La disciplina delle mansioni, qualifiche e categorie nel pubblico impiego

Sgueo Gianluca 21/02/08
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1.1 Profili generali sulla disciplina del pubblico impiego ai sensi del D.lgvo n. 165/2001. Le mansioni – 1.2 Art. 51 del D.lgvo n. 165/2001 – 1.3.1 Le mansioni superiori ed equivalenti. Considerazioni generali – 1.3.2 Le mansioni superiori – 2. Qualifica e mansioni nell’art. 52 D.lgvo n. 165/2001 – 3.1 Le categorie: la trasposizione delle categorie legali nell’impiego pubblico privatizzato – 3.2.1 La dirigenza – 3.2.2 La vicedirigenza – 3.3 I quadri – 3.4.1 Gli impiegati. Le problematiche della contrattazione integrata – 3.4.2 Classificazioni e mansioni nei comparti Ministeri ed Eti pubblici non economici – 3.4.2 Classificazioni e mansioni nelle aziende ed Amministrazioni autonome dello Stato
 
1.1 Profili generali sulla disciplina del pubblico impiego ai sensi del D.lgvo n. 165/2001. Le mansioni in generale
La conoscenza degli aspetti principali dell’attuale disciplina del pubblico impiego e di quella previgente sono fondamentali per comprendere il funzionamento di mansioni, qualifiche e categorie. Esse, per un verso appaiono complementari, mentre in altri casi risultano distinte da profonde differenze. Soprattutto in quelle aree in cui si incontrano la normativa legislativa e quella contenuta nel codice civile ne è derivata la costruzione di una disciplina del pubblico impiego estremamente articolata la cui comprensione, per essere completa, deve tenere in considerazione proprio la disciplina precedentemente in vigore[1].
Cominciamo dall’analisi della disciplina delle mansioni. In merito, ci sono due osservazioni da svolgere. Anzitutto, va detto che con la profonda rivisitazione della normativa in tema di pubblico impiego privatizzato, attuata con i decreti n. 80/1998 e n. 387/1998, anche la disciplina dell’inquadramento e delle mansioni nel pubblico impiego ha subito un parziale aggiustamento.
Nella disciplina attualmente vigente è l’art. 52 del D.lgvo n. 165/2001 (in precedenza art. 56 del D.lgvo n. 29 del 1993) che riguarda, nello specifico, le mansioni del dipendente, non mancando però di trattare anche dell’inquadramento, sebbene solo incidentalmente rispetto alle mansioni, ovvero in relazione al loro mutamento[2].
Cosa deve intendersi per mansione, nel settore pubblico, ai sensi dell’art. 52 del D.lgvo n. 165 del 2001?
Si può dire, in via preliminare, che il concetto di mansione indica il “compito” cui è tenuto il pubblico dipendente. In altre parole, la mansione fa riferimento all’unità elementare ed indivisibile in cui è scomponibile il posto o la posizione attribuita al lavoratore nell’ambito dell’organizzazione aziendale[3].
Secondo la disposizione in esame, dunque, il dipendente pubblico, al pari dell’impiegato privato, deve essere adibito alle mansioni di assunzione. Espressione questa che, va notato, costituisce un evidente rimando al contratto individuale di lavoro, in cui si indicano tutte le attività che il prestatore di lavoro si obbliga a compiere.
In secondo luogo, non va dimenticato che la disposizione si legge in combinato disposto con l’art. 45 del D.lgvo 165, che obbliga il datore di lavoro (ossia la pubblica amministrazione interessata) a riconoscere ai lavoratori un trattamento economico fondamentale ed accessorio definito dai contratti collettivi, garantendo ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi[4].
La norma, esattamente come accade nel settore privato, ha valore vincolante sia nei confronti dell’amministrazione che del lavoratore. Infatti: all’amministrazione, in qualità di datore di lavoro, impone il divieto di adibizione del lavoratore a mansioni diverse, escluse le ipotesi che contempla lo stesso art. 52, ed in piena corrispondenza a quanto previsto anche dal codice civile in tema di contratto ed immutabilità dell’oggetto.
Fa nascere poi, in capo al lavoratore, un diritto ed un dovere. Il diritto è quello allo svolgimento delle mansioni di assunzione che va inteso come diritto allo svolgimento dell’obbligazione di fare dedotta nel contratto. Contestualmente, sussiste in capo al lavoratore l’obbligo di svolgere quelle e solo quelle mansioni alle quali è stato adibito.
In sostanza, alla luce di quanto detto finora, la mansione è considerata l’unità elementare di un facere, la quale, combinata in modo tendenzialmente stabile con le altre singole operazioni, dà vita ad un insieme tipico, e perciò unitario, di compiti, che vengono a formare un tipo di attività o modello di prestazione. Modello che, di norma, se si eccettua il caso limite delle prestazioni uni-mansionali, costituisce il contenuto dell’obbligazione oggetto del contratto di lavoro.
C’è da notare, a margine, che la norma introduce il principio della cd. “equivalenza professionale” quale criterio fondamentale per individuare l’area di cui è parte il pubblivo dipendente. Ovvero, l’adibizione a mansioni equivalenti a quelle per cui il soggetto è stato assunto nell’amministrazione, al termine di una delle procedure a tal scopo predisposte.
 
1.2 Art. 51 del D.lgvo n. 165/2001
Prima di approfondire il contenuto dell’art. 52, con particolare riferimento al concetto di mansione, è opportuno completare la ricognizione generale delle disposizioni del D.lgvo n. 165 che riguardano le mansioni, operando brevi cenni al contenuto dell’art. 51[5].
La norma, già articolo 55 del D.lgvo n. 29 del 1993, conserva intatto quello che è stato definito il suo carattere di “norma di garanzia della piena contrattualizzazione e privatizzazione del rapporto di pubblico impiego”. Non vi è dubbio, infatti, che nell’ambito del vasto processo di riforma della pubblica amministrazione, il D.lgvo n. 29 del 1993 ha rappresentato uno snodo decisivo in quanto a razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego.
In tale contesto, l’art. 51 prevede che il rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amminbistrazioni è disciplinato secondo le disposizioni degli articoli 2, comma secondo e terzo, e 3 del medesimo decreto legislativo. In sostanza, con tale richiamo, si operano tre importanti conseguenze: anzitutto, si determina un esplicito rimando al Capo I, titolo II, del libro IV del codice civile e della legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, salve le diverse diposizioni contenute nel testo; in secondo luogo, si richiama il principio della piena contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico[6]; in terzo luogo, prescrive l’integrale applicabilità dello Statuto dei lavoratori, legge n. 200 del 1970, alle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal numero dei loro dipendenti.
Questo ultimo effetto è quello che più interessa ai fini della nostra ricerca. Infatti, l’applicabilità dello statuto dei lavoratori contribuisce ad arricchire e prefezionare il diritto in capo al lavoratore di cui si parlava nelle pagine precedenti, consentendogli di avere il risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo, e ricevere l’ulteriore indennità concessa ai lavoratori privati nel caso di impossibilità di essere reintegrati sul posto di lavoro[7].
La norma, in definitiva, non aggiunge particolari previsioni in ordine alle mansioni, ma è molto utile, in un quadro generale sull’argomento, per comprendere quali sono i diritti propri del lavoratore al momento e durante l’assunzione, legati inscindibilmente proprio allo svolgimento delle mansioni.
 
1.3.1 Le mansioni superiori ed equivalenti. Considerazioni generali
L’indicazione del legislatore, tuttavia, non si concentra sul solo obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni di assunzione: l’inciso contenuto nell’art. 52, infatti, prende immediatamente dopo a riferimento anche “le masioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito”.
È stato dunque inderogabilmente rimesso a quel sistema di classificazione, e quindi all’inquadramento definito contrattualmente, anche stabilire quali siano le mansioni da considerare equivalenti a quelle per le quali il prestatore di lavoro sia stato assunto e quindi quale sia l’obbligazione di facere cui egli è tenuto[8].
Il tema delle mansioni equivalenti è un tema estremamente delicato. Non solo, infatti, è stato al centro di una nutrita serie di pronunce giurisprudenziali ma è stato al centro anche di un acceso dibattito dottrinatio.
I giuristi si dividono sul significato che assume il riferimento alle mansioni considerate equivalenti. Infatti, secondo alcuni, tale riferimento è considerato il fondamento della possibilità di esercitare, anche nelle pubbliche amministrazioni, uno ius variandi orizzontale, connotato cioè da una valutazione aprioristica dell’equivalenza tra la mansione condotta dalla contrattazione collettiva, invece che la valutazione a posteriori condotta dal giudice nell’ambito del lavoro privato.
In sostanza, chi propende a favore di questa tesi individua un potere modificativo dell’oggetto del contratto simile a quello previsto per l’impiego privato ai sensi dell’art. 2103 del codice civile, con la variante circa il parametro secondo il quale condurre un giudizio in equivalenza[9].
Un’altra tesi minoritaria, invece, ritiene che le mansioni di assunzione e quelle equivalenti sono poste su uno stesso piano, quale oggetto specifico[10] dell’obbligazione dedotta in contratto[11].
 
In definitivia, dunque, la disposizione contenuta nel primo comma dell’art 52 sembrerebbe riferirsi alle mansioni di assunzione come oggetto principale del contratto di lavoro, legittimando un vero e proprio ius variandi orizzontale qualora le mansioni di destinazione siano equivalenti alle prime secondo i criteri e le indicazioni desumibili dal sistema di classificazione professionale previsto dai contratti collettivi.
Sopraggiunge, a queso punto, un secondo problema che può essere interessante affrontare: data la disciplina di cui s’è detto, ci si chiede se possa applicarsi l’ultimo comma dell’art 2103 del codice civile[12], secondo il quale è nulla ogni pattuizione contraria a quanto in precedenza disposto dallo stesso testo di legge.
Sembrerebbe infatti che, in questo caso, a differenza di quanto avviene per il settore privato, la norma non possa trovare applicazione nel pubblico inpiego, per due ragioni principali: anzitutto, se le mansioni nel lavoro presso le pubbliche amministrazioni hanno trovato una propria regolamentazione, in forza della specialità di tale lavoro[13], allora la disciplina posta dal legislatore è per intero alternativa alla regolamentazione che ha nel privato l’istituto delle mansioni, così come del resto è avvenuto nelle altre materie toccate dalle norme del D.lgvo n. 165 del 2001. Oltretutto, anche a prescindere dalla specialità della disciplina legislativa, non pare lecito pensare di trasferire una norma meramente sanzionatoria, quale qualla contenuta nell’ultimo comma dell’art. 2103 del codice civile, a tutela di un apparato precettivo completamente diverso[14].
In conclusione, le mansioni di cui si tratta nell’art. 52 assumono un significato identico a quello proprio del termine nel rapporto di lavoro con i datori privati, indicando l’attività che il lavoratore si obbliga a svolgere con la sottoscrizione di un contratto individuale, attraverso il quale avviene l’assunzione, intesa come atto produttivo di effetti giuridici riconnessi all’instaurazione del rapporto[15].
La norma permette il sorgere di un diritto del lavoratore allo svolgimento delle mansioni di assunzione, o quelle altre individuate secondo i requisiti espressi dal legislatore e dai contratti collettivi cui il primo rimanda. L’eventuale pattuizione individuale contraria a quel diritto sarà, quindi, catalogabile come rinunzia, per la quale troverà piena applicazione non l’art. 2103 e la sanzione di nullità, ma l’art. 2113 del codice civile[16] e la connessa sanzione dell’annullabilità[17].
 
1.3.2 Le mansioni superiori
Il secondo aspetto di cui si occupa ll’art. 52 del D.lgvo n. 165 riguarda le mansioni superiori e disciplina in modo innovativo rispetto al passato lo svolgimento da parte del lavoratore di mansioni di qualifica superiore.
A differenza che nell’impiego privato l’adibizione del lavoratore a mansioni superiori, per essere legittima, deve essere necessariamente causale, dal momento che può avvenire solamente per “obiettive esigenze di servizio” e soltanto nei due casi tassativamente previsti dalla norma. I casi sono i seguenti: la prima possibilità è quella in cui si presenta una vacanza di posto in organico, con l’aggiunta dell’ulteriore limitazione di durata, di sei mesi, prorogata fino a dodici se le procedure di copertura dei posti vacanti siano state avviate ma non ancora concluse[18].
La seconda ipotesi riguarda la sostituzione di un lavoratore avente diritto al mantenimento del posto, ed in questo caso non esiste alcun limite temporale all’assegnazione di mansioni superiori.
La prima impressione che si ha leggendo la norma è che il legislatore abbia inteso limitare notevolmente l’utilizzo dello ius variandi rispetto alla disciplina vigente in passato[19].
Simile conclusione si ricava dalla presenza delle succitate condizioni, ma, anche, dal fatto che occorrono le obiettive esigenze di servizio che, sebbene non debbano essere esplicitamente indicate in un atto scritto, debbono comunque essere provate dal datore di lavoro in una eventuale giudizio intentato dal lavoratore[20].
Bisogna osservare poi che la norma non dice nulla in merito alla forma dell’ordine. Dunque, secondo il regime di libertà della forma che vige nel nostro ordinamento, si deve ritenere che qualunque forma ritenuta opportuna dal datore di lavoro potrà andare bene. La disciplina contrattuale vigente richiede, invece, la forma scritta, in continuità con un passato pubblicistisco in cui il tradizionale “ordine di servizio” legittimava ogni trasformazione, anche momentanea, delle condizioni di lavoro.
Un’altra osservazione va svolta con riguardo alla prima delle due condizioni legittimanti, ed in particolare alla circostanza che il termine di sei mesi possa essere prorogato a dodici. La legge, in proposito, è molto chiara nello stabilire che una simile proroga sarà ammessa solamente se l’amministrazione abbia attivato le procedure per coprire i posti vacanti. Cosa deve intendersi allora esattamente per “procedura di copertura dei posti vacanti”?
Semplicemente, tali sono le procedure di ricerca di lavoratori qualificati per il posto rimasto libero, da reclutarsi per mobilità, oppure tramite la classica pubblicazione di un bando di concorso per l’assunzione.
In merito alla seconda condizione, poi, alcuni osservano che questa non legittimerebbe la possibilità che si determini un doppio “scorrimento”: del dipendente nelle mansioni vacanti e di un altro lavoratore nella posizione lasciata libera, temporaneamente, dal primo dipendente[21].
Mentre, infatti, una simile circostanza è ammissibile nel lavoro privato, nel settore pubblico il duplice scorrimento (o anche lo “scorrimento a cascata”) deve legersi come una duplice e distinta adibizione a mansioni superiori proprio perché è il legislatore a richiedere in modo tassativo o l’una o l’altra delle condizioni elencate, nessuna delle quali sussiste a sostegno dell’adibizione del terzo lavoratore alle mansioni proprie di quello assegnato a coprire l’assenza del primo[22].
Una soluzione a questo problema la offre comunque il comma terzo dell’art. 52[23]. In esso si specifica che il datore di lavoro pubblico può attivare una frantumazione delle posizioni lasciate libere tra vari dipendenti di posizione inferiore, in modo che esse, pur essendo superiori, non risultino prevalenti.
In base a detto articolo, infatti, lo svolgimento delle mansioni superiori è considerato essere “soltanto l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni”.
Per effetto del quarto comma[24], nei casi di adibizione rituale del lavoratore a mansioni di qualifica superiore, questo acquisisce, per il periodo effettico di prestazione, il diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore.
Ci sono due cose da notare in merito: la prima è che la norma ricalca una previsione analoga nel diritto privato; la seconda è che la giurisprudenza amministrativa ha raramente riconosciuto questo diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore.
Ai sensi del quinto comma[25], infine, in ogni ipotesi di adibizione a mansioni superiori in cui non sussistano i requisiti già segnalati, il provvedimento dovrà essere considerato nullo ed al lavoratore andrà comunque corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore.
Si tratta, con ogni evidenza, di una nullità particolare, che produce effetti, almeno nei confronti del lavoratore che mantiene il diritto alla retribuzione, in una norma che specifica, ed applica alla fattispecie in esame, l’art. 2126 del codice civile[26], dando vita, da una parte, ad una presunzione assoluta di utilità della prestazione resa dallo stesso, e dall’altra ad una presunzione assoluta di inutilità, visto che il dirigente che ha disposto l’assegnazione in nessun modo può liberarsi della responsabilità personale nei confronti dell’amministrazione qualora sia provato il suo dolo o la colpa grave.
 
2. Qualifica e mansioni nell’art. 52 D.lgvo 165/2001
Un altro problema che bisogna affrontare leggendo l’art. 52 del D.lgvo 165 del 2001 è se la qualifica sia qui intesa, come accade nel settore privato, come variazione semantica della mansione, o se acquisisca invece un significato peculiare[27].
In altre parole, bisogna indagare sul significato di qualifica per poi valutare se quel dato classificatorio formale, che nel pubblico impiego è sempre sopravvenuto alla descrizione delle mansioni, permanga l’elemento centrale del sistema d’inquadramento[28].
Ebbene, il fatto che il primo comma dell’art. 52 disponga che l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla “qualifica” di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore, o dell’assegnazione di incarichi di direzione, lega sicuramente il significato di qualifica a quello di mansione, come avviene nel lavoro privato.
Al tempo stesso, tuttavia, viene negata ogni rilevanza alo svolgimento di fatto di quelle mansioni non proprie della qualifica di appartenenza, facendo sorgere il dubbio che, ancora oggi, la qualifica sia intesa come una posizione precisa e fissa all’interno dell’organizzazione amministrativa, costitutiva di un vero e proprio status giuridico.
Come infatti abbiamo visto, il lavoratore, in questo contesto, può essere adibito anche alle mansioni corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive, aprendosi un varco allo sviluppo professionale estraneo all’espletamento di procedure concorsuali o selettive[29].
La più logica delle conclusioni è quella che, al pari del diritto privato, ci porta a ritenere che le mansioni hanno avuto il sopravvento sulla qualifica in ogni funzione costitutiva e la seconda esplica una mera funzione ricognitiva di un insieme omogeneo di mansioni, per trattamento economico e normativo.
Sono dunque le mansioni a rappresentare l’oggetto immediato del contratto individuale di lavoro ed a ricondurre all’obbligo lavorativo assunto dal dipendente pubblico. Non è un caso che l’art. 52 parli di qualifica con continuo riferimento e rinvio alla trattazione collettiva[30].
 
 
3.1 Le categorie: la trasposizione delle categorie legali nell’impiego pubblico privatizzato
Dopo aver trattato di mansioni e qualifiche, il discorso va concluso confrontando la disciplina delle categorie nell’impiego privato e nell’impiego pubblico.
Com’è noto, la norma codicistica prevede la distinzione dei lavoratori subordinati in grandi raggruppamenti che il legislatore chiama “categorie”. Si tratta di dirigenti, quadri, impiegati ed operai[31].
Il rapporto di lavoro pubblico, fino al 1993, ha perseguito proprie logiche sistemiche dettate da un legislatore speciale svincolato dal rispetto del codice civile.
Tuttavia, nella disciplina attuale, l’art. 2095 del codice civile è collocato tra le disposizioni appartenenti al Capo I, Titolo II, Libro V, espressamente richiamate dall’articolo 2, comma 2, del D.lgvo n. 165 del 2001[32], a conferma della loro applicabilità al rapporto di lavoro presso le amministrazioni pubbliche, salve – come specifica la norma – “le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”.
Ora, la convivenza tra l’art. 52 del D.lgvo n. 165 e l’art. 2095 del codice civile è possibile perché fanno perno su concetti diversi che non si intersecano tra loro. Lo dimostra anche il fatto che l’introduzione ad opera della legge n. 190 del 1985 della categoria dei quadri, seppure con qualche oscillazione, è stata riconosciuta operante nel settore pubblicistico dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
La riflessione va arricchita attraverso l’analisi del secondo comma dell’art. 40 del D.lgvo n. 165/2001[33], che si chiude con la previsione di “discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto”, per quelle figure professionali che “in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure tecnico scientifici e di ricerca”.
La norma, in altre parole, intende riservare alla contrattazione collettiva una diversità di trattamento di alcune figure professionali[34]. Dunque, di fatto, non solo integra l’art. 2095 del codice civile, concentrandosi sul “trattamento” (ossia l’elemento che definisce le stesse categorie), ma senza derogarlo[35], ma costituisce un’ulteriore dimostrazione della compatibilità tra la disciplina privatistica e quella pubblicistica.
Alla luce di queste considerazione possiamo dire che il rinvio operato dal legislatore alla contrattazione collettiva ha generato due insiemi: il primo è quello inerente la categoria dirigenziale, in riferimento alla quale il legislatore ha operato direttamente, sin dal 1993, l’individuazione della categoria legale[36]; il secondo comprende tutti i dipendenti che non sono dirigenti. Tali soggetti sono inquadrati in un sistema che, al di là delle differenze tra ciascun comparto, presenta una ratio organizzativa volta a permettere alle pubbliche amministrazioni un uso più flessibile delle energie lavorative impiegate.
C’è da aggiungere che la tecnica con cui è stata condotta questa nuova classificazione ha comportato una sensibile riduzione numerica degli elementi più ampi della classificazione[37].
 
3.2.1 La dirigenza
La categoria legale che nell’impiego presso le pubbliche amministrazioni risulta più di ogni altra conforme alla concezione gerarchicamente ordinata e recepita dal legislatore nell’art. 2095 del codice civile è sicuramente quella dirigenziale. Al dirigente, infatti, sono attribuiti i medesimi poteri del datore di lavoro privato, sia in ambito organizzativo che in ambito gestionale, tanto con rilevanza interna che con rilevanza esterna[38].
La riforma della dirigenza ha fatto storia a sé. La necessità di instaurare una nuova cultura operativa si avverte a partire dalla prima legge delega (l. n. 421 del 1992) ed in tutti i provvedimenti successivi, che hanno contribuito a far assumere alla dirigenza il ruolo di vero e proprio motore della riforma, incentrando su essa le aspettative per una rimodulazione della struttura pubblica fondata sulle competenze, in frado di agire sia sull’organizzazione amministrativa che su quella del lavoro.
L’accorpamento delle qualifiche dirigenziali ha previsto oggi due categorie: quella dei dirigenti e quella dei dirigenti generali. Tali qualifiche, in origine sovraordinate gerarchicamente l’una all’altra e connotate da un regime giuridico di applicazione totalmente diverso (pubblicistico per i dirigenti generali e privatistico per la dirigenza ordinaria) sono state profondamente modificate dal legislatore, che ha inteso rendere tendenzialmente uniforme la disciplina[39].
Oggi, dunque, è da ritenersi soppressa la qualifica di dirigente generale, confluita assieme a quella di dirigente nella categoria unitaria coincidente con il ruolo unico di amministrazione, che si articola in due fasce ed i cui componenti vedono il rapporto di lavoro regolato interamente dalle norme del codice civile e dell’ordinamento privatistico.
Ciò che distingue i dirigenti sono piuttosto le funzioni attribuite a tempo determinato, mediante incarichi revocabili[40].
 
3.2.2 La vicedirigenza
Brevi cenni debbono essere svolti sulla vicedirigenza. L’introduzione della categoria è stato effettuato compiendo un rinvio alla contrattazione collettiva, al fine dell’inclusione in tale area dei soli funzionari laureati[41] inquadrati nelle posizioni ordinamentali C2 e C3, per i Ministeri, ed equivalenti negli altri comparti, secondo i criteri dettati dal Ministero per la Funzione Pubblica.
Il problema principale che ha riguardato la configurazione di questa categoria, è stato quello dell’estrema somiglianza a quella dei quadri. Tant’è che la differenza di denominazione e l’utilizzo di una terminologia differente è stata da molti interpretata come il frutto dell’espressa volontà del legislatore di non operare una trasformazione troppo brusca tra vecchia e nuova disciplina. Ne costituisce un’ulteriore dimostrazione – si sostiene – il fatto che la categoria sia stata introdotta con la seconda tornata contrattuale successiva all’emanazione della legge[42].
Per concludere, si può aggiungere che la normativa sulla dirigenza attualmente vigente è molto precisa e puntuale. Si premura di specificare le modalità di accesso ed il sistema di classificazione dei vicedirigenti, i quali dovranno essere inquadrati in una specifica area contrattuale al fine della scrittura di appositi testi negoziali contenenti il loro trattamento economico. Una circostanza questa che, va detto, riduce sensibilmente lo spazio di disponibilità per la contrattazione collettiva.
 
3.3 I quadri
La legge n. 190 del 1985, come noto, ha introdotto nel nostro ordinamento la categoria dei quadri, apportando modifiche all’art. 2095 del codice civile.
In particolare, la legge ha disposto che i requisiti di appartenenza alla categoria siano previsti dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale; tuttavia, lo stesso legislatore ha dato una sorta di definizione sussidiaria della categoria che identifica quei prestatori di lavoro privato a metà tra la dirigenza e gli impiegati.
Il problema della disciplina dei quadri nella pubblica amministrazione si è posto solamente in seguito al richiamo alle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nel’impresa effettuati dal secondo comma dell’art. 2 del D.lgvo n. 165 del 2001. Qui, tuttavia, quel riconoscimento deve passare attraverso un giudizio di compatibilità con l’ordinamento speciale disposto per le pubbliche amministrazioni, a cominciare dalle stesse previsioni del D.lgvo n. 165. In altri termini, è stato assegnato al giudice il compito di verificare questa compatibilità, che ha considerato possibile la convivenza delle due discipline, perché aventi ad oggetto ambiti diversi.
Una conferma in tal senso la ritroviamo nel già citato art. 40, comma secondo, del D.lgvo 165. Il fatto che questo menzioni soggetti che svolgono compiti di direzione dal punto di vista tecnuico, senza effettiva partecipazione allo svolgimento delle funzioni dirigenziali propriamente intese, sembra sancire l’esistenza di una figura professionale coincidente a qulla di quadro anche nella P.A.[43]
 
3.4.1 Gli impiegati. Le problematiche della contrattazione integrata
Come abbiamo visto, la tradizionale distinzione compiuta dal codice civile tra la categoria impiegatizia e quella operaia è stata già ampiamente superata dalla contrattazione collettiva nell’ambito del lavoro privato.
Per quanto riguarda quello pubblico, invece, la parificazione tra operai ed impiegati è stata raggiunta nel corso degli anni ’70, ed inizi degli anni ’80, per diretto intervento della legge, alla quale era rimessa la regolamentazione del rapporto.
L’aspetto che, alla luce di queste considerazioni generali, è più interessante nel D.lgvo n. 165 è sicuramente quello inerente i rinvii che pervengono alla contrattazione collettiva. Fra i più importanti troviamo sicuramente l’individuazione dell’elemento classificatorio definito dal legislatore come “qualifica”, oltre che l’indagine sulle mansioni di assunzione e le mansioni equivalenti dei dipendenti pubblici.
L’analisi delle diverse soluzioni proposte dai contratti porta a concludere  che il rinvio non è solo a questi ultimi, bensì a tutta la contrattazione collettiva, intesa in tutti i suoi livelli, compresi i contratti integrativi per gli enti e quelli territoriali.
Proprio in questi atti negoziali, secondo alcuni autori, è dato rinvenire il fondamento normativo del “freno” che si frappone al completo allineamento tra la disciplina privatistica e quella pubblicistica. Essi contengono infatti numerose disposizioni che reintroducono sistemi di inquadramento obsoleti, fondati ad esempio sull’anzianità del lavoratore, o sulla qualifica formale[44].
Inoltre, a causa di quella che è stata definita la “forte segmentazione nelle procedure contrattuali”, è possibile dipingere solmente un quadro di massima delle tensioni evolutive nei sistemi di inquadramento. Ciò, per tre ragioni: perché anzitutto, come accennato, largo spazio viene lasciato alle determinazioni da assumersi in sede di contrattazione integrativa, la quale, quando c’è stata, non sempre è conosciuta o conoscibile; perché non ancora in tutti i comparti sono stati introdotti sistemi di inquadramento rispondenti al nuovo modello, od ai nuovi modelli, comunque ben desumibili nel contesto generale della contrattazione collettiva; ed infine, perché i contratti esistenti hanno rinviato a future code la determinazione di passaggi chiaave nella regolamentazione del sistema classificatorio, con l’effetto di rimandare sine die il completamento del sistema classificatorio.
 
3.4.2 Classificazioni e mansioni nel reparto Ministeri ed Enti pubblici non economici
Chiariti i problemi interpretativi che comporta una ricerca sulle mansioni e categorie nel settore pubblico, possiamo svolgere una rapida ricognizione delle particolari categorie di impiegati, dividendoli in base all’amministrazione di appartenenza.
Cominciamo da quelli appartenenti alle amministrazioni centrali dello Stato. Il contratto collettivo di comparto per i Ministeri e gli Enti pubblici non economici[45] prevedono tre aree denominate A, B e C, munite di declaratorie che descrivono l’insieme di requisiti indispensabili per l’inquadramento nell’area, corrispondenti a livelli omogenei di competenze; la descrizione degli appartenenti all’area fa anche menzione di attività rimesse all’ambito operativo e gestionale del dipendente.
Ogni area, poi, riunisce più posizioni economiche, per lo più coincidenti con le ex qualifiche funzionali, come suggerito dalle norme contrattuali volte a regolare il reinquadramento del personale già in servizio.
Le posizioni economiche utili all’inquadramento sono sette, più quattro posizioni di mero sviluppo retributivo. Nell’area C, relativa alle professionalità più elevate, sono inoltre inserite un’area separata dei professionisti dipendenti e, per il comparto Ministeri una area di posizioni organizzative, per il comparti Enti non economici un’area di medici.
Senza dilungarci eccessivamente sui particolari, la cosa più interessante da notare è che sono le esigenze organizzative a condurre all’individuazione delle attribuzioni, il cui contenuto professionale ricade nei profili sotto forma di mansioni.
A conferma di ciò ci sono proprio i contratti integrativi summenzionati, i quali specificano che ogni dipendente è tenuto a svolgere tutte le mansioni considerate equivalenti nel livello economico di appartenenza, nonché le attività strumentali complementari a quelle inerenti il profilo investito[46].
 
3.4.3 Classificazioni e mansioni nelle Aziende ed Amministrazioni autonome dello Stato
Come nei comparti ministeriali e degli Enti pubblici non economici, anche in questo caso il personale è classificato in tre aree funzionali, denominate A, B, e C. Queste hanno sostituito più posizioni economiche corrispondenti alle vecchie qualifiche funzionali.
Ancora una volta, come per il caso precedente, è il profilo, collocato nell’area di competenza, a descrivere il contenuto professionale di attribuzioni specifiche. Ad espletare, in altre parole, le mansioni dovute dal prestatore di lavoro.
I profili, a loro volta, sono elencati esaustivamente dallo stesso contratto collettivo, cosicchè ad ogni singola Amministrazione è impedito di intervenire modificando od integrando l’elencazione tassativa compiuta dalle parti negoziali[47].
 
3.4.4 Classificazioni e mansioni nel comparto Regioni ed Autonomie locali
Nel comparto Regioni ed Autonomie locali il personale è stato completamente riclassificato in quattro categorie, ognuna delle quali è individuata mediante declaratorie costruite sulla competenza richiesta per svolgere mansioni pertinenti a ciascuna di esse. Le mansioni, a loro volta, sono indicatenei profili racchiusi nelle categorie.
Si assiste pertato ad una sostanziale corrispondenza tra le quattro categorie e le qualifiche di cui parla il già citato art. 52 del D.lgvo n. 165. Che la categoria qui si identifichi con la qualifica legale trova conferma nelle norme dedicate allo svolgimento di mansioni superiori, essendo ritenute tali quelle attinenti alla categoria immediatamente superiore.
Il sistema di inquadramento adottato nelle Regioni ed Autonomie locali pare delineare, dunque, un modello che, per taluni aspetti, appare ulteriore e diverso da quello dei Ministeri, mentre per altri aspetti vi si avvicina. La peculiarità sta nel fatto che le categorie sono realmente ridotte a quattro, essendosi realizzato un effettivo accorpamento delle ex qualifiche funzionali.
Al di là di ciò esiste un dato in comune, consistente nella supervalutazione della conoscenza e della responsabilità dell’operatore che si trovi inserito in un certo sistema qualificatorio. Ogni categoria presenta, infatti, una declaratoria costruita solo formalmente sulla base di attività, in quanto queste ultime non sono descritte in modo completo e diretto ma, ancora una volta, rinviano ad un sistema di individuazione per il grado di conoscenze del lavoratore, le responsabilità assunte dall’operatore, grado di complessità dei problemi da affrontare e l’importanza delle relazioni interpersonali e con l’utenza, riconducendo ad una ricostruzione delle declaratorie in chiave soggettiva.
Dunque, alla luce di questo confronto, è evidente che qui il profilo vede attenuata la propria funzione di filtro tra esigenze organizzative dell’ente e determinazione delle mansioni.
Queste sono sempre concettualmente ascrivibili ai profili, i quali però sono indicati solo a titolo esemplificativo nel testo negoziale, spettando agli enti il compito di individuarne altri in relazione al proprio modello organizzativo. Dunque, in definitiva, quello del comparto Regioni ed Autonomie locali è un modello più simile al mondo del lavoro privato.
 
 


[1] Cfr. Marino R., Le promozioni nel pubblico impiego, Napoli, 2004, pagg. 660 ss.
[2] Nota, infatti, Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pag. 635: “Non è un caso, infatti, che l’articolo rappresenti un successivo stadio di attuazione di quanto previsto dal legislatore alla legge-delega n. 421/1992, la dove dell’inquadramento non viene fatta menzione, essendo oggetto di delega speciale e soprattutto a disciplina dell’adibizione del lavoratore a mansioni superiori, possibile foriera di conseguenze nefande per le casse delle ammnistrazioni pubbliche”.
In merito anche Italia V. (coordinato da), L’impiego pubblivo. Commento al D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145). Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2004, pag. 847: “L’art. 52 disciplina le mansioni dle pubblico dipendente, riaffermando la tradizionale regola secondo cui il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore conseguita per lo sviluppo di carriera o in esito alle apposite procedure selettive o concorsuali”.
[3] Si tratta peraltro di un termine che il legislatore utilizza frequentemente, ed indistintamente, sia al singolare che al plurale, costituendo una variante del concetto di attività convenuta.
[4] Una circostanza questa che, secondo Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pagg. 636 ss., fa presupporre che il trattamento sia economico che normativo sia quello previsto dalla contrattazione collettiva in corrispondenza alla tipologia di attività svolte che, in perfetta similitudine con il lavoro privato, sono racchiuse all’interno di qualifiche.
[5] La disposizione stabilisce che “il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche è disciplinato secondo le disposizioni degli articoli 2, commi 2 e 3, comma 1. La legge 20 maggio 1970, n. 300, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.
[6] Nota, a tale proposito, Italia V. (coordinato da), L’impiego pubblivo. Commento al D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145). Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2004, pag. 844: “Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministraziuoni viene assoggettato al diritto privato, con l’eccezione di quel personale che ai sensi del citato art. 3, anch’esso richiamato, permane in regime di diritto pubblico. È tuttavia innegabile che l’intrecciarsi di profili organizzativi di rilevante interesse pubblico impone, in ogni caso, un certo carattere di specialità al rapporto di impiego privatizzato”.
[7] Cfr. Italia V. (coordinato da), L’impiego pubblivo. Commento al D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145). Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2004, pag. 844: “Appare pacifica la sottoposizione anche della estinzione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti alla disciplina privatistica. Le conseguenze più rilevanti si pongono con riferimento al diritto del lavoratore al risarcimento del danno così subito ed alla sua possibilità di richiedere, in luogo della reintegra sul posto di lavoro, la speciale ulteriore indennità prevista per i lavoratori privati”.
[8] Simile circostanza è stata rilevata dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Per la dottrina si veda, in particolare Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pagg. 637 ss.; per la giurisprudenza si veda la decisione del Tribunale di Taranto del 11 maggio 2001, pubblicata su Lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2002, pagg. 630 ss.
[9] Se ben si ricorda, nel settore privato è l’organo giurisdizionale l’unico competente ad individuare quali siano le circostanze in ragione stabilire se il lavoratore è stato addetto allo svolgimento di mansioni superiori, e se tale delea è stata legittima o meno.
[10] Ed anche immediatamente identificabile ai sensi dell’art. 96 delle disposizioni attive del codice civile e della disciplina europea della materia, attuata in italia per il tramite del D.lgvo 152 del 1997, in attuazione della direttiva comunitaria n. 533 del 1991).
[11] Secondo Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pag. 637: “Non si concorda con tale interpretazione e si ritiene, invece, condivisibile la prima tesi dottrinale, non solamente per effetto del richimabile art. 1346 del codice civile, che obbliga alla stipula solo dei contratti il cui oggetto sia determinato o determinabile. Tale obbligo, come ritiene la seconda tesi esposta, potrebbe essere assolto anche attraverso il riferimento alla contrattazione collettia, quando qyesta fosse già esplicativa delle possibili varianti dell’oggetto contrattato”
[12] La disposizione stabilisce che è inderogabilmente nullo ogni patto contrario all’adibizione a mansioni superiori al lavoratore cui non corrispondano determnate conseguenze, tra cui il diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e la sopravvenuta definitività dello svolgimento della mansione superiore se il lavoratore assente non torna entro un periodo stabilito.
[13] Che discende, a sua volta, dal dettato costituzionale, in particolare dagli artt. 97 e 98 della Costituzione
[14] Questa obiezione è ben spiegata da Navilli L., nota a Tribunale di Monza, 20.02.2001, in Lavoro nella pubblica amministrazione, 2001, pagg. 678
[15] La disciplina degli effetti dell’assunzione la rinveniamo nell’art. 35, al primo comma, del D.lgvo 165/2001
[16] L’articolo in questione, titolante “rinunzie e transazioni”, stabilisce che “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice civile non sono valide (…)”.
[17] Simili riflessioni trovano conferma in Italia V. (coordinato da), L’impiego pubblivo. Commento al D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145). Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2004, pag. 848: “L’esercizio di fatto di mansioni superiori a quelle proprie della qualifica formale di appartenza non può comportare l’inquadramento del dipendente nella qualifica superiore (ovver l’assegnazione di incarichi di direzione). Questo rimane il tratto differenziale principale con il lavoro privato, trattandosi, infatti, di una disciplina derogatoria alla regola generale civilistica posta sall’art. 2103 cc., secondo cui lo svolgimento protratto di mansioni superiori comporta l’obbligo per il datore di lavoro di reinquadrare il lavoratore nella qualifica superiore corrispondente alle mansioni svolte”.
[18] Cfr. Italia V. (coordinato da), L’impiego pubblivo. Commento al D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145). Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2004, pag. 847: “Anche la giurisprudenza amministrativa ha tradizionalmente inteso l’espost regola in senso decisamente rigoroso, confinando nell’eccezionalità l’adibizione del pubblico dipendente a mansioni diverse da quelle proprie del posto occupato e della qualifica formalmente ricoperta. Di qui il richiamo alla necessaria temporaneità nell’espletamente di mansioni diverse e così pure al dovere delle stesse amministrazioni di vigilare per assicurare la corretta applicazione del segnalato principio generale”.
[19] V. Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pag. 639: “Dal tenore letterale della norma, si deve ritenere che il legislatore, memore del cd. mansionismo che ha caratterizzato nel passato il lavoro presso le amministrazioni pubbliche, abbia pensato notevolmente stretto il campo di esercizio, in forma legittima, del cd. ius variandi verticale da parte del datore di lavoro pubblico”.
[20] Né si può ipotizzare l’alternatività di una di quelle condizioni elencate e di questa condizione preliminare, perché il legislatore ha compiuto un’elencazione che non ha lo scopo di esemplificare le ipotesi in cui si può avere l’assegnazione alle mansioni superiori, piuttosto, ha voluto offrire un elenco tassativo delle circostanze in ragione delle quali si può pensare di ricorrere allo ius variandi.
[21] V. Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pagg. 639 ss.
[22] Si potrebbe aggiungere che una simile conclusione risponde anche all’esigenza di imputare a bilancio ogni singola voce di spesa sostenuta per il personale, soprattutto in una vicenda come questa in cui, paragonando la sostituzione per scorrimento con una semplice sostituzione che interessi solo due lavoratori (ossia quello assente e quello adibito alle mansioni superiori) si determina sicuramente un aggravio dei costi.
[23] Secondo il quale: “si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni”.
[24] Secondo cui: “Nei casi di cui al comma 2, per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore. Qualora l’utilizzazione del dipendente sia disposta per sopperire a vacanze dei posti in organico, immediatamente, e comunqe nel termine massimo di novanta giorni dalla data in cui il dipendente è assegnato alle predette mansioni, devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti”.
[25] Per il quale: “Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprio di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l’asegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave”.
[26] L’art. 2126 titola “prestazioni di fatto con violazione di legge” e stabilisce che : “La nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”.
[27] In generale, sul concetto di qualifica, cfr. Marino R., Le promozioni nel pubblico impiego, Napoli, 2004, pagg. 666: “Il modello della qualifica funzionale postula non solo e non tanto un nuovo ordinamento dle personale che sostituisce la classificazione gerarchica delle carriere e delle qualifichecon una più funzionale divisione del lavoro, mediante la ricompoisizione delle precedenti qualifiche in un limitato numero di livelli funzionali, da identificare con riferimento alle diverse funzioni e responsabilità e alle diverse, effettive esigenze dell’ente”.
[28] Osserva in merito Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pag. 641: “Il legislatore, ben consapevole di ciò che bolliva in pentola di quelle varie commissioni instaurate dai contratti collettivi per la messa a punto di un nuovo sistema d’inquadramento si è ben guardato dal porre le sole mansioni di assunzione al centro dell’obbligo di facere del dipendente. La mano che si accingeva a scrivere il D.lgvo n. 80 del 1998 veniva inizialmente spinta da un coraggioso impulso privatizzante e perequativo volto a dare una qualche rilevanza alle mansioni svolte di fatto, subito spentosi di fronte alle esigenze di contenere la spesa pubblica ed evitare il sorgere di un ingente contenzioso, tanto da arrivare alla presente formulazione del comma 1 dell’art. 52 del D.lgvo n. 165/2001”.
[29] Lo indicherebbe l’utilizzo della congiunzione lessicale “o”.
[30] Chirisce, a tale proposito, Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pag. 642: “Ci si trova innanzi alla legittimazione della stessa al fine di predisporre elementi classificatori – denominati appunto qualifiche – utili all’individuazione del complressivo trattamento del lavoratore, nonché ai margini di flessibilizzazione dell’obbligazione contrattuale attraverso i canali dell’equivalenza e dell’adibizione del lavoratore a mansioni superiori (sia in via provvisoria che in via permanente); il che corrisponde, ancora una volta, a stabilire il sistema per indicare il futuro trattamento riconoscibile al lavoratore”.
[31] È appena il caso di ricordare che la nozione di categoria è nata proprio con riferimento all’impiego privato, dove è stata elaborata in contrapposizione a quella di qualifica e mansioni, dal momento che nelle sue grandi divisioni, indca sinteticamente tutte le qualifiche raggruppate con il medesimo trattamento generale. La norma, quindi, fa leva sulla distinzione di trattamento che l stesso legislatore, oltre che la contrattazione collettiva, hanno storicamente riconosciuto ai collaboratori del datore di lavoro a seconda del grado di collaborazione rivestito. Ha svolto, in altre parole, una finalità definitoria dell’apparato applicativo delle norme che prevedono trattamenti differenziati dei lavoratori a seconda dell’appartenenza all’una o all’altra categoria”.
Osserva peraltro Marino R., Le promozioni nel pubblico impiego, Napoli, 2004, pag. 662: “Si osservam inoltre, come tutta la legislazione sul pubblico impiego abbia subito negli ultimi anni un processo evolutivo che ha avvicinato tale rapporto a quello di lavoro subordinato privato. Questo processo ha determinato una forte attenuazione del principio formalistico che accentuava la indifferenziata posizione di subordinazione gerarchica del dipendente publico, inquadrato nel sistema delle carriere-qualifiche, nel cui ambito le mansioni avevano scarsa rilevanza, e si è inteso, invece, valorizzare il momento della coerente organizzazione del lavoro con conseguente specifica tutela delle esigenze di dignità e professionalità del dipendente come prestaore d’opera”.
[32] Secondo il quale: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate dai successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario”.
[33] L’art. 40 del D.lgvo n. 165 del 2001 riguarda i contratti collettivi nazionali e integrativi e, nel secondo comma, contiene una lunga serie di indicazione sull’applicabilità dei contratti collettivi alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico, concludendosi appunto con la statuizione per cui è possibile prevedere discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto.
[34] Sul rapporto tra legge e contrattazione collettiva si veda Battini S., Rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, in Cassese S. (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pag. 1158: “La legge regola, anzitutto, la struttura della contrattazione collettiva nel settore pubblicistico. Vi sono tre livelli. Il primo è rappresentato dai contratti che definiscono i comparti e che regolano istituti comuni a più comparti (…). In secondo luogo, la legge stabilisce il procedimento per la stipulazione del contratto collettivo (…). Una volta sottoscritto, il contratto vincola tutte le amministrazioni legalmente rappresentate dall0Aran, alle quali la legge impone anche di garantire parità di trattamento a tutti i loro dipendenti
[35] Esso infatti effettua un rinvio alla contrattazione collettiva al fine della determinazione dei requisiti di appartenenza alle indicate categorie.
[36] Tant’è che, la categoria appare ancora oggi estremamente unificata, con problemi relativi esclusivamente alla sanità.
[37] Cfr. Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pag. 645: “All’interno di questa scala sono premesse attraverso sistemi di valutazione del personale delle c. progressioni verticali, cioè, dei veri e propri avanzamenti di cariera, con il miglioramento professionale e destinazione a mansioni più pregiate; inoltre, sono normalmente possibili all’interno di tali macroaree, categorie meramente economiche che sono normalmente definite dagli stessi contratti collettivi progressioni orizzontali”.
[38] Come si è detto già ampiamente, questa gerarchizzazione è venuta sfumando negli anni. Osserva, a tale proposito, Marino R., Le promozioni nel pubblico impiego, Napoli, 2004, pag. 662: “L’introduzione della qualifica funzionale nel settore del pubblico impiego (…) ha determinato il superamento della classificazione gerarchica delle carriere e delle qualifiche, sostituita con una più funzionale divisione del lavoro, ottenuta tramite l’esatta individuazione di qualifiche raggruppate in livelli”.
[39] V. Chirisce, a tale proposito, Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pagg. 647 ss.
[40] Tale è anche l’opinione della giurisprudenza, Si veda ad esempio la decisione della corte costituzionale n. 11 del 2002, pubblicata nella rivista Lavoro presso le pubbliche amministrazioni, pagg. 293 ss.
[41] Sebbene, nella fase transitoria, fossero ammessi anche i dipendenti non laureati.
[42] Così Italia V. (coordinato da), L’impiego pubblivo. Commento al D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145). Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2004, pagg. 844 ss., il quale ritiene che l’intenzione di non attuare completamente l’immissione della vicedirigenza per legge sarebbe coerente con l’individuazione della contrattazione collettiva come strumento ordinario di gestione dell’inquadramento dei lavoratori.
[43] Si ricorda che la disposizione in esame disciplina le figure professionali che si trovano in posizione di elevata professionalità e svolgono compiti di direzione o che comportano l’iscrizione ad albi. C’è comunque da dire che, secondo alcuni, la norma costituirebbe una diversa disposizione contenuta nel decreto n. 165 in funzione della quale per le amministrazioni pubbliche si potrebbe derogare alla legge n. 190. Simile impostazione è stata criticata perché l’art. 40 è espressamente dedicato alla regolamentazione del sistema di contrattazione collettiva e dunque non pare idoneo alla individuazione o alla negazione della costituzione di una categoria contrattuale.
[44] Si confronti, ad esempi, quanto sostenuto da Italia V. (coordinato da), L’impiego pubblivo. Commento al D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145). Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2004, pagg. 850 ss.; della stessa opinione anche Clarinci F., Zoppoli L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pagg. 661: “Difficilmente un qualsiasi quadro d’insieme sui futuri sistemi di inquaramento potrà dirsi realizzabile se verrà confermata la tendenza di quelli integrativi, che ben riesce nell’intento di alterare sostanzialmente le linee portanti del sistema costtuito dal contratto di comparto cui si riferiscono. Ciò, soprattutto con riferimento all’inquadramento dinamico, rileto, negli intergativi, come occasioni per slittamenti più o meno ampi a seconda delle disponibilità finanziarie”.
[45] Quello che rileva maggiormente è il penultimo, risalente al 1999. L’ultimo, infatti, siglato sotto forma di ipotesi di accordo nel febbraio 2002, non innova la materia della classificazione dei lavoratori, rimandando ogni intervnto sul tema ad una instauranda Commissione per il sistema classificatorio.
[46] Da questa circostanza alcuni autori hanno desunto che il lavoratore sarebbe legittimato a rifiutare il compimento di talune attività, benchè riconducibili a profili collocati nella posizione economica di appartenenza, qualora tali mansioni siano non equivalenti. Se invece le mansioni assegnate sono riconducibili ad un profilo di livello economico superiore, oltre che ad essere impedito per espressa volontà delle parti contrattuali un giudizio di equivalenza tra esse e quelle di assunzione, trovano operatività le garanzie e le procedure per l’adibizione a mansioni superiori previste dall’art. 52 del D.lgvo n. 165 e dai contratti.
[47] Circa, poi, lemansioni superiori, i contratti di comparto tendono a considerare tali tutte quelle svolte dal dipendente all’interno della stessa area in profilo appartenente alla posizione di livello economico immediatamente superiore a quella in cui egli è inquadrato, facendo sì che possa considerarsi costituente una qualifica.

Sgueo Gianluca

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