Corte di Cassazione Penale 20/7/2007 n. 29352

Redazione 20/07/07
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Fatto

1. C.E. era stato ritenuto responsabile in primo grado del reato di cui all’art. 589 c.p. per avere determinato per colpa, quale medico curante di P.R. e primario del reparto di ginecologia della clinica (omissis), la morte "del feto" che la P., giunta alla 39^ settimana e 3 giorni di amenorrea, teneva ancora in grembo e condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di otto mesi di reclusione, nonchè al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore delle parti civili P.R. e suo marito M.E..

1.2. La colpa contestata al C. consisteva nel non avere correttamente valutato lo stato della paziente e in particolare gli esiti del tracciato cardiotocografico che dalle 12,30 del giorno 26 maggio 2000 presentava chiare anomalie, sintomatiche di sofferenza, omettendo di intervenire con tempestivo parto cesareo. Accertata nel pomeriggio (alle 19,30 dello stesso giorno 26 maggio) la cessazione di attività elettrica riferibile al feto e nelle ore successive, tramite ecografia, la morte intrauterina dello stesso, la P. era stata trasferita al Policlinico (omissis) dove, indotto il parto, alle 22,30 aveva partorito, morto, un bambino a termine esente da malformazioni e che presentava due giri di cordone ombelicale al collo e uno a bandoliera.

2. Proposto appello dal C., la Corte di merito confermava la sua responsabilità per colpa, qualificava il fatto alla stregua di aborto colposo ai sensi della L. n. 194 del 1978, art. 17, riduceva la pena a sette mesi di reclusione e confermava nel resto la sentenza impugnata.

3. Ricorre il C. per mezzo del suo difensore chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

3.1. Con il primo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la manifesta illogicità della motivazione assumendo che l’imputato andava assolto per non avere commesso il fatto sul presupposto che, avendo il perito dott. A. riferito che dalle circostanze appurate nella tarda mattinata del giorno 26 maggio i tempi imposti per il parto cesareo erano estremamente brevi, all’intervento doveva procedere il medico di guardia (dottoressa ***, originariamente coimputata e assolta dal Tribunale), responsabile del reparto sino alle 14, non potendosene addebitare l’omissione al C., occupato nel servizio di ambulatorio.

Nell’ambito dello stesso motivo si deduce quindi che nessuna prova era stata data che un intervento, "effettuato necessariamente oltre i tempi indicati dal prof. A.", avrebbe potuto salvare il bambino.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta, sempre ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), l’eccessività della pena, la mancata concessione di sanzione sostitutiva e la manifesta illogicità della motivazione su tali punti, in contrasto con l’avvenuta riqualificazione del fatto e con la necessaria considerazione della fiducia che il ricorrente aveva riposto nell’operato della sua collega, apoditticamente incentrata sull’affermazione che l’imputato non aveva dato giustificazioni del suo operato e dunque, arbitrariamente, sulla legittima scelta difensiva di restare contumace.

3.3. Con ultimo motivo, nell’ambito della richiesta della sospensione della esecutività della provvisionale, lamenta l’eccessività di questa, anche in considerazione del fatto che nessun elemento sarebbe stato acquisito sui danni che al bambino poteva avere già prodotto l’improvvisa, e non addebitabile ad alcuno, sofferenza fetale.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo, che s’appunta sulla asserita incolpevolezza del ricorrente, o meglio su pretesi vizi della motivazione che tale colpevolezza ha affermato, ripete prospettazioni cui i giudici di merito hanno già dato esauriente risposta ed è manifestamente infondato giacchè le ragioni giustificatrici della decisione, conformi nei due giudizi di merito, sono adeguatamente argomentate, sono basate su una scrupolosa disamina dei fatti, sono confortate dai rilievi peritali e dall’assenza di reali giustificazioni offerte al proprio comportamento omissivo dal C.; sono giuridicamente corrette attesa la duplice posizione di garanzia che il ricorrente rivestiva quale medico curante della P. e quale responsabile del reparto di ostetricia e ginecologia della casa di cura nella quale l’aveva fatta recare, già scaduto il termine di gestazione, per la necessità appunto di monitorare le sue condizioni e quelle del bambino.

1.1. Con assoluta coerenza, in particolare, la Corte d’appello ha osservato che: nessun dubbio, innanzitutto, poteva sussistere in ordine "alla effettiva conoscenza da parte dell’imputato delle condizioni della partoriente e del feto fin dal primo monitoraggio cui la donna fu sottoposta alle ore 12,30, inviata proprio dall’ambulatorio del dott. C.", essendo state le dichiarazioni della dottoressa Co. sul punto confermate dagli stessi parenti della P. su quanto il dott. C. aveva loro detto ("aveva visto tutto ed era tutto a posto"). Non fondate sono dunque le osservazioni del ricorrente sulla asserita illogica attribuzione del "crisma della verità" a quanto riferito dalla sola dottoressa ***; oltre che del tutto generiche, quando sostengono non pienamente dimostrato che il C. fosse stato messo a conoscenza della situazione, e intrinsecamente inverosimili, atteso il suo ruolo di responsabile del reparto della casa di cura nonchè di medico curante della paziente.

1.2. Quanto alla deduzione che il dott. C. era "impegnato" nel servizio d’ambulatorio (e che dunque all’intervento cesareo d’urgenza avrebbe dovuto semmai provvedere il medico "operante nel reparto"), essa risulta, in fatto, plausibilmente contraddetta da quanto osservato dalla Corte d’appello con riferimento alle dichiarazioni della dottoressa ***, e cioè al fatto che questa aveva chiarito che "mentre la terza volta parlò con il C. nel corridoio, le prime due volte lo vide nell’ambulatorio, ove era presente la moglie", cosa che evidenziava "la tranquillità della situazione che ben gli avrebbe consentito di recarsi, come aveva detto, a vedere la P.". Nè il ricorrente deduce da quali elementi (in ipotesi sicuramente traibili dai supporti documentali) sarebbe emerso che, oltre ad essere fisicamente nei locali dell’ambulatorio, sarebbe stato lì impegnato da attività più urgente o grave di quella che gli veniva prospettata.

In diritto, poi, la deduzione è irrilevante, vuoi perchè incombeva comunque al medico, doppiamente responsabile della paziente ricoverata nel proprio reparto, dare priorità all’urgenza (più che plausibilmente riconosciuta nella situazione de quo sulla base degli accertamenti peritali) che prudentemente doveva cogliere nella situazione riferitagli; vuoi perchè, comunque, la veste di responsabile del reparto poneva a suo carico il dovere di intervenire se non altro mediante disposizioni tempestive, accurate e precise.

Mentre l’eventuale concorrente inerzia nella intrapresa di autonoma iniziativa della dottoressa addetta quella mattina al reparto avrebbe potuto al più porsi – ove anche fosse stato possibile ipotizzare che la struttura organizzativa e gerarchica della Casa di cura tali autonome iniziative di fatto non impediva – sul piano del concorso di colpe (peraltro già ragionevolmente escluso).

1.3. Manifestamente infondata è quindi la doglianza sulla assenza di prova certa che un pronto intervento del C. avrebbe potuto salvare il bambino. Sul punto la Corte d’appello ha già sufficientemente risposto osservando come l’affermata indilazionabilità dell’intervento non stava a significare che "il bambino strava morendo in quel momento", che v’erano, dunque, teoricamente i tempi per allestire una sala operatoria e garantire un’adeguata assistenza alla mamma, e che, inoltre, alle ore 18, in effetti, il bambino era ancora vivo.

Sicchè non può sicuramente dirsi carente o illogica l’affermazione che v’era alta probabilità che un intervento tempestivo avrebbe scongiurato la morte del feto (la giurisprudenza di questa Corte è d’altra parte costante nell’affermare che in materia di responsabilità per colpa professionale del sanitario al criterio della certezza degli effetti della condotta non può non sostituirsi quello della probabilità e della idoneità di essa a produrre tali effetti, nel senso che il nesso causale sussiste anche quando l’opera del medico, tempestivamente e correttamente intervenuta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabilità di successo, tali da far ritenere che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata: sul presupposto che quando "è in gioco la vita umana, anche limitate probabilità di successo di un immediato intervento chirurgico valgono a configurare la necessità di operare, non essendo necessaria la certezza di poter scongiurare l’evento letale";

vedi tra molte Sez. 4, Sentenza n. 21709 del 29/01/2004 *****).

Con riferimento alla censura in esame e all’analogo argomento sviluppato nel terzo motivo di ricorso, relativo alla mancanza di elementi circa i danni che la sofferenza fetale poteva avere già prodotto, non può non rilevarsi, per altro, che le deduzioni con le quali si dubita della vitalità del feto sarebbero state, semmai, giustificate nell’ambito dell’ipotesi delittuosa originariamente contestata (di omicidio colposo), ma sono non conferenti in relazione a quella – ritenuta sulla base di un orientamento che individua la linea di demarcazione tra le due fattispecie con l’inizio del travaglio – del L. n. 194 del 1978, art. 17. La fattispecie per la quale il C. è stato condannato presuppone difatti la violazione di regole cautelari volte prevenire lo specifico evento ivi considerato, e cioè l’interruzione della gravidanza e la morte del feto, a prescindere dalla possibilità di vita autonoma e, a maggior ragione, della vitalità del prodotto del concepimento (per via di argomenti traibili oltre che dal dato testuale, dalla lettura sistematica della disciplina istituita dalla L. n. 194, nella quale ad essere presa in considerazione agli effetti delle diverse fattispecie incriminatici è, al più, l’autonomia).

2. Manifestamente infondato, perchè la Corte ha adeguatamente motivato, e inammissibile, perchè tendente a introdurre la richiesta di rivalutazioni che attengono interamente al merito, è quindi il secondo motivo, relativo al trattamento sanzionatorio e alla denegata sostituzione della pena, sospesa, inflitta.

Immune da vizi è infatti la motivazione che accompagna la commisurazione della pena e l’esercitato potere discrezionale di negarne la sostituzione in relazione alla affermata gravità della condotta dell’imputato e alla mancanza di qualsivoglia giustificazione del suo operato. Mentre il riferimento al comportamento processuale dell’imputato – considerato non, come sostiene il ricorrente, per la scelta della contumacia e traendone argomento di prova a suo carico, bensì per la sostanziale assenza di giustificazioni fornite – non è affatto scorretto, dal momento che detto riferimento si iscrive nella doverosa valutazione delle modalità dell’azione e della gravità della componente soggettiva del reato nonchè delle condotte del reo, ai sensi del comma 1 nonchè dell’art. 133 c.p., comma 2. 3. Inammissibile è infine la censura con il quale si critica l’ammontare della provvisionale (pari a 40.000,00 Euro) riconosciuta alla parte civile, anche in considerazione del fatto che mancherebbe la prova di dei danni che il bambino aveva subito a causa della sofferenza fetale. Su tale ultimo aspetto s’è già detto, mentre l’unico limite che incontra il giudice di merito nella liquidazione della provvisionale è, a norma dell’art. 539 c.p.p., quello della prova già raggiunta del danno, patrimoniale e non, prevedibilmente subito dalla parte. E la valutazione del danno, in specie non patrimoniale, ove non trasmodi in palese irragionevolezza non è censurabile in sede di legittimità.

Preliminare è comunque l’osservazione che il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è – per consolidato orientamento (cfr. Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, Aliano, e tra le moltissime conformi da ultimo Sez. 5, n. 5001 del 17/01/2007, *******) impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato è destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento.

4. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 500,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 500,00 in favore della cassa delle ammende.

Redazione