Trib. Modica, Ordinanza 17 novembre 2009, Giudice M. Fiorentino

Redazione 13/05/10
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In materia di licenziamenti, il ricorso all’articolo 700 del codice di rito non è soggetto a limitazioni in ragione della natura della tutela accordata dall’ordinamento (reale o obbligatoria).

L’ambito di operatività dell’art. 700 c.p.c., in via di principio, non è nemmeno precluso alle domande volte al conseguimento di prestazioni di carattere economico, al sussistere dei presupposti legislativamente previsti, quali sono il fumus boni iuris (probabile fondatezza del ricorso) e il periculum in mora (pericolo di pregiudizio imminente ed irreparabile).

Peraltro, nell’ambito della tutela obbligatoria (ex art. 8 legge n. 604 del 1996), l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato è preordinata a garantire – quantomeno nell’immediato – non solo la dignità e la libertà del lavoratore, ma anche – se non soprattutto – le esigenze alimentari dello stesso e, dunque, risulta posta a tutela di posizioni giuridiche soggettive di primaria rilevanza, anche costituzionale (arg. ex art. 36 Cost.), che bene possono essere esposte al pericolo di una irreparabile compromissione (e ciò con particolare riguardo alle famiglie “monoreddito”, con prole, con esposizioni debitorie correlate ad esigenze primarie, quali l’acquisto della casa di abitazione, o gravate da canoni di locazione, etc.).

Non appare condivisibile la soluzione interpretativa che giunge a negare automaticamente il periculum in mora allorquando il licenziamento afferisca all’area della tutela obbligatoria (cfr. Tribunale di Caltanissetta, 16 dicembre 2004; Tribunale Milano 18 settembre 2000).

Invero, nell’ambito della tutela obbligatoria, la valutazione che il datore di lavoro deve effettuare (se riassumere il lavoratore o versargli l’indennità stabilita dal giudice) non può essere presunta alla luce delle mere difese spiegate in giudizio (o dalla volontà espressa in tale sede di non volere riassumere il lavoratore), posto che tale scelta, ai sensi dell’art. 8 legge 15/7/1966 n. 604, deve essere effettuata dal datore entro tre giorni dalla comunicazione del provvedimento giurisdizionale che dichiara illegittimo il recesso, alla luce dell’accertata illegittimità e dell’entità dell’indennità stabilita dal magistrato (tutti elementi di cui il datore di lavoro, ovviamente, non può avere conoscenza se non al momento della pronuncia), apparendo peraltro scontato che il datore di lavoro che si difenda in giudizio, resistendo al ricorso promosso dal lavoratore e sostenendo la legittimità del recesso, ribadisca, in tale ambito, la propria volontà di risolvere il rapporto.

Prima di tale fase, ricostruire la volontà del datore alla luce delle difese di causa rischia di svilire il senso del meccanismo legislativo, basato sull’alternativa tra pagamento dell’indennità e riassunzione.

Ne consegue che la volontà espressa in sede giudiziaria non può consentire al giudice l’anticipazione di valutazioni che non gli competono e che solo il datore è chiamato ad effettuare, dopo la pronuncia giurisdizionale, eventualmente resa anche in sede cautelare.

Anticipare tale valutazione al momento del giudizio cautelare, inoltre, rischia di ridurre arbitrariamente la tutela apprestata dall’ordinamento a favore del lavoratore e, in specie, la probabilità che lo stesso, ingiustamente licenziato, possa essere riassunto in tempi brevi dall’impresa (che bene potrebbe riconsiderare le proprie posizioni iniziali, ritenendo più opportuno riassumere il lavoratore, anziché soggiacere alla condanna del pagamento dell’indennità).

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