Vendita autocarro: il contratto non è risolto anche se i documenti di circolazione dell’autocarro sono irregolari (Cass. n. 14649/2013)

Redazione 11/06/13
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Svolgimento del processo

Nel 1994 F.B. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Padova, L.P., per sentirlo condannare al pagamento della somma di lire 10.930.000, quale residuo prezzo di vendita di un autocarro. Nel resistere in giudizio il convenuto domandava in via riconvenzionale la risoluzione del contratto per inadempimento dell’attore, lamentando l’irregolarità dei documenti di circolazione del veicolo, che non davano atto della trasformazione del motore da aspirato a turbo.
Il Tribunale accoglieva la domanda riconvenzionale, disponendo le restituzioni del caso.
Gravata da F.B., tale sentenza era ribaltata dalla Corte d’appello di Venezia, la quale, esclusa la risolubilità del contratto, condannava L.P. al pagamento della somma di Euro 5.564,87, oltre accessori e spese di giudizio.
Riteneva la Corte distrettuale che nonostante l’irregolarità del documento di circolazione, l’acquirente aveva potuto godere ugualmente del veicolo, tanto da alienarlo a sua volta a terzi. Di conseguenza, la domanda di risoluzione del contratto non era accoglibile sia perché l’inadempimento doveva ritenersi di scarsa entità avuto riguardo all’interesse dell’altra parte, sia in quanto la parte che aveva domandato la risoluzione non era più in grado di restituire la res vendita.
Contro tale sentenza propone ricorso per cassazione “l’Impresa P. Luciano (…) ora P. s.r.l. (…) in persona del leg. rapp. pro tempore ********* ” (così, testualmente, nell’epigrafe del ricorso).
Resiste con controricorso F.B. .
Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo d’impugnazione parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 101, 112, 116, 342 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c..
La Corte territoriale, si sostiene, avrebbe fondato la propria decisione su fatti e motivi diversi da quelli dedotti dall’appellante. Quest’ultimo non ha mai domandato, neppure in subordine, la restituzione del veicolo, né mai ha eccepito l’insussistenza del proprio inadempimento o ha negato la gravità di esso, avendo soltanto affermato la mala fede dell’appellato per il fatto di non poter più restituire il bene.
Formula, al riguardo, il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte se il giudice d’appello possa fondare il proprio convincimento su fatti successivi alla proposizione della domanda e su circostanze e motivi non dedotti dall’appellante”.
1.1. – Il motivo è destituito di pregio.
Non è che la Corte territoriale abbia accolto la domanda principale in base a fatti diversi da quelli dedottivi a sostegno (stipula del contratto di vendita e inadempimento dell’obbligazione di pagamento del prezzo); al contrario, ha semplicemente respinto la domanda riconvenzionale sulla scorta di due norme – l’art. 1455 c.c. che subordina la risoluzione alla non scarsa importanza di dell’inadempimento, avuto riguardo all’interesse del creditore, e l’art. 1492, 3 comma c.c., che esclude la risoluzione nel caso di alienazione a terzi della res vendita – la cui applicazione non rientra certo nella disponibilità delle parti. Dolersene, equivale a negare non solo il principio per cui iura novit curia, ma anche la potestà, propria del giudicante, di individuare le norme applicabili, di interpretarle, di selezionare i fatti rilevanti e, con essi, di ripartire gli oneri probatori.
2. – Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1241, 1453, 1454, 1455 e 1458 c.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c..
Parte ricorrente contesta l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui l’acquirente sarebbe riuscito facilmente a reimmatricolare il veicolo, atteso che ciò sarebbe avvenuto nove anni dopo la vendita e che nessuna norma stabilisce che competa all’acquirente regolarizzare i documenti relativi al bene venduto, non senza considerare che nella specie il venditore non aveva ottemperato alla diffida ad adempiere, ai sensi dell’art. 1454 c.c., e che sull’irregolarità di tali documenti si è formato il giudicato interno.
Seguono due quesiti di diritto: “Dica la Suprema Corte se la vendita di un autocarro con documenti non conformi a quanto convenuto sia o meno un grave inadempimento e se competa all’acquirente regolarizzarli nonostante l’avvenuta diffida ad adempiere al venditore pena la risoluzione del contratto”.
“Dica inoltre se il fatto che successivamente, dopo addirittura nove anni dall’acquisto, l’acquirente abbia potuto regolarizzare i documenti ciò (sic) sia circostanza rilevante nell’accertata risoluzione del contratto per inadempimento del venditore”.
2.1. – Anche tale motivo è infondato.
Quanto al primo quesito, è sufficiente osservare che a) la diffida ad adempiere non dimostra la gravità dell’inadempimento, ma esprime la volontà del creditore di provocare lo scioglimento de ime del contratto ove ne ricorrano le condizioni, tra cui la gravità dell’inadempimento (irrilevante solo nel caso di risoluzione ex art. 1456 c.c.), che è il giudice, e non la parte, a dover apprezzare; b) l’importanza dell’inadempimento ai fini dell’applicazione dell’art. 1455 c.c. è una variabile dipendente dall’interesse del creditore, e non dalla pretesa risolutiva.
Il secondo quesito, invece, introduce una critica ad una valutazione di fatto, a sua volta non efficacemente aggredita con riguardo ai parametri di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.. La possibilità di regolarizzare i documenti di circolazione del veicolo e la loro effettiva regolarizzazione sono circostanze idonee a supportare logicamente la decisione di merito, rendendola così non sindacabile in questa sede di legittimità.
3. – Col terzo motivo è dedotta la violazione dell’art. 324 c.p.c..
Premesso che sulla gravità dell’inadempimento, ritenuta dal giudice di primo grado, si è formato il giudicato interno, e che l’effetto devolutivo dell’appello è limitato dai motivi specifici d’impugnazione, parte ricorrente sostiene che nel valutare la gravità dell’inadempimento il giudice non può tenere in considerazione eventi successivi alla proposizione della domanda di risoluzione del contratto, ma deve pronunciarsi sulla situazione così come cristallizzatasi al momento della proposizione della domanda.
Seguono anche in tal caso due quesiti: “Dica la Suprema Corte se possano influire sulla domanda come proposta e sull’accertato grave inadempimento contrattuale comportante la chiesta risoluzione del contratto, fatti successivi alla domanda giudiziale, e comportare quindi la riforma della sentenza accertante il grave inadempimento”.
“Dica la Suprema Corte se il giudice d’appello pur in assenza di specifica domanda in tal senso possa diversamente valutare fatti incontestati come nel caso l’impossibilità di regolarizzazione dei documenti comportanti l’impossibilità di commercializzare ed anche utilizzare del bene (sic) con documenti irregolari al tempo dell’avvenuta vendita e relativa domanda di risoluzione per inadempimento”.
3.1. – Il motivo è infondato.
Il primo quesito impone una risposta affermativa, perché a) non vi è giudicato interno sulla gravità, ma semmai solo sull’inadempimento, poiché la gravità è condizione dell’azione di risoluzione, la quale è stata oggetto, appunto, di gravame da parte del B. (v. le conclusioni dell’atto d’appello e la narrativa della sentenza impugnata, a pag. 4); b) le condizioni dell’azione devono esistere al momento della decisione, non della domanda (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. per tutte, le risalenti ma sempre valide Cass. nn. 4052/69 e 3737/74).
Il secondo quesito, poi, è incomprensibile e quindi inammissibile. Premesso che la valutazione dei fatti storici non forma oggetto ex se di domanda giudiziale, perché è tale solo la richiesta che miri ad ottenere un effetto suscettibile di giudicato sostanziale, deve rimarcarsi che una cosa sono i fatti storici incontroversi, altra la loro valutazione, pienamente iterabile in appello col solo limite del giudicato interno, nella specie non formatosi, avendo l’appellante impugnato proprio il capo della sentenza di primo grado che aveva dichiarato risolto il contratto. E tale impugnazione si estende a tutti gli accertamenti implicati dalla logica giuridica sottesa alla pronuncia.
4. – Col quarto motivo è dedotta la mancata valutazione della domanda subordinata, in violazione degli artt. 112 c.p.c. e 1241 e 1453 c.c.
In via subordinata L.P. aveva chiesto la reiezione della domanda del B. essendo incontrovertibile che il venditore non aveva mai consegnato all’acquirente documenti del veicolo conformi a quanto pattuito, per cui l’attore non aveva diritto al pagamento integrale del prezzo. Su tale domanda (rectius, eccezione di merito: n.d.r.) la Corte d’appello non si sarebbe pronunciata.
Anche se si ritenesse l’alienazione del bene ostativa l’accoglimento della domanda di risoluzione, non potrebbero non computarsi a carico dello stesso venditore riconosciuto inadempiente quanto meno i danni subiti dall’acquirente, come dalla sua domanda subordinata.
Il motivo termina con il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte se il Giudice d’appello che ha ritenuto la sussistenza di un inadempimento, ancorché ritenuto non grave debba o meno liquidare i relativi danni ex art. 1453 c.c. compensandoli con eventuali crediti di esso venditore inadempiente ex art. 1241 c.c.”.
4.1. – Anche tale motivo è infondato.
In disparte il fatto che i danni da inesatto adempimento non derivano dall’art. 1453 c.c., ma dalla previsione dell’art. 1218 c.c., va osservato che è vero che l’appellato aveva riproposto la domanda subordinata di danni, rimasta assorbita in primo grado, ma è evidente che la Corte d’appello l’abbia in effetti tacitamente decisa lì dove ha escluso che il P. non abbia potuto godere del veicolo, tant’è che gli era stato possibile alienarlo a terzi. Ed anche quest’ultimo accertamento di fatto non forma oggetto di censura sotto i profili di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c..
5. – Il quinto motivo (rubricato nel ricorso sub n.4) denuncia la violazione del principio tempus regit actum, relativamente alla questione sulla producibilità in appello di documenti ulteriori. Sostiene parte ricorrente che la produzione di nuovi documenti operata dall’appellante viola il divieto posto dall’art. 345 c.p.c., così come interpretato dalle S.U. di questa Corte con sentenza n. 8203/05, e non ricade sotto la previsione di indispensabilità, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte distrettuale.
Formula al riguardo il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se sia ammissibile la produzione documentale in appello di documenti non riguardanti il thema decidendum bensì fatti successivi che esulano dalle domande come proposte nel giudizio di primo grado”.
5.1. – Il motivo è per un verso inammissibile, poiché, come del resto ha precisato anche la sentenza impugnata, la presente controversia (iniziata con citazione notificata il 1.8.1994: v. pag. 3 del ricorso) è soggetta alle norme processuali previgenti alle modifiche apportate dalla legge n. 353/90 a decorrere dal 30.4.1995; e per altro verso infondato, perché la produzione in giudizio delle prove precostituite è sottratta al sindacato di rilevanza da parte del giudice di merito.
6. – La reiezione dei motivi d’impugnazione rende vano l’esame dell’eccezione di nullità della procura a margine del ricorso, sollevata dalla parte controricorrente in considerazione del dubbio sulla qualità del firmatario, non essendo chiaro se P.L. l’abbia rilasciata in proprio o nella veste di legale rappresentante della società cessionaria del diritto controverso.
7. – In conclusione il ricorso va respinto.
8. – Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 1.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.

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