisazione di carattere tecnico, laddove il primo comma ha subito una modifica,seppur leggera. Nello specifico, si assistito ad una variazione del numero dei componenti del Consiglio nazionale forense, laddove, in base al disposto dell’art. 1 D. Lgs. n.6/1946, è stato ridotto ad uno per ogni distretto di Corte d’appello.

[4] La VI° disposizione transitoria e finale della Costituzione, al primo comma, stabilisce che : “Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari”.

[5] Al riguardo, si veda l’art. 102, 2 comma, Cost., a mente del quale : “Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinare nuove materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura”.

[6] Art. 24, D.P.R. n.3/1957, rubricato “Responsabilità degli organi collegiali”, dispone che : “Quando la violazione del diritto sia derivata da atti od operazioni di collegi amministrativi deliberanti, sono responsabili, in solido, il presidente ed i membri del collegio che hanno partecipato all’atto od all’operazione. La responsabilità è esclusa per coloro che abbiano fatto constatare nel verbale il proprio dissenso”.

Dott.ssa Stefanelli Eleonora

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento