We are the world, we are the children

Sottana Serena 09/07/09
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Con queste parole un cantante quale Michael Jackson ci ha ricordato i nostri doveri verso un continente che necessita del nostro aiuto:l’Africa.
Proprio in Africa avviene, infatti, uno dei fenomeni più ignobili che l’uomo possa compiere verso i suoi simili: lo sfruttamento minorile. Per rimarginare almeno le ferite più profonde che lo sfruttamento commette nel 1989 in America, nello stato di New York, si è pensato di riflettere su questo fenomeno e, quindi, di scrivere alcune leggi. Il 20 novembre 1989, i rappresentanti degli Stati del pianeta, riuniti nell’Assemblea Generale dell’ONU, approvavano all’unanimità il testo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
La convenzione sopraccitata si ispira a quella precedente sui diritti dell’uomo del 1948, ma, nonostante le sue fondamentali e buone intenzioni si riferisce all’individuo come un “essere adulto”, e quindi anche il bambino viene visto in questo caso come una persona in grado di essere autosufficiente in ogni sua azione ed in grado di procurarsi da vivere anche da solo.
Premettiamo che nel 1700, un illustre teorico, tale Rousseau, scrisse un trattato, l’Emilio, dove per la prima volta riconosceva i bambini come tali, nello specifico, come “cuccioli dell’uomo”, ovvero come esseri “minori” (minus habentes) e quindi non titolari di diritti autonomi.
Cosa successe allora, affinché queste visioni del piccolo venissero variate e che successivamente i fanciulli potessero usufruire dei diritti umani?
Si mossero di fatto, nel ‘900, nuove visioni dell’infanzia e dell’adolescenza, alimentate della democratizzazione del sapere e della cultura, dalla diffusione di nuove conoscenze sociologiche e psicoanalitiche accompagnate, seppure timidamente, da nuove leggi che prendevano piede in alcuni paesi, come ad esempio il nostro. Tutto ciò implica che i “minori” dovessero anche essi rivendicare dei diritti che li difendessero dal mondo adulto. Ma esattamente, cosa si intende per bambino/fanciullo?
Secondo la definizione della Convenzione sono "bambini" (il termine inglese "children", in realtà, andrebbe tradotto in "bambini e adolescenti") gli individui di età inferiore ai 18 anni (art. 1), il cui interesse deve essere tenuto in primaria considerazione in ogni circostanza (art. 3).
E cosa tutela questa convenzione?Tutela il diritto alla vita (art. 6), nonché il diritto alla salute e alla possibilità di beneficiare del servizio sanitario (art. 24), il diritto di esprimere la propria opinione (art. 12) e ad essere informati (art. 13).
I bambini hanno diritto al nome, tramite la registrazione all’anagrafe subito dopo la nascita, nonché alla nazionalità (art.7), hanno il diritto di avere un’istruzione (art. 28 e 29), quello di giocare (art. 31) e quello di essere tutelati da tutte le forme di sfruttamento e di abuso (art. 34).
L’Italia ha ratificato la Convenzione il 27 maggio 1991 con la legge n. 176 e a tutt’oggi 193 Stati, un numero addirittura superiore a quello degli Stati membri dell’ONU, sono parte della Convenzione.
Nonostante la presenza di ben 193 paesi, alcuni stati preferiscono vedere il bambino come una fonte di sopravvivenza, oppure non seguono alla perfezione queste regole, quindi è stata instaurata una “fonte di monitoraggio” prevista dall’art. 44 la quale prevede che tutti gli stati debbano presentare un rapporto periodico al comitato sui diritti dell’infanzia (a 2 anni dalla ratifica e, in seguito, ogni 5 anni) sull’attuazione, nel loro rispettivo territorio, dei diritti previsti dalla Convenzione. La Convenzione sollecita i Governi ad impegnarsi per rendere i diritti in essa enunciati prioritari e per assicurarli nella misura massima consentita dalle risorse disponibili. Ci auguriamo che anche gli stati che ancora non hanno aderito a questa iniziativa possano esserne messi al corrente e decidano di ratificarla.
 
 
Serena Sottana

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